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Patrizia Cammunci

Il bambino e la famiglia: esistenze in gioco

Relazione presentata al Convegno Internazionale  “IL BAMBINO E L’ALTRO”
Centro Psicoanalitico Lacaniano - Napoli 10 ottobre 2009





La “e” di questo titolo sembra congiungere o al contempo pensarle come disgiunte entità diverse: il bambino, la famiglia. Ma se è vero che un bambino può essere figlio di genitori separati o trovarsi a vivere la realtà di famiglie più allargate, o figlio di un solo genitore,  non esiste famiglia senza bambino. E’ con l’arrivo di un figlio che la coppia da vita a nuovi assetti relazionali e affettivi. 
 
Il concetto di famiglia rimanda quindi a qualcosa di più ampio a un senso di allargamento, fa pensare a uno spazio nuovo dove accadono e accadranno cose.
 Non a caso, ancora oggi, quando una coppia è in attesa del primo bambino, si sente dire che “mettono su famiglia”.
Mettere su, mettere mano, mettere in campo, tanti modi per tradurre la consistenza di un desiderio che nelle varie epoche storiche e culturali ha assunto forme, contenuti e motivazioni alquanto diverse, fino ad oggi in cui, ci si domanda se questa famiglia esiste ancora, o almeno quali forme ha assunto alla luce di notevoli cambiamenti economici, scambi di culture e  nuove integrazioni.

A tutti sono note, oggi,  le ricerche  sulla famiglia e le analisi storiche e capillari che ne hanno sottolineato i cambiamenti e messo in evidenza le falle sempre più ampie che nei decenni sono venute a crearsi al suo interno sbilanciandone profondamente gli assi portanti. Cambiamenti legati all’economia, alla liberalizzazione dei costumi e al progresso scientifico, in particolare alla genetica che, almeno apparentemente, ha separato in maniera netta la sessualità dalla procreazione.

La famiglia, quindi ha risentito e risente tutt’ora delle trasformazioni che hanno caratterizzato il passaggio dall’età moderna al mondo contemporaneo, della storia e dei rivolgimenti che l’anno accompagnata. Ma in questi percorsi, alquanto tortuosi e accidentati, qualcosa sembra resistere, mantenersi vivo e ancora radicato nel tessuto attuale nonostante i segni di questa alterità l’abbiano resa sempre più ristretta e tormentata.
E’ la cosiddetta famiglia nucleare quella che oggi domina la scena nella nostra società. Composta spesso da padre, madre e un solo bambino costretta a mettersi continuamente in gioco perché, a differenza di un passato recente, più fondata sugli affetti e i sentimenti.
 Più scoperta nel gioco dei rimandi e delle relazioni. Impossibilitata a ricorrere a modelli strutturali nei quali pacificare i dubbi e le inquietudini delle proprie funzioni e responsabilità.

Ma se nella storia dei cambiamenti familiari sembrano inscriversi i grandi cambiamenti del nostro tempo, è anche vero che per ogni bambino essa rappresenta, con tutti i suoi andamenti, flessioni, “disordini”, parafrasando la Roudinesco, ancora il luogo e lo spazio di una strutturazione simbolica. Qualcosa che nel bene e nel male attiene alla vita e all’esistere di quel bambino, di quei genitori, di quel nucleo. Per ogni bambino la sua storia inizia con i suoi genitori, come ricorda Dolto, ogni bambino ha un padre e una madre. Quell’”ha” sta a indicare un senso di profondo possesso, come se il nostro essere: io sono, fosse, invece radicalmente anticipato da un “io ho”. Un “io ho” che al contempo, però, è anticipazione di altro ancora. Dice infatti   Dolto:

“ Si deve essere in tre perché un bambino venga concepito: il padre, la madre e il soggetto che si incarna nella prima cellula nata dalla congiunzione di due cellule iniziatrici. Il genitore può dimenticare d’essere in tre, il bambino non lo dimentica mai. E poi ancora – “ogni essere umano ha dentro di sé un’idea di cosa sia la madre e cosa sia il padre, anche se non li ha <per davvero> (Les étapes majeures de l’enfance”(p.38)

Come dire, questa idea ci sarebbe nel bambino anche se, paradossalmente, non ci fosse più la famiglia, cioè il piccolo o grande nucleo di appartenenza. Il bambino Ha dentro di sé, l’idea, dice Dolto, di cosa sia suo padre e cosa sia sua madre e, soprattutto, non lo dimentica mai. Non lo dimenticherebbe mai anche se la sua crescita e cura fossero affidate ad altri. E’tenendo presente la fecondità di questa memoria, che, a mio avviso, si gioca oggi tutto il discorso intorno alla famiglia. E’ in virtù di questa inscindibile appartenenza che possiamo articolare i nuovi interrogativi e turbamenti che attraversano l’esistenza della famiglia, magari una famiglia altra, ancora a venire, non più sostenuta dal sapere condiviso e appagante di un passato anche recente a cui fare riferimento e appello, ma comunque sostenuta dell’abitabilità di uno spazio dove trovano accoglienza e riconoscimento quel non dimenticare mai e quell’ idea di cosa. In altre parole ancora in grado di far parlare la memoria e il sapere inconscio.


   Se il bambino chiede di essere accompagnato nella propria crescita, anche il genitore sente che il proprio cammino non gli restituisce ancora il senso di un approdo. Come attratto in un procedere costante più consapevole dei propri desideri, aspettative e realizzazioni, a volte, però è come se si trovasse a sperimentare il senso di un girare a vuoto, qualcosa che gli rimanda impotenza e fragilità.

Le scoperte di Freud intorno al bambino e alle dinamiche inconsce che caratterizzano le relazioni umane, se da un lato hanno reso merito al bambino della sua dignità umana e della sua interezza in quanto soggetto attivo e pensante, dall’altro hanno gettato il padre e la madre nell’erranza dei propri sentimenti  permeati dal riconoscimento del desiderio e della domanda, chiamati a partecipare sempre più al panorama più ampio del loro essere uomini o donne.
Tolto il velo che avvolgeva la famiglia in una stabile parvenza di solidità e sicurezza, ci si è trovati a fare i conti con la complessità del desiderio.

La psicoanalisi ci ha mostrato una famiglia fondata sui sentimenti e gli affetti. Sulle dinamiche affettive e i rimandi inconsci di identificazione che consentono al  bambino di articolare la propria crescita. Una crescita, che come tutti sappiamo si muove e si struttura intorno all’asse edipico e al divieto dell’incesto: parametri fondanti e fondamentali per una accesso al simbolico. E’ attraverso la funzione paterna che il bambino può accedere all’indipendenza e all’entrata nel mondo sociale e culturale.  L’ altro diviene l’altro della legge e della stabilità. Ma a volte ci domandiamo: è ancora così? Questo trova ancora riscontro nel quotidiano dei rapporti e delle relazioni?

Sentiamo spesso parlare di “padre assente”, o di “carenza della figura paterna”. Come se questo asse, questa funzione paterna avesse perso il suo valore strutturante, o  presentasse enormi fratture al punto da sembrare sostituito da qualcos’altro.
Altro cosa? Una maggiore incidenza materna? Potremo dire che forse, oggi, più di ieri è la madre a farsi maggiormente carico dei figli e delle responsabilità che la loro crescita comporta?
 Non nascondo che nel mio lavoro anche in ambito scolastico con ragazzi adolescenti, incontro molti genitori e sono sempre colpita dal fatto che spesso sono in prevalenza le madri a chiedere colloqui e a preoccuparsi, con notevoli senso di colpa, dei figli e dei loro problemi.
Non c’è dubbio che la figura materna, anche alla luce degli studi e delle ricerche intorno alla crescita del bambino, abbia assunto un ruolo fondamentale. Nessuno può pensare di fare a meno dei contributi della Klein o della stessa Dolto intorno alla relazione madre-bambino e nessuno può mettere in dubbio, quanto, in questi cambiamenti abbia contribuito una crescita del femminile e una sua presenza sempre più attiva e articolata nella famiglia e nella società.

Ma parlare di “carenza paterna” o di Padre assente”, significa operare, anche in termini di linguaggio, un’esclusione forte e a volte a mio avviso, pericolosa, di quel genitore, appunto il padre, che invece, a ben vedere, mai come oggi è stato partecipe alla vita, alla cura e all’educazione del proprio figlio. Un padre, che agli occhi del bambino esiste, anche quando non c’è, non è presente o la madre non glene parla. Un padre presente per assenza nella parola materna è spesso molto più potente di un padre reale in carne e ossa e forse, proprio perché, come diceva prima Doltò: il bambino non dimentica mai.

 Ricordo un bambino di quasi cinque anni, accolto con la madre nella Casa per Gestanti e Madre all’Istituto degli Innocenti di Fi. Dove ho svolto la mia attività per nove anni, che non vedendo da tempo suo padre e che la madre faceva di tutto per dimenticare, raccontava che il suo babbo era lontano, molto lontano, lavorava in un altro paese, o che gli aveva fatto dei bellissimi regali.
Spesso mostrava un giocattolo e poi diceva: “…Questo me l’ha comprato il babbo..” Quel padre assente esisteva nella sua storia e continuava a esistere nell’articolarsi della sua vita interiore a traccia di una presenza potente e feconda.
Oggi ci sono padri che chiedono addirittura di essere presenti al parto, o di alternarsi con la madre nel cambiare il bambino, nel portarlo al nido, a scuola e soprattutto nel partecipare ai momenti di gioco.

Allora, come leggere tutto questo? Che senso dare o cogliere in queste modalità di partecipazione? Di esistenza?

Da anni lavoro con gruppi di genitori, tengo  incontri con padri e madri di bambini che frequentano il nido o la materna e quello che più mi sorprende ogni volta è proprio il loro desiderio di partecipare: partecipare a momenti di confronto, di scambio, di racconti e di domande. Si, domande.
E’ forse questa capacità di porsi domande, di interrogarsi che ha contribuito a scardinare assetti costituiti? Ruoli prestabiliti?
E’ la domanda che apre al cambiamento, al desiderio, all’incontro con l’altro. E’ a partire dalla domanda, non a caso, che si da una possibilità di analisi e quindi di trasformazione.
Una domanda che talvolta occorre, però, tenere sospesa, reggere, sottrarla alla tentazione di chiuderla immediatamente in una sterile risposta.

I genitori cominciano a porre interrogativi, portare esempi, racconti, vorrebbero, sul momento, che io facessi la mia parte di specialista e illustrassi loro i perché e i per come intorno al comportamento del proprio figlio o all’ansia dei propri dubbi e delle proprie paure. Ma siamo proprio sicuri che è grazie a me, a noi specialisti, che lo possono conoscere meglio? Tuttavia, la domanda apparente è proprio questa.  E’ di questo che si tratta: c’è qualcuno che ci aiuta, ci insegna come fare, ci dice cosa vuol dire, ci mette al riparo dai nostri errori, forse ci libera dalle angosce e dai sensi di colpa che arrivano come sangue alla testa ogni volta che devo dare una regola a mio figlio o devo dirgli di no e lui urla come un ossesso-

 E se questa modalità fosse, invece, solo una sorta di tranello nel quale buona parte del sapere scientifico è narcisisticamente caduto per amore delle proprie conferme?

E’ sorprendente come talvolta il buon senso abbia ceduto il passo alla risposta codificata, ai consigli specialistici, alle definizioni, come se l’esistenza avesse perso il fascino dell’esperienza in tutta la sua portata umana di sospensione e di mancanza e fosse all’improvviso diventata qualcosa da fasciare e imbrigliare in ricette confezionate per rendere merito alla nostra ansia di dominio e di controllo.
La risposta a ogni costo sembra inscriversi in quella scia del godimento che rivendica il tutto e subito e che tanta condivisione sembra oggi trovare nelle modalità di relazione. Dico “sembra” perché qualcosa, invece, al di là del travestimento, continua a far pressione, a rivendicare ascolto e parola. Sono forse gli scarti dell’umano? Quelle schegge della nostra fragilità e sospensione che ci rigettano ogni qualvolta nella radicalità della nostra esistenza?

Mi viene in mente una giovane madre con il marito, anche lui poco più che un ragazzo che durante uno dei nostri incontri con i genitori diceva:
 “ Ci sono delle volte, quando gli dico di no, che lui, il piccino, si arrabbia, batte i piedi, non mi dà retta…. io insisto e  lui urla, strilla più forte, allora io insisto ancora fino a che non lo punisco e gli dico: basta! Ora basta! Vai un camera tua e rimani lì fino a che non ti è passata…per me quel momento è uno strazio, a volte è lui che da solo chiude la porta… Mi sento a pezzi e allora, vado anch’io in camera mia e piango….”

Gli altri genitori ascoltano, la guardano, intervengono, a lei sono venute di nuovo le lacrime, come se questo evento si ripetesse ancora lì, in mezzo a tutti gli altri in una sorta di luogo senza tempo. Il marito partecipa al suo dolore. Un dolore di madre o di bambina? Forse in quel momento non fa differenza.

Crescere un figlio è dolore? Oppure in quello spazio bambino- genitore riprende vita un mondo antico, quello dei genitori bambini che grazie o in virtù del proprio figlio, ritrova l’antica strada per poter tornare a parlare ancora?

Quel dolore del suo bambino diventa il suo dolore di bambina. La regola tocca gli affetti, perché quando è una buona regola è affetto. E’ il limite, la castrazione che apre al simbolico, al mondo, che forse fa del nostro venire al mondo il senso di esistere.
 Esistiamo perché siamo capaci di sentire ciò che l’altro sta attraversando perché quanto dell’altro è anche mio, ma nessuno ha detto che non genera sofferenza. Nessuno ha detto a quella giovane madre e altrettanto giovane padre che forse, sarebbe stata anche dura. Nessuno può dirle come fare e cosa fare. Venire a patti con la propria onnipotenza significa attraversare il travaglio di una ferita: una ferita narcisistica, uno squarcio nel desiderio onnipotente che non ammette limiti e castrazioni. Ma il limite è intorno a noi, forse, prima ancora che toccato in noi stessi. Intorno a lei, io, gli altri, gli altri genitori, siamo il suo limite, il suo altro di confronto che tiene e accoglie senza rimprovero e senza risposta………. 

Nessuno nasce genitore, né tanto meno, buono e bravo genitore, ma chi non vorrebbe esserlo o diventarlo? tuttavia non è questa, a mio avviso, la domanda in gioco.
La domanda in gioco è forse quella di avere l’opportunità davvero, con i propri bambini e grazie al fatto di essere diventati padri e madri, di partecipare a un gioco nuovo, dove poter di nuovo sperimentare la sorpresa, lo stupore, magari le lacrime perché in virtù di mio figlio io posso riportare alla luce quella sofferenza lontana, quei pezzi di storia che credevo di aver dimenticato per sempre e che invece oggi riaffiorano in tutta la loro intensità e sconcerto, ma a testimonianza del fatto che grazie a tutto ciò posso comprendere meglio la sua fatica, sentirlo in quella prova così difficile e straziante che è accogliere il taglio inevitabile. Se tutto questo si continua ancora a dare e a desiderare di attraversare quasi fosse l’unico passaggio che porta al senso di esistere e allo stupore di sentirsi ancora in mezzo agli altri e nella possibilità di amare e essere ancora amati, allora tutto sembra dire che quello che  i genitori chiedono affinché possano esistere come tali e come altro fecondo per i propri bambini, è il tempo e lo spazio per ritrovare la possibilità di rimettere in gioco quello che hanno e che, anche grazie a troppo lavoro specialistico e terapeutico, pensano, talvolta, con troppa colpa e facilità di avere smarrito o di non aver mai avuto o, peggio ancora, che non avranno mai.

Quando mi trovo a dire ai genitori: “nessuno può conoscere meglio di voi  il vostro bambino…” E’ come se una sorta di risveglio attraversasse i loro sguardi. Qualcosa si riposizionasse. Ritrovano forse il senso di occupare il loro posto?  Cosa vedono di nuovo? Il proprio figlio, loro stessi, o entrambi?
In quel momento è come se il senso di un “noi” diventasse spazio corale che apre al riconoscimento della propria individualità nel piacere dello scambio e nello stupore della sorpresa, della curiosità.
Parlano di sé, raccontano del proprio figlio, si sfogano, si lamentano, ritrovano la strada…. forse come ogni genitore ha fatto nel cammino di ogni epoca. I fantasmi si fanno meno pressanti, più lontani. Qualcosa si apre al rischio e all’incertezza e al contempo sembra sciogliersi e riprendere a transitare. Ognuno vuole la parola, sente di avere di nuovo parola, come se quel bambino cominciasse a esistere di nuovo, e forse in un modo nuovo alla luce di quel gioco di scambi e di rimandi.

Se è vero, e qui concludo, che come diceva Dolto, che “ il bambino non dimentica mai e porta in sé l’idea di suo padre e di sua madre”, anche per il genitore non è poi così diverso, di quel figlio può viverne il rifiuto, lo smarrimento, l’angoscia, ma non cancellarne la memoria. Tuttavia solo il tempo e lo spazio per poterlo ogni volta riscoprire possono restituire a entrambi la portata di quel legame affettivo e con esso il senso di esistere.