Indicedelle fiabe
ALLA CARTA FIABESCA DELLA SUCCESSIONE ALLA BIBLIOGRAFIA DELLE FONTI Ai Fabulando Fairy Tout




Fairinfo
1
Carta fiabesca della successione

2
Attanti

3
Ingiunzioni parentali

4
Quadranti

5
Lago della generazione

6
Fabulando racconta

7
Favole e...
8
Sessantasette

fiabe

Invito Ancora...



Al di là di Fabulando
Millanta fiabe in ordine alfabetico













Inglese1. Carta fiabesca della successione
Carta fiabesca della successione




















































































Die Ablösung des heranwachsenden Individuums von der Autorität der Eltern ist eine der notwendigsten, aber auch schmerzlichsten Leistungen der Entwicklung. Es ist durchaus notwendig, daß sie sich vollziehe, und man darf annehmen, jeder normal gewordene Mensch habe sie in einem gewissen Maß zustande gebracht. Ja, der Fortschritt der Gesellschaft beruht überhaupt auf dieser Gegensätzlichkeit der beiden Generationen. (S. Freud, Der Familienroman der Neurotiker) L’emancipazione dall’autorità dei genitori dell’individuo che cresce è uno degli esiti più necessari, ma anche più dolorosi, dello sviluppo. È assolutamente necessario che tale emancipazione si compia, ed è presumibile che chiunque sia divenuto normale l’abbia in maggiore o minore misura portata ad effetto. Anzi, il progresso della società si basa su questa contrapposizione fra generazioni successive. (S. Freud, Il romanzo familiare dei nevrotici)

Iliade
Come generazioni di foglie, così le generazioni degli uomini;
le foglie, alcune le getta a terra il vento, altre il bosco
fiorente le nutre al tempo di primavera;
così le generazioni degli uomini: nasce una, l'altra abbandona.

(Omero, Iliade, VI, vv. 146-149)


Ma chi vorrebbe prestar fede a un precettore animato di sferza che indicasse il senso dell'educazione nel dominio dei bambini da parte degli adulti? L'educazione non è forse in primo luogo il necessario ordine del rapporto tra le generazioni e dunque, se di dominio si vuol parlare, il dominio non dei bambini, ma di quel rapporto? (Walter Benjamin)

[T]hough they both [Cervantes and Shakespeare] use tropes that originate in folk tale, myth and fable, they refuse to moralise, and in this above all else they are more modern than many who followed them. They do not tell us what to think or feel, but they show us how to do so. (Salman Rushdie, Languages of Truth) Sebbene entrambi [Cervantes e Shakespeare] usino tropi che hanno la loro origine nella fiaba, nel mito e nella favola, essi rifiutano di moralizzare, e in questo più che in ogni altra cosa sono più moderno di tanti che sono venuti dopo di loro. Non ci dicono cosa pensare o sentire, ci mostrano come si fa. (Trad. nostra)


Quando lo specchio disse che Biancaneve era più bella di lei, la regina madre ...diventò livida d'invidia, e da quel momento in poi odiò Biancaneve. Non ebbe da allora altro pensiero che ucciderla per riavere il suo primato, ma alla fine ottenne solo di morire, mentre Biancaneve celebrava le sue nozze dopo tante peripezie.
Quando nella casa del taglialegna rimase solo un tozzo di pane, la moglie lo convinse ad abbandonare Hänsel e Gretel nel bosco. I bambini però non furono divorati né dalle bestie feroci né dalla strega, e riuscirono a tornare a casa, ...la madre, invece, era morta. (Die Mutter aber war gestorben).
Non c’è fiaba nella quale manchi il contrasto fra vecchie e nuove generazioni, e il crimine per eccellenza nelle fiabe, tentato quasi sempre, riuscito quasi mai, è il figlicidio.
Sono figure parentali i genitori naturali o adottivi, poveri o ricchi, le streghe e le fate, gli orchi e i maghi, i re e le regine, i ricchi mercanti. Sono figure filiali i giovani sottomessi alla loro volontà, e il racconto è la vicenda della loro liberazione. Non basta allontanarsi: il compito imposto, di solito impossibile, va assolto, e la fuga da una prigione genitoriale è densa di rischi, anche mortali.

Chiamiamo ingiunzione, e ne descriviamo dieci tipi, la costrizione alla quale la figura parentale sottopone il figlio o la figlia, costringendoli ad agire per sopravvivere, vivere, e, se le cose vanno come si spera, a conquistare la propria autonomia e l’amore fecondo. Il lieto fine realizza il desiderio di tutti: salire al trono significa diventare un soggetto non assoggettato, vale a dire autonomo. Le nozze felici rappresentano la condizione della fecondità.
La presenza del dramma della successione nella vita quotidiana è attestata anzitutto dal mito del conflitto generazionale, che non tiene conto del fatto che le nascite e le morti si succedono senza una soluzione di continuità che permetta di definire correttamente una generazione diversa da un’altra. La verità di questo mito è nel fatto che il conflitto esiste fra genitori e figli, da sempre. E, probabilmente, per sempre.
La tragedia greca ruota intorno a questo conflitto, e alle sue infinite varianti, e nel nostro tempo la difficoltà nelle relazioni familiari non è certo meno drammatica che in passato. La sua formulazione estrema più recente recita che le vecchie generazioni hanno consumato le risorse delle nuove generazioni, agendo quindi come i genitori di Hänsel e Gretel. Speriamo che i giovani  trovino una soluzione.
Fra tragedia e vita quotidiana le fiabe offrono un’area franca, nella quale si può entrare senza chiedere il permesso: professori e analfabeti, orientali e occidentali, abitanti del sud e del nord del mondo, bambini, adulti e vecchi hanno la stessa competenza e lo stesso diritto di ascoltare e raccontare una fiaba. Le fiabe presentano un rischio estremo – soccombere prima di sbocciare alla vita – e una possibilità di scampare al rischio mortale ottenendo un lieto fine che per essere irrealistico non è meno vero. Basta pensare al sollievo, o almeno al sorriso, che il lieto fine fa sentire quando Biancaneve finalmente si sveglia e trova accanto a sé i nani felici e il principe innamorato, o quando Cenerentola danza col principe mentre il resto del reame passa in secondo piano.

Se le articolazioni del conflitto fra genitori e figli sono innumerevoli, perché qui se ne propongono dieci?
Non si intende definire un catalogo, né una classificazione sensata, ma proporre una mappa, la Carta fiabesca della successione.
È semplicemente una mappa, ovvero una specie di carta topografica, che per la grafica è tratta da una mappa cinquecentesca della Corsica, e ne ricorda due assai ricche di senso. La prima di queste è la Carte de Tendre secentesca che rappresentava allegoricamente le diverse tappe della vita amorosa. La seconda è la Carte du sens (Carta del senso) del matematico René Thom (1991), che cita espressamente quella secentesca. Non si tratta per noi di spiegare qualcosa né di definirlo, ma di costruire una mappa che permetta di muoversi in un territorio psichico estremamente complesso. Le fiabe possono essere considerate come un insieme omologo all’insieme dell’esperienza umana, e si sono formate nello scambio incessante fra popoli, scrittori, narratori orali. La loro struttura narrativa è forse la più potente fra quelle dei vari generi del racconto, e spesso entra, mimetizzandosi senza sforzo, in altri generi. Definirla, come si diceva, è impossibile, a noi però basta proporre uno strumento di navigazione, una mappa.

Chi vuole partire con noi per il paese delle Fiabe, immenso, sconfinato, può cominciare proprio dalla Carta fiabesca della successione. Come visitando una città, avrà un posto in cui recarsi, perché lo ha già visitato, perché ne ha sentito parlare, o perché prova semplicemente il desiderio di conoscerlo. Lo attrae un’immagine? Punta la sua attenzione su un titolo? Click dopo click, touch dopo touch, potrà viaggiare a suo piacimento, e in qualunque luogo si trovi potrà tornare al punto di partenza – alla Carta fiabesca della successione, o a questa pagina, Fairinfo.

Guardiamo insieme la Carta fiabesca della successione.

carta

In basso si vede il mare, figura del materno, perché la metà sud della carta contiene le fiabe che iniziano con un’ingiunzione della figura materna. La parte nord, sormontata dalle montagne, contiene invece le fiabe che hanno origine da un’ingiunzione paterna, rappresentata appunto dalle montagne. Se l’attante protagonista è femminile, le sue fiabe si trovano nella parte ovest della mappa, se è maschile nella parte est. Il simbolo del femminile filiale è la luna, del maschile il sole. Si ottengono così i quattro quadranti della mappa, delimitati dai fiumi che formano al centro il Lago della Generazione. La fecondità, che permette il succedersi delle generazioni, e la continuazione della vita, esige l’incontro, il corpo-a-corpo sia fra padri/madri e figli/figlie, sia fra attanti maschili e femminili.

Nella mappa figurano i dieci simboli delle ingiunzioni parentali che possono essere presenti in uno, due, tre o in tutti e quattro i quadranti. A ogni simbolo corrisponde una fiaba, la capolista della sua ingiunzione in quel particolare quadrante. Aprendola si accede alla Carta della fiaba.

Guardiamo quindi insieme una Carta della fiaba. Se nella Carta fiabesca della successione si sceglie, ad esempio, la Vetta del compito impossibile, con Rana rana, nel quadrante nord-est, si apre la relativa carta al centro della quale si trova un'illustrazione della fiaba.

Rana


Con un click o un touch sull'immagine centrale si può aprire l’e-book di questa fiaba.
In ogni Carta della fiaba c'è una piccola fata che porta alla sezione del Fairinfo relativa alla fiaba stessa. Fairinfo è il nome della presente pagina, nella quale si trovano indicazioni sulla struttura di Fabulando e note di lettura di ciascuna fiaba.
Con un click o un touch sulla sezione in alto a sinistra si accede alla Carta dell'ingiunzione che caratterizza la fiaba che abbiamo aperto (la Vetta del compito impossibile nel nostro caso). Da questa carta si può accedere alle carte di tutte le fiabe caratterizzate da questa particolare ingiunzione.
Più sotto si trova la sezione che permette di aprire la Carta del quadrante, al quale appartiene la fiaba che stiamo guardando (il quadrante nord-est per Rana rana). Questa carta consente a sua volta di accedere alle carte di tutte fiabe inscritte in quel particolare quadrante.
La sezione in basso a sinistra dà accesso a un fairy-tour col quale proponiamo di visitare la fiaba della carta e tutte quelle relative alla stessa ingiunzione.
Nella Carta della fiaba, inoltre, vediamo due diciture, presenti in tutte le carte di Fabulando: da una si può riaprire la Carta fiabesca della successione, dall'altra si accede alla pagina relativa alle Autrici di questa raccolta.

Ogni fiaba di Fabulando è raccontata in un e-book, mentre solo alcune fiabe sono raccontate anche con altre forme narrative digitali: e-kamishibai, versione digitale del kamishibai, teatro di carta giapponese, animazione, storia della fiaba.

P

La carta del Principe Ranocchio, ad esempio, presenta tutte queste forme narrative, alle quali si può accedere con un click o un touch sull'icona corrispondente che si trova sulla parte desta della pagina. (AG & CC)



Inglese2. Attanti


Attante
è il termine tecnico, utilizzato nel campo di studi delle narrazioni, per indicare coloro che si muovono nella storia.
A partire dalla riflessione di Vladjmir Propp e degli strutturalisti, nel nostro lavoro di analisi della struttura narrativa delle fiabe, abbiamo individuato quattro tipi di attanti, solo quattro.
In Fabulando, la chiave di lettura con la quale sono distribuite le fiabe nella carta fiabesca è quella della successione. In sostanza la domanda che ritroviamo in tutte le fiabe è: come fa il giovane a diventare adulto? E per “diventare adulto” intendiamo diventare autonomo e generativo, non più dipendente dai legami familiari e capace di aprirsi all’incontro con l’altro. In questa prospettiva si collocano i quattro tipi di attanti: attante filiale femminile e maschile, attante genitoriale femminile e maschile.

L’attante di cui si racconta la storia è sempre quello filiale, perché la fiaba, come dicevamo, narra dei possibili percorsi che si possono fare per crescere. Naturalmente sappiamo che nella vita il processo di crescita non è circoscritto all’infanzia o all’adolescenza, sappiamo che è possibile sempre, e ogni volta che impariamo qualcosa ci sentiamo più adulti, a prescindere dalla nostra età anagrafica. Ecco, il fatto che l’attante protagonista sia un giovane, e un giovane che si trova in posizione filiale rispetto alle figure che incontra, rappresenta questa percezione dei nostri processi di crescita. E che il lettore o l’ascoltatore abbia sette o settanta anni si identificherà comunque nel giovane o nella fanciulla.
Gli attanti con i quali il protagonista interagisce all’inizio della fiaba sono attanti genitoriali. Possono essere i genitori o possono essere figure che ne hanno la funzione perché sono vecchi o perché sono potenti: pensiamo alle fate, agli orchi, alle streghe, ai maghi, ai mendicanti, ecc. Il tipo di relazione fra l’attante protagonista e quello genitoriale dà il via ad un certo tipo di storia. Rimandiamo al paragrafo Ingiunzioni di questo Fairinfo per una più estesa descrizione di questo concetto. Qui vogliamo rilevare invece che c’è una differenza tra fiabe con attante protagonista femminile e fiabe con attante protagonista maschile.

Prendiamone due che hanno origine da una medesima ingiunzione relativa allo stesso tipo di attante genitoriale, prendiamo cioè, ad esempio, La bella addormentata nel bosco e Re porco. Entrambe appartengono all’ingiunzione materna del Veliero della maledizione, ma l’una ha come protagonista la famosa, famosissima fanciulla che dorme cent'anni, l’altra un giovane che nasce nella forma animale di un porco. Non solo le vicende dei due protagonisti e l’andamento dei loro percorsi è molto diverso, ma prima di tutto è diverso proprio l’effetto che l’azione dell’attante genitoriale materno ha su di loro: un sonno mortifero per la fanciulla, la disumanizzazione per il giovane.

Cambiamo ingiunzione e attante genitoriale e osserviamo due fiabe relative alla Fortezza della solitudine: Panepinto e Il corvo. Nella prima Betta non vuole sposarsi, nella seconda Milluccio vuole una donna impossibile. Da queste premesse similari, si dipanano due storie assai diverse. Betta, infatti, impasta zucchero, mandorle e acqua di rose e si fabbrica lo sposo dei suoi desideri, che però se ne va con un’altra donna, e la fiaba narra proprio del lungo viaggio di Betta per ritrovarlo. Ne Il corvo, invece, la storia prende avvio dalla decisione di Iannone di andare a cercare la donna che corrisponde al desiderio del fratello Milluccio e il momento in cui la trova si colloca a metà del racconto: molte e durissime prove dovranno affrontare i due giovani, prima di giungere al lieto fine.

Nella Carta fiabesca della successione, quindi, a ovest abbiamo le fiabe con attante protagonista femminile e a est quelle con attante protagonista maschile. Fanno eccezione Hänsel e Gretel e L’Augel Belverde. In queste due storie, infatti, si narra di un’ingiunzione, il Patibolo della condanna a morte, che è tanto più terribile in quanto viene da entrambi i genitori: per sfuggirvi e avere salva la vita, la fiaba racconta che è necessario che agiscano insieme sia l’attante filiale femminile che quello maschile. Hänsel e Gretel finiscono insieme nelle grinfie della strega e insieme la sconfiggono, i gemelli dell’Augel Belverde sono abbandonati insieme e tutti e tre si muovono alla ricerca degli oggetti magici, l’ultimo dei quali sarà proprio l’Augel Belverde, punto finale e risolutore della storia. (CC)





3. Ingiunzioni parentali


Vetta del compito
                          impossibile
Labirinto dell'impegno impossibile Bivio del compito
                          possibile

Bosco dell'esilio
Palude dei derelitti
Vetta
del compito impossibile
Labirinto
dell'impegno impossibile
Bivio
del compito possibile
Bosco
dell'esilio
Palude
dei derelitti






Torre della
                          segregazione Veliero della maledizione Patibolo dela condanna morte Fortezza della
                          solitudine Castello dell'amore
                          imposto
Torre
della segregazione
Veliero
della maledizione
Patibolo
della condanna a morte
Fortezza
della solitudine
Castello
dell'amore imposto



IngleseIntroduzione


Un’ingiunzione è un ordine cogente, una costrizione che qualcuno, che ne ha il potere, impone a qualcuno altro, che non può sottrarsi. Abbiamo definito “parentali” le ingiunzioni delle fiabe presenti in Fabulando: sono cioè le figure genitoriali che impongono agli attanti filiali, i protagonisti, un compito o un esilio o una condanna. L’ingiunzione, che si trova all’inizio della fiaba, implica una reazione da parte dell’attante protagonista che, per fronteggiarla, è costretto a muoversi, iniziando così il suo cammino, spesso lungo e irto di pericoli mortali, verso il finale felice. Quando la madre ordina alla bella Caterina (Il Gatto Mammone) di andare dalle pericolosissime fate a prendere lo staccio, le impone un compito impossibile, quello di sopravvivere all’incontro con potenti figure magiche. Questo costringe la fanciulla a prendere delle decisioni, che faranno emergere la sua natura e saranno fondanti per la sua crescita. Quando il padre scaccia Nardiello di casa (Lo scarafaggio, il topo e il grillo), gli impone un esilio, un’esistenza priva di mezzi e lontano dalla protezione familiare: il giovane si trova a viaggiare solo con i suoi animaletti e così può incontrare la principessa Milla, curarla dalla sua melanconia e ottenerla in sposa.

Le ingiunzioni che caratterizzano le fiabe di Fabulando sono dieci e trovano tutte un proprio posto nella Carta fiabesca della successione, raffigurate da un simbolo che le evoca. Alcune sono presenti in tutti i quadranti, la Palude dei derelitti, la Vetta del compito impossibile e il Labirinto dell’impegno impossibile. Due si trovano solo in un unico quadrante, la Torre della segregazione e il Castello dell’amore imposto. Altre sono in due quadranti, la Fortezza della solitudine, il Veliero della maledizione e il Patibolo della condanna a morte. Altre infine sono collocate in tre quadranti: il Bosco dell’esilio e il Bivio del compito possibile.

Ciascuna ingiunzione aggrega più fiabe, a nord della Carta fiabesca della successione sono posizionate quelle imposte dalla figura paterna, a sud quelle imposte dalla figura materna. Sotto ciascun simbolo si trovano due scritte: la prima esplicita il nome dell’ingiunzione, la seconda il titolo della fiaba che abbiamo scelto come rappresentante di quell’ingiunzione in quel quadrante. Con un clic o un touch sul simbolo si accede alla carta della fiaba e da lì si può sostare sulla storia e poi continuare ad esplorare le fiabe di quell’ingiunzione, cliccandone o toccandone il simbolo che si trova in basso a sinistra in ogni Carta della fiaba. Le carte delle ingiunzioni, a loro volta, riportano la divisione in quadranti, in modo che ognuno possa vedere a colpo d’occhio come sono distribuite le fiabe del Patibolo della condanna a morte, del Bosco dell’esilio, del Veliero della maledizione, ecc.

Nell’incontro fra ingiunzioni e quadranti si costruisce così uno strumento che consente di viaggiare in Fabulando senza perdersi: in ogni luogo ciascuno può sapere dove si trova rispetto alla mappa principale, la Carta fiabesca della successione, e avere sempre in evidenza i significati del percorso che sta compiendo, sapere cioè che sta percorrendo i sentieri di un’unica ingiunzione che ha scelto e della quale desidera conoscere le articolazioni femminili e maschili, o che sta sondando il territorio di un certo quadrante muovendosi fra ingiunzioni diverse, quindi diverse questioni che possono essere in gioco per un tipo di attante protagonista che affronta un tipo di attante genitoriale. Il mondo delle fiabe è, un po’ come la vita, un mondo nel quale sono possibili innumerevoli legami e innumerevoli corrispondenze: il rischio di perdersi nelle storie è altissimo, con la conseguente sensazione di girare a vuoto senza riuscire a trattenere un senso. L’Impegno impossibile che ci siamo assunte dando vita a Fabulando è stato quello di consentire a chiunque ami le fiabe, a prescindere da quanto le conosca, di poter viaggiare nel loro mondo su strade di senso, orientandosi ovunque si trovi.

E se qualcuno poi vorrà perdersi, poco male: avrà sempre a disposizione un’icona che gli consentirà di tornare alla Carta fiabesca della successione, per iniziare un nuovo viaggio. (CC)





IngleseVetta del compito impossibile
Carta ingiunzione




Questa ingiunzione si trova nei quattro quadranti, vale a dire che l’attante genitoriale maschile può imporre un compito impossibile sia al figlio che alla figlia, come la figura materna può imporlo all’attante filiale sia femminile che maschile. Se una fiaba comincia con un compito impossibile, l’attante protagonista s’incammina per portarlo a termine, e tutta la storia racconta di come possa raggiungere l’impossibile meta, che è anche irrinunciabile. Quando il compito è assolto, si vive per sempre felici e contenti. Mentre il Bivio del compito possibile porta alla morte dell'attante, o, nel migliore dei casi, a tornare al punto di partenza dopo aver rischiato la vita, la Vetta del compito impossibile porta sempre a una felice successione. Se la vita è un compito, si tratta certamente di un compito impossibile. E l'attante protagonista che assume senza riserve il compito assegnato dal genitore, dopo aver superato ostacoli e affrontato rischi, lo assolve. Il lieto fine spetta analogamente agli attanti protagonisti delle fiabe che cominciano con l’ingiunzione del Labirinto dell'impegno impossibile, che a differenza di quelli delle fiabe della Vetta assumono volontariamente un compito senza che un attante parentale lo imponga loro.

Fra le fiabe di questa ingiunzione, il Gatto Mammone racconta della matrigna che manda la bella Caterina dalle fate perché la imbruttiscano, e l’attante protagonista piangendo si mette in cammino. Lungo la via racconta la sua storia a un vecchietto e lo ascolta quando le rivela certi segreti della casa delle fate. Non sono istruzioni come quelle del Bivio del compito possibile, ma una specie di iniziazione che lascia a Caterina piena libertà nel mettere in atto quel che ha appreso.

Un marchese esperto di enigmi promette la grazia a un prigioniero se qualcuno saprà porgli un indovinello del quale lui non troverà la soluzione. La protagonista di Indovina indovinatore vince la prova e la libertà per il padre. L’enigma riguarda l’ambiguità del linguaggio, la sua polisemia, che questo marchese, come Turandot, era certo di padroneggiare senza limiti.

Tre principi ricevono dal re loro padre un compito, trovare la medicina che possa rendergli la vista (La Regina Marmotta), ma mentre i fratelli maggiori interrompono il loro viaggio trovando le loro spose senza aver assolto il compito paterno, il figlio minore lo continua, trovando sia il rimedio che una sposa regina, e se le calunnie dei fratelli invidiosi mettono a rischio la sua vita, non possono impedirgli di godere del lieto fine che merita.

In Rana rana il re impone ai figli di prendere come futura sposa la fanciulla che troveranno dove si fermerà la palla d’oro che dà a ciascuno di loro, e mentre i primi due trovano delle belle fanciulle, Nicolino, che è il più piccolo, trova solo una ranocchia. Senza mettere in discussione il compito assegnato dal padre, con un atteggiamento scettico che contrasta con l’andamento paradossale della fiaba, Nicolino avrà la principessa più bella e virtuosa, e il padre lo designerà come suo erede al trono.

La quinta fiaba di questa ingiunzione, Il testamento di una fata, offre la possibilità di vedere come una storia possa cominciare con due ingiunzioni diverse e avere lo stesso andamento. Qui è la madre a imporre al figlio di far sposare le sue sorelle ai primi che passeranno per via, ed è una vecchia a lanciargli una maledizione per la quale dovrà mettersi in cammino. Nei Tre re animali, che si apre con l’ingiunzione del Labirinto dell’impegno impossibile, è  il figlio a scegliere di partire, mentre i genitori cercano di trattenerlo, ma quando si mette per via il suo cammino è scandito dagli stessi eventi e porta allo stesso finale felice della fiaba precedente: le sorelle con i loro sposi liberi da incantesimi e lui stesso con la bella che ha salvato da un orco ascendono al trono e vivono felici. (AG)





IngleseLabirinto dell'impegno impossibile
Carta ingiunzione




Dall'ingiunzione del Labirinto del impegno impossibile possono scaturire fiabe che presentano vicende coincidenti con le storie della Vetta del compito impossibile. Nella raccolta di Fabulando questo caso è rappresentato da I tre re animali, che appartiene a questa ingiunzione, e dal Testamento di una fata, che scaturisce dall'ingiunzione della Vetta del compito impossibile. In entrambi i casi tre sorelle vengono portate in luoghi inaccessibili da sposi animali, in realtà principi stregati, e in entrambi i casi è il loro unico fratello a cercarle, intraprendendo un lungo viaggio, al termine del quale avrà trovato non solo le sue sorelle e una sposa per sé, ma avrà permesso ai tre cognati stregati di ridiventare esseri umani. Mentre il protagonista dei Tre re animali assume volontariamente l'impegno di ritrovare le tre sorelle, nel Testamento di una fata l'attante protagonista esegue le ultime volontà della madre ed è costretto a mettersi in viaggio avendo subito l'incantesimo di una vecchia.

Entrambe le ingiunzioni  includono un compito impossibile, e tutte le fiabe che prendono avvio da queste ingiunzioni hanno un lieto fine. Del resto vivere è un compito impossibile, come sono compiti impossibili, ricordando Freud, educare, governare e psicoanalizzare. Lasciando da parte il terzo, sulla cui irrinunciabilità si può dissentire, i primi due, che siano imposti o assunti volontariamente, sono da assolvere per l'esistenza della comunità umana e del soggetto stesso. Se pensiamo al compito impossibile come al raggiungimento della fecondità che esige l'alternanza delle generazioni, affrontarlo o assumerlo implica un soggetto che si allontana dalle sue origini, disposto ad affrontare qualunque prova pur di realizzare il suo obbiettivo. Sottrarsi a questo compito significa fermare la vita, rinunciare a generare, in ogni senso, nell'illusione di non invecchiare, quindi di non essere soggetti alla morte.
Le tre sorelle dell'attante protagonista dei Tre re animali sono separate dal fratello, e a partire dal loro ritrovamento i tre discendenti maschili maledetti e la principessa rapita dal drago possono far ritorno al loro regno rendendo nuovamente possibile la successione e il flusso della vita.

La fiaba dei Sette piccioncini presenta la stessa drastica separazione fra discendenti maschili e femminili, ma qui c'è un'unica figlia che parte alla ricerca dei sette fratelli perduti, e per trovarli compie il viaggio più ricco e complesso fra i viaggi di fiaba che conosciamo; il lieto fine è il felice ritorno dei fratelli riuniti alla sorella, che portano alla casa delle origini una ricchezza simile a quella conquistata da
Hänsel e Gretel.

Anche gli attanti protagonisti di Violetta e dell'Aquila d'oro non rispondono a nessuna ingiunzione, ma agiscono con la determinazione di tutti gli attanti fiabeschi che compiono un percorso impossibile, la prima annullando il dislivello che la separa dal figlio del re che vorrebbe disporre di lei, il secondo scegliendo come sua amata sposa la figlia del Re di Raona, (Aragona) nemico di suo padre, imperatore della Magna (Germania). Il successo della sua impresa verrà quando i due stati nemici, insieme a tutti i loro alleati, rinunceranno alla guerra, per benedire, in pace e allegria, le nozze dei due innamorati.

La fiaba popolare di Meni Fari scaturisce dal desiderio impossibile per eccellenza, che però si può realizzare grazie alla scelta di tre doni che vengono concessi da Gesù attraverso San Pietro. Il fabbro Meni Fari protagonista di questa fiaba friulana, povero e astuto,  non chiede ricchezze né giovinezza, ma qualcosa che gli consenta di mettere in scacco la morte e il diavolo. Nel mito greco questa sfida a superare i limiti è agita da Prometeo, che sottrasse una scintilla agli dei per donare il fuoco agli esseri umani. Meni Fari, fabbro come il dio Efesto, che forgiava armi e ornamenti col fuoco, ci ricorda al massimo grado il detto latino unusquisque faber fortunae suae est (ciascuno è fabbro della sua sorte). E alla fine pare che Meni Fari, entrato di soppiatto in Paradiso col suo magico violino, potrebbe perfino far ballare tutti i beati. (AG)






IngleseBivio del compito possibile
Carta ingiunzione




Questa ingiunzione comprende tre storie, Giovannin senza paura, Così finì il tonto, e Cappuccetto rosso, nella versione originaria di Perrault, che finisce col divoramento della bambina. Nel caso di Giovannino il protagonista è privo di paura, sembra quindi che per lui vivere non sia difficile, negli altri due casi la madre fornisce istruzioni precise per portare a termine un compito ordinario, come portare a macinare il grano o andare dalla nonna con un cestino di buon cibo. Compito possibile quindi, per opposizione con gli innumerevoli compiti impossibili che si trovano nelle fiabe. Per quanto appaia paradossale, il compito possibile porta l’attante protagonista alla morte, mentre il compito impossibile dopo lunghe peripezie porta al lieto fine. Proponiamo di prendere questa ingiunzione come occasione per riflettere sulla tendenza dei genitori, e degli educatori in genere, a nascondere ai bambini la morte e il dolore, la malattia in particolare. Illudendosi di risparmiare al bambino la percezione dolorosa della dimensione tragica della vita l’educatore non si prende cura del bambino, ma del proprio narcisismo, che nega questa parte della realtà. Ma molto presto il bambino scopre l’esistenza della morte, della malattia, della sofferenza, sia come esperienza personale che indirettamente: se non potrà parlarne col genitore penserà che la sua conoscenza sia illecita, eretica rispetto al dogma dei genitori, o, peggio ancora, penserà che il genitore ne sia talmente spaventato che è bene non parlargliene. Dovrà cercare di conoscerla o sperimentarla, correndo anche rischi gravi, mentre l’inclusione del dolore e della morte, vale a dire dei rischi connessi alla vita, nel campo della relazione, del linguaggio, può consentirne l’elaborazione, e l’integrazione nel patrimonio educativo familiare.

L’ingiunzione del compito possibile è rappresentata da un bivio, perché sembra che l’attante protagonista si possa muovere facilmente, come se avesse di fronte a sé una via diritta, senza smarrimenti possibili. Appena si trova di fronte a un bivio, vale a dire a un'alternativa, si dirige regolarmente nella direzione opposta a quella indicata dal genitore. Dato che crescere significa scegliere, la sola possibile autonomia dell'attante è in questo caso applicare a rovescio le indicazioni genitoriali, e l’esito è fatale. Il legame simbiotico col genitore che si illude di poterlo proteggere dalla vita gli consente solo di trasgredire le sue indicazioni o di applicarle malamente: non avendo un desiderio suo, perché obbedisce al genitore, non scopre la sua strada. È ammaestrato dal genitore, come il povero tonto della favola umbra o Cappuccetto Rosso nella prima versione di Perrault, oppure non ha alcun insegnamento, come Giovannin senza paura: il soggetto autonomo non emerge in nessuno dei due casi. Se manca la percezione del rischio, perché il genitore pensa di poterlo evitare al figlio con le sue istruzioni, o perché è assente ogni riferimento al genitore, il lieto fine manca. Nella versione più popolare di Cappuccetto Rosso il lieto fine è possibile perché un cacciatore, figura paterna esperta della natura e capace di trarne nutrimento, viene a colmare quella mancanza. Si noti che in questo caso il finale consiste nel ripristino della situazione d'inizio, grazie a una specie di seconda nascita, mediata dalla figura paterna. (AG)





IngleseBosco dell'esilio
Carta ingiunzione






Nella fiaba di Fiore e Gambodifiore la matrigna, che ha solo una figlia brutta, odia i bei figliastri. Generosa con le fate, Fiore riceve doni magici: quando parla le cadono dalla bocca fiori, quando si pettina appaiono perle d’oro. La fiorente bellezza della fanciulla minaccia il primato della matrigna, che la scaccia con il fratello. L’esilio cessa quando il re si innamora di Fiore, ma la matrigna le sostituisce la propria figlia, come accade nel Gatto Mammone. Come sempre le fiabe raccontano che la vita che sboccia non si ferma, e alla fine tutti gli inganni della vecchia matrigna e della brutta sorellastra sono sventati.

Le altre tre fiabe che prendono avvio con questa ingiunzione hanno un attante protagonista maschile, e come quella di Fiore e Gambodifiore hanno un lieto fine. Mentre l’attante protagonista femminile viene esiliata a causa della sua magica bellezza, come Biancaneve è condannata a morte e Cenerentola segregata, gli attanti protagonisti maschili delle altre tre fiabe del Bosco dell’esilio devono andarsene per il mondo a causa della loro inettitudine. In Giovannino e la pelle d'oca il protagonista viene cacciato e delegittimato dal padre perché invece di imparare un mestiere cerca solo di sperimentare il brivido della paura, che non ha mai provato. Nardiello, ne Lo scarafaggio, il topo e il grillo, ha dissipato buona parte del patrimonio familiare, e siccome continua a non seguire le indicazioni del padre scappa per non morire sotto le sue bastonate. La madre e le sorelle di Tontonio, ne La fiaba dell’orco, sono poverissime, e lui è uno sciocco che non si dà pena di aiutarle; quando la madre lo bastona senza pietà deve fuggire per non morire di botte. Tontonio è incapace di comprendere il linguaggio quanto il povero protagonista della fiaba umbra Così finì il tonto, ma essendo esiliato trova un’occasione per apprendere dall’esperienza.

Limitandoci a queste fiabe del Bosco dell’esilio potremmo enunciare una legge: tutte le volte che un genitore scaccia i figli, i figli trovano la loro strada per crescere e arrivare a un lieto fine. Possiamo formulare questa legge in modo diverso: se l’attante protagonista maschile di una fiaba è incapace di provvedere a se stesso e provoca danni alla sua famiglia d'origine, solo allontanandosene può crescere e arrivare a un lieto fine. Possiamo quindi dire che l’inettitudine dell’attante maschile rappresenta un fallimento della sua educazione, e la fiaba non dice nulla delle possibili ragioni di questo fallimento. Dice però che se il genitore ne prende atto, e, rinunciando a cercare un rimedio, lascia che il figlio si muova autonomamente nel mondo, gli dà la possibilità di apprendere dall’esperienza ciò che non ha potuto apprendere crescendo col genitore. Il legame fra genitore e figlio è tale che senza una soluzione di continuità entrambi si legano inconsciamente così forte che rischiano di entrare in una dimensione tragica. La mancanza del lieto fine nelle fiabe dell’ingiunzione Bivio del compito possibile può rappresentare questa dimensione tragica.

Di genere diverso dalla fiaba, la Parabola del figliol prodigo (Luca, 15, 11-32) racconta di un figlio minore che pretese la sua parte di eredità e volle lasciare la casa del padre. Il padre assegnò ai figli la loro parte e lasciò andare il minore senza chiedergli spiegazioni né dargli consigli. Il figlio minore sperperò la sua parte e finì a servire un estraneo che non gli dava nemmeno di che sfamarsi. Allora decise di tornare dal padre per chiedergli di tenerlo con sé come servo, e il padre lo abbracciò e fece una grande festa per lui, anche questa volta senza chiedergli né dargli spiegazioni.

Educare è uno dei tre compiti definiti come impossibili da Freud, ma è un compito inevitabile. Il padre della parabola, per quanto in maniera diversa dai genitori dei tre attanti maschili del Bosco dell’esilio, si comporta come se sapesse che c’è nella soggettivazione una libertà vertiginosa che nessun educatore può padroneggiare. (AG)



InglesePalude dei derelitti
Carta ingiunzione



Per introdurre questa ingiunzione possiamo rammentare la sensazione che si prova in certi momenti, del giorno e della vita, quando nulla del nostro passato sembra aver dato frutto, e ogni nostra risorsa sembra inutile per il futuro. Nessuno ci ha mai amato, e il nostro amore, se c’è stato, non ha dato nulla a nessuno. La Palude dei derelitti corrisponde a questa percezione, e le fiabe la mettono in scena dicendo che gli attanti protagonisti sono talmente poveri che la loro stessa sopravvivenza è a rischio. Simili a contemporanei sottoproletari o emigranti senza permesso, questi attanti hanno perso entrambi i genitori e possono essere perfino sperduti in un bosco (La bambola smarrita). Solo Pietropazzo ha la mamma, ma alla sua mancanza del padre si aggiunge che lui è incapace di provvedere a se stesso, brutto, sgraziato e anche un po’ tonto.

Tutte queste fiabe, però, appena la derelizione è messa in scena, dicono che all’interno della privazione c’è qualcosa che può sembrare inutile, come una gatta, una bambola o un pesce parlante, eppure può far uscire dalla palude l’attante protagonista e portarlo a diventare alla fine anche un re o una regina. Se la percezione di essere derelitti capita a tutti, è meno comune la via attraverso la quale questi attanti seguono il loro desiderio di una bambola o danno ascolto a un pesce o a una gatta parlanti. Per riavere o acquistare la bambola che amano, le attanti protagoniste de La bambola smarrita e della Bambola Popoavola rinunciano a ogni altra cosa, ed è la loro fedeltà alla legge del desiderio che rende possibile il racconto e il finale felice. Pietropazzo e il futuro Marchese di Carabas (Gatta con gli stivali e Gatto con gli stivali) sono affamati, e potrebbero mangiarsi la gatta ereditata o il pesce che hanno pescato, invece li ascoltano, anche se sembra impossibile che un animale cambi il loro destino. Speranza e desiderio sono congiunti, come disperazione e assenza di desiderio. Il passaggio da una palude a un trono, raccontano le fiabe, è possibile. Quasi impossibile però è rinunciare alla soddisfazione del proprio bisogno immediato, imposto con la stessa tirannia della fame dai propri sintomi, perché seguire il proprio desiderio implica il rischio di tutto il poco che si ha. Bisogna che la certezza della propria derelizione non impedisca completamente al desiderio, incerto perché privo di garanzie, di farsi sentire.

Non si ricorderà mai abbastanza che le fiabe non raccontano che seguendo il proprio desiderio si esce dalla palude e si diventa re o regina, ma solo che seguire il proprio desiderio, dando ascolto a quella parte di noi che ci invita a farlo, è l'unica via perché possa accadere. Il confine fra la certezza infantile e l'incertezza adulta si presenta ogni giorno proponendoci di varcarlo e crescere, ma raramente lo riconosciamo. (AG)





IngleseTorre della segregazione
Carta ingiunzione



La Torre della segregazione compare nella fiaba di Cenerentola a partire dalla versione di Walt Disney (US 1950), per rafforzare l’isolamento dell’attante protagonista vessata dalla matrigna, mentre l’alta torre con un solo finestrino caratterizza la fiaba di Prezzemolina fin dalla sua prima versione (Basile, 1634-1636).
Nell’adolescenza la figlia normalmente sente di essere impedita nei suoi movimenti dalla madre, che ora percepisce come ingiusta, mentre nell’infanzia era stata oggetto della sua sconfinata ammirazione. Il suo desiderio di uscire, senza limitazioni di orario, procede insieme alle limitazioni poste dalla madre, che è una rivale per la fretta con la quale la figlia vorrebbe godere dei vantaggi di cui le pare goda la donna adulta. La sensazione di essere Cenerentola o Prezzemolina, che le fiabe mettono in scena con mezzi la cui ingenua semplicità non deve ingannare rispetto alla ricchezza di senso e alla tragicità dei conflitti che velano, riguarda questa fretta di crescere, di imporsi sulla madre, che la figlia considera ormai vecchia. Che aspetta a farsi da parte e lasciarle il passo? Allo stesso tempo il compito della madre, di riconoscere che la figlia si sta separando da lei, che è una donna, anche se così giovane e inesperta, capace quanto lei, e in futuro più di lei, di accendere il desiderio maschile, è talmente difficile che di solito non riesce.

Nessun torre, né quella dove l’orca, figura ostile e magica che subentra alla povera madre di Prezzemolina, né quella di Cenerentola, che da Disney in poi diventa la prigione estrema, ben più costrittiva del camino, impedisce che, dove compare, la fiaba  finisca con le nozze felici, con la bella ex-reclusa magnificamente abbigliata accanto al regale sposo. Del resto le fiabe dove una figura magica si impadronisce di una creatura umana finiscono sempre nel modo più vantaggioso per l’attante protagonista. Consideriamo quindi la Torre della segregazione come una costrizione alla quale corrisponde la faticosa liberazione dell’attante che la subisce come ingiunzione.
Nella crescita una costrizione vale come ingiunzione, che il soggetto subisce fino a che, sentendo minacciata la propria possibilità di crescere, trova i mezzi per liberarsene.

Le ingiunzioni che abbiamo scelto per ordinare le nostre fiabe possono essere considerate altrettante costrizioni (francese: contraint), dando a Fabulando una struttura centrata su una crescita che sarebbe impossibile senza una costrizione. Nella poesia seguire la costrizione del metro è la via stretta attraverso la quale sgorgano sonetti e poemi, come la piccola finestra, la sola apertura della torre, è il passaggio da cui il principe entra per uscirne con la bella. Nell’ultima splendida versione di Cenerentola di Kennet Branagh (US 2015) dalla piccola finestra della torre esce solo la voce della protagonista, ma questo basta perché il re finalmente la trovi e la liberi. (AG)





IngleseVeliero della maledizione
Carta ingiunzione



Nel mare della Carta della successione, a est e a ovest, naviga il Veliero della maledizione, che come il Patibolo della condanna a morte non compare al di sopra del fiume che separa il sud materno dal nord paterno. L’area materna ha l’esclusiva delle ingiunzioni più crudeli, come se le madri nella crescita del soggetto fossero più pericolose dei padri. È come se le fiabe confermassero la tradizione millenaria per la quale la donna è diaboli janua (porta del diavolo) e legis prima desertrix (prima ad abbandonare la legge), come Eva col serpente. L’inferiorità della donna dipenderebbe dal fatto che Eva deriva dall’uomo, mentre l’uomo è formato da Dio, anche se si racconta che dopo aver creato la Terra, le piante e gli animali col suo desiderio e la sua parola formò Adamo usando la terra.

Conseguentemente la forza generativa era fino all’Ottocento prerogativa del maschio, che aveva gli homuncula nello sperma, mentre la femmina aveva la funzione di nutrire e far crescere la nuova creatura (vedi anche: Favole e scienza). Allo stesso tempo la donna, se non induce l’uomo al peccato, se nasce e vive solo in funzione della sua maternità, è una creatura da venerare, e alla Madonna di fatto sono dedicate più chiese e rivolte più preghiere che al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo.

Le Veneri paleolitiche, che sono le prime rappresentazioni del corpo umano, hanno le parti relative alla sessualità accentuate e rappresentate con efficace realismo – seno, ventre, natiche, cosce – mentre il loro volto è privo di lineamenti e mancano le estremità delle braccia e delle gambe. Dal corpo femminile sono rimosse l’espressione del volto, quindi il linguaggio, la capacità di movimento, la parte inferiore delle gambe e i piedi, e la capacità di relazione, gli avambracci e le mani. Passiva come la terra con il seminatore, la donna deve stare ferma, farsi trovare, non cercare, non parlare. Che la piasa, che la tasa e che la staga in casa, recita tuttora un detto veneto per descrivere la donna ideale.

Il Veliero della maledizione e Il patibolo della condanna a morte riguardano solo la parte sud, materna, della carta, perché riguardano il femminile come terra da penetrare per trarne frutto e insieme come materia originaria e quindi inconoscibile. Per questo, perché fin dal paleolitico viene definita come inconoscibile, la donna contiene l’ignoto, la notte, la morte. Per questo il sangue mestruale ha potuto costituire un tabù, per questo la donna è ancora velata e segregata. Questa attribuzione del male estremo alla donna implica come conseguenza la sua capacità di agire il male con conseguenze terrificanti. Questa verità mitica è tuttora in vigore, nel mito ecologistico per il quale la madre terra condannerebbe a morte il genere umano che l’ha violentata, modificandola con le sue città e inquinandola col suo sviluppo industriale. Se fosse una fiaba di Fabulando, starebbe nel Quadrante sud-ovest e ci chiederemmo se risponda a questa ingiunzione del Veliero della maledizione o a quella del Patibolo della condanna a morte, insieme alla storia di Avatar (James Cameron, US 2009). Accenniamo al finale poco felice di questa bella fiaba contemporanea, che tutto il mondo ha visto e sentito. Jake Sully, l’attante protagonista maschile, si è salvato, ma il suo corpo umano è morto; i magri blu Na’vi possono anche essere migliori di noi, ma non sono esseri umani. La Terra poi, che è il nostro unico reame, è destinata alla morte, e dato che su Pandora restano solo due uomini, la catena delle generazioni umane si ferma per sempre.

Il femminile arcaico e mitico che ha la sua prima raffigurazione nelle Veneri paleolitiche è ancora vivo, ma appartiene alle donne in carne ed ossa quanto agli uomini. Nelle fiabe la maledizione o la condanna a morte provenienti dall’attante parentale materno colpiscono sia i figli che le figlie. Il compito di liberarsi dal dominio di questa madre arcaica per entrare nel campo della parola è da assolvere perché rappresenta una precondizione per la crescita. Intendiamo quindi il Veliero della maledizione, come il Patibolo della condanna a morte, ingiunzioni imposte dalle attanti genitoriali femminili, come espressioni paradossali, che raccontano alludendo a qualcosa di inesprimibile. Non ha parole né espressione, come i volti delle Veneri paleolitiche, e le storie che raccontano il dramma del soggetto imprigionato in questa area sono facilmente fraintese. Bisogna ricordare che mettono in parola qualcosa che di per sé si sottrae al linguaggio, come la malattia psicosomatica, come se il soggetto in parte non fosse ancora partorito, come se la madre possedesse in parte il corpo dei figli e delle figlie, impedendo loro di crescere fuori dal suo elemento inerte e muto.

La regina del Re Porco diventa madre grazie a tre fate, che la rendono perfettamente bella e inviolabile, ed escludendo da sé l’imperfezione, la espelle col figlio porcellino. Perché riprenda la successione delle generazioni non basta la sua magica gravidanza, né che accolga il figlio animale. Il porco ritrova la sua forma umana solo quando la terza sposa accoglie teneramente la sua natura animale, ma lui le vieta di dirlo ai genitori. Solo se la generazione dalla quale è venuta la maledizione è tenuta all’oscuro, la metamorfosi può diventare definitiva, e solo dopo la nascita di un erede umano dalla giovane coppia. L’umanità libera dal rigore dell’ideale ripristina il flusso della vita.

Nella Bella addormentata nel bosco la maledizione viene dalla vecchia fata, che si vendica perché la sua antica potenza, la stessa di Atropo, è stata dimenticata. Fortunatamente insieme a questa fata spietata ci sono fate propizie, che mitigano la condanna. L'attante protagonista deve però passare un secolo intero nel sonno, che nella versione di Perrault (La Belle au bois dourmant), riguarda tutto il bosco oltre agli abitanti della reggia. Nella mitologia greca gli esseri umani spergiuri erano condannati a morte, mentre la stessa colpa, se mai un dio se ne fosse macchiato, veniva punita con un lungo sonno comatoso che somiglia a quello della nostra favola. Il giuramento era stato istituito da Zeus e veniva pronunciato sulle acque di Styx, dea fluviale gelida e sotterranea. Proponiamo questo nesso perché possiamo associarlo alle nostre fiabe: Styx significa brivido, lo stesso brivido unheimliche che provoca la pelle d’oca, l’emozione di fronte all’ignoto che fu fatale a Giovannin senza paura e della quale andava in cerca l’altro Giovannino (Giovannino e la pelle d'oca).

La terza e ultima storia che compone questa sezione è una magnifica fiaba siciliana, Sfurtuna. La protagonista è maledetta dalla sua Sorte, sorella popolare delle mitiche Parche, o Norne, Fatae per i latini, e deve lasciare la madre e le sorelle perché la sua maledizione non ricada anche su loro. Le fiabe europee, per quanto abbiano precedenti certi e verificabili nella letteratura antica, e precedenti altrettanto certi ma inaccessibili nella tradizione orale, non nascono prima del XVI secolo, quando Giovan Francesco Straparola pubblicò alcune fiabe fra le novelle delle Piacevoli notti. La modernità delle fiabe implica attanti che rappresentano un soggetto moderno, che agisce individualmente, capace di dissoggettarsi dalle autorità parentali, affrontandone le ingiunzioni e seguendo la legge del desiderio fino al felice raggiungimento della meta. Una delle più belle immagini di questa possibilità è proprio nella favola siciliana di Sfurtuna, che dopo aver subito la maledizione della sua Sorte/Fata incontra la Gna Francisca, lavandaia del re, che la prende come aiutante. Alla solerte disponibilità di Sfurtuna a curare il bucato corrispondono gli oggetti femminili, abiti, belletti e ornamenti, che la lavandaia acquista per lei e per la sua Sorte. Pare che si possa modificare la propria sorte solo andando a cercarla anziché fuggirla, tentando di curarla, per quanto sia brutta, scontrosa e scarmigliata, portandole doni, lavandola e rivestendola. Femminile è l’acqua del fiume dove Sfurtuna e la sua protettrice lavano i panni del re, e questa attività della sfera femminile può rappresentare la capacità ricettiva, che accoglie ed elabora aspetti sporchi e minacciosi rendendoli puliti e propizi.

Le mie pazienti con una storia di disturbi anoressico-bulimici trovano significativi e fecondi motivi tratti dalle fiabe che hanno l’ingiunzione del Veliero della maledizione e del Patibolo della condanna a morte. Se non avessimo parole e storie per agganciare qualcosa chiuso in un’area innominata e innominabile, non potremmo sperare di alleviare certe sofferenze. Non abbiamo altro che parole e storie, e qualcosa di vantaggioso può accadere solo se ricordiamo che sono ami ed esche false, favole, con le quali possiamo però pescare certe carpe di verità (parafrasando Freud [Costruzioni in analisi, p. 262] che cita Shakespeare: Your bait of falsehood takes this carp of truth [Hamlet, Act II Scene I, v. 61]). Né un palombaro né un tuffatore di Delo potrebbero vedere direttamente le carpe e i mostri acquatici nel loro habitat, e di questo luogo inaccessibile, l'inconscio, ipotizziamo l’esistenza senza poterla dimostrare. Non ha quindi una consistenza maggiore di quello dove le fate e le sorti, benigne e maligne, soggiornano.

Non si può programmare un viaggio in questo luogo, ma possiamo immaginarlo, e nella mente possiamo ripulire e rivestire la nostra cattiva sorte. Il viaggio immaginato non è il viaggio reale, ma senza speranza non c’è movimento, e fantasticando o immaginando il pensiero e le emozioni si muovono. Questo movimento a sua volta può aprire al desiderio la porta che era stata murata. (AG)





InglesePatibolo della condanna a morte
Carta ingiunzione






L'ingiunzione del Patibolo della condanna a morte mette in scena un conflitto gravissimo, che poggia sull'ambivalenza che riguarda qualunque rapporto importante, e il legame fra madre e figlia potrebbe essere il più vitale e allo stesso tempo il più pericoloso di tutti. Senza questo corpo a corpo la vita non fluisce, ma senza una separazione la vita non può fluire. Come questa ingiunzione, quella del Veliero della maledizione implica un rischio radicale.

Nascere, vivere, morire: il filo della nostra esistenza aveva nella mitologia greca tre sorelle immortali, la prima delle quali filava, la seconda avvolgeva il filo, la terza lo tagliava. Si chiamavano in greco Moire o Parche, e il fato (dal latino fatum, destino, plurale fata) di morte che dipendeva da queste filatrici non poteva essere modificato nemmeno da Zeus, sovrano degli dei olimpici. Dalla parola latina fatum, in particolare dal plurale fata, viene il nome della creatura ultramondana che nelle nostre fiabe appare quando il soggetto soccomberebbe a una minaccia. Il nostro fato non è nelle mani di Zeus, né dei nostri genitori. Si può incontrare, fuggendo, una fata soccorrevole, o una vecchietta, o una casa con sette lettini piccini piccini. Oltre il mondo della famiglia, matrice essenziale della nostra vita, c'è un mondo nel quale, rischiando, possiamo trovare un riparo, una noce o una nocciola magiche. La vita è più grande dei lacci che ci legano alla nostra storia e che allo stesso tempo ci imprigionano, e i nodi si possono sciogliere, per quanto siano stretti e complessi. Se ce l'ha fatta Biancaneve, chiunque può sperare di farcela. (AG)



IngleseFortezza della solitudine
Carta ingiunzione


Mentre nel Castello dell’amore imposto il legame tra padre e figlia è talmente forte che lo sposo si presenta come minaccioso o disgustoso, nella Fortezza della solitudine i genitori mancano, non sono nemmeno nominati – Il corvo e La ricotta bianca – oppure c’è solo un padre, che chiede inutilmente di sposarsi all’unica figlia – Panepinto - o all’unico figlio, come nella fiaba di Basile I tre cedri (vedi anche: I tre cedri, da Basile, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole. La fiaba teatrale di Carlo Gozzi L'amore delle tre melarance [1761] è tratta da questa fiaba, come l'opera lirica di Sergej Prokofiev [1919]).

La fiaba più famosa della principessa che non vuole sposarsi è Turandot, scritta a Parigi all’inizio del Settecento dall'orientalista Pétis de La Croix, che conosceva questa storia dalla letteratura persiana. Ambientata, come la storia di Aladino, in una Cina immaginaria, Turandot è stata rappresentata come opera lirica a Pechino nel 1998, come se fosse finalmente tornata nel suo luogo d’origine. Favole di favole, che in questa dimensione espressiva si generano spontaneamente e fanno immaginare e sognare.

Nella favola di Panepinto una fanciulla decide di farsi uno sposo di suo gusto chiedendo al padre mercante di comprarle farina d’Ungheria, acqua di rosa e pietre preziose, e siccome le riesce bene prega gli dei di dargli vita, ricordando quel che era successo allo scultore Pigmalione con la sua statua di Galatea. Così ha uno sposo di suo gusto, con l’approvazione del padre stupefatto, ma una regina glielo ruba durante la festa di nozze, e l’attante protagonista femminile per ritrovarlo deve camminare a lungo e sopportare pazientemente la smemoratezza di lui. Questa ricerca dello sposo perduto, che ha il suo prototipo nella peregrinatio di Psiche abbandonata da Amore nella fiaba di Apuleio, ricorrerà nelle versioni popolari di Re Porco (vedi anche: Re Porco, versione fiorentina, e Amore e Psiche, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole).

Il corvo di Giambattista Basile ha ne La ricotta bianca una sua versione popolare calabrese, raccolta da una narratrice analfabeta nel 1931, che proponiamo in Fabulando, oltre che per il suo fascino, per mostrare la grande penetrazione del capolavoro di Basile nella favolistica popolare meridionale. È una fiaba crudele e cruenta, anche per questo ricca di fascino. Il protagonista maschile regna senza limitare il suo desiderio, e la passione per la caccia, racconta Basile, era tale che trascurava gli affari del regno. A sposarsi non ci pensa nemmeno, fino a quando l’immagine di una sposa impossibile si forma nella sua mente, legando il rosso sangue di un corvo appena morto, il nero delle sue piume e il bianco della pietra di marmo sulla quale è caduto; il marmo ricorda la morte e il sepolcro come il nero e il sangue del corvo.
Il fratello minore del re agisce in questa fiaba come cercatore degli oggetti dal re desiderati, e riesce a trovarne molti oltre alla sposa ideale, ma tutti questi oggetti sono destinati a procurare la morte al re quando li riceverà in dono. Il fratello maggiore vuole una sposa viva che porti in sé i colori della morte. Sceglie, interpretiamo, vita e morte, come se potessero essere una cosa sola, e infatti la sposa ha come padre un negromante ne Il corvo, mentre ne La ricotta bianca ha come terribili genitori, un drago e una draga. La sposa perfetta viene quindi trovata per il re dal principe suo fratello, ma al prezzo della vita di uno dei due. Non ci sarà lieto fine se non dopo molte perdite, inclusa l’uccisione dei bambini nati dall’unione del re con la Bella, perché amare come una sola cosa, senza limiti, la vita e il rifiuto della vita, significa scegliere la morte per sé e per gli altri. Ci sono differenze significative fra Il corvo e La ricotta bianca, quando il re finalmente capisce che suo fratello per accontentarlo ha sacrificato la sua vita, delle quali si parla a proposito delle due fiabe.

Potrebbe esserci un nesso fra il desiderio del re di questa fiaba, che combina il rosso del sangue del corvo, il nero delle sue piume e il bianco del marmo, e il desiderio di maternità della madre di Biancaneve: rosso del sangue che sgorga dalla puntura del suo ago, bianco della neve e nero dell’ebano. Ricordiamo che i Fratelli Grimm conoscevano bene il capolavoro di Basile.
La regina madre di Biancaneve desidera dare vita a partire da un’immagine di morte, e cerca di fermare la vita stessa, l’avvicendamento delle generazioni, eliminando la figlia quando cresce e si fa tanto bella da minacciare il primato della madre.

Ci sono importanti differenze fra Il corvo e La ricotta bianca quando il re sa che il fratello minore ha sacrificato la vita per renderlo felice. Ne Il corvo il re ama la statua del fratello più dei suoi bambini e li uccide rischiando di far morire di dolore alla moglie; a questo punto arriva il negromante come un deus ex machina e trasforma la tragedia in un finale felice. Nella favola calabrese il re ascolta i genitori della moglie che si sono trasformati in piccioni e parlano di come potrebbe ridar vita al fratello causando ai suoi bambini una morte solo temporanea.

Il re di questa storia, e il fratello che cerca di accontentarlo, ferma la vita nella fortezza della sua solitudine, fissato a un’immagine perfetta, quindi inevitabilmente legata alla morte come arresto dell’avvicendamento delle generazioni. Il desiderio di una nuova vita fa incursione all’interno di questo specchio dell’ideale, lo stesso che cattura fatalmente Narciso. La fiaba dice che solo un lunghissimo viaggio, con un’abnegazione che esige il sacrificio di tutto ciò che si ha, anche la vita stessa, può guarire l’attante protagonista dal fascino per un’immagine allo stesso tempo morta e viva, come una statua, una fantasia o un riflesso. (AG)





IngleseCastello dell'amore imposto
Carta ingiunzione



Il Castello dell'amore imposto, come la Torre della segregazione, figura solo in un quadrante della nostra Carta fiabesca della successione.  Lo troviamo infatti solo nel quadrante nord-ovest, dato che le fiabe cha abbiamo scelto raccontano di un'attante protagonista femminile che per salvare o aiutare il padre deve vivere con un essere mostruoso.

Con la stessa ingiunzione comincia anche la celebre Pelle d'asino di Charles Perrault, nella quale si racconta di un re che promette alla moglie morente di risposarsi solo se troverà una donna bella come lei. Dopo aver cercato invano una nuova sposa, il re si accorge che sua figlia è la sola al mondo bella come la madre, e pretende di sposarla. Ma la principessa fugge coperta da una pelle di un asino che nasconde la sua bellezza. Alla fine rivelerà la sua identità al principe straniero che si è ammalato d’amore per lei e vivrà felice e contenta, come la protagonista della fiaba antica L'Orsa e della fiaba popolare Le tacconelle di Maria di Legno. (Per questo tipo vedi anche le due fiabe dialettali O dente d'oo e Maria Intaulata, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole).

A questa ingiunzione corrispondono inoltre le fiabe del tipo Cordelia, rappresentate in Fabulando da Occhi-Marci, che cominciano con un re che, come re Lear nella tragedia di Shakespeare, chiede alle tre figlie di dire quanto lo amino. Le figlie maggiori lo accontentano, mentre la risposta della più piccola lo fa andare su tutte le furie, e la scaccia..Anche nella tragedia di Shakespeare le figlie maggiori accontentano il padre dichiarandogli l'amore assoluto che pretende, mentre Cordelia, la figlia più piccola, dice di amarlo, ma come padre, altrimenti non potrebbe amare l'uomo che la sposerà. È interessante vedere come la fiaba, a partire dalla stessa ingiunzione dell’amore imposto che porta alla tragedia Lear e le sue figlie, trovi una via verso il lieto fine (Vedi anche: Marian Roalfe Cox, Three Hundred and Forty-five Versions of Cinderella, Catskin and Cup O' Rushes, London 1893. Vedi inoltre: Adalinda Gasparini, La luna nella cenere. Analisi del sogno di Cenerentola, Pelle d’Asino, Cordelia, 1999). 

Nelle fiabe come La Bella e la Bestia, che è la versione più nota del suo tipo, della quale la catalana di Alghero, Belindu, è una variante, il padre è minacciato di morte dalla Bestia, alla quale ha rubato una rosa per la Bella sua figlia. La vita del padre sarà risparmiata solo se una delle figlie andrà volontariamente a vivere con la Bestia. La morte del padre è rimandata dal sacrificio volontario della figlia: la giovane generazione è pronta a rinunciare alla propria vita per salvare quella del genitore. In ogni caso la successione per l'attante protagonista è impossibile, e la storia continua con l'incontro con la creatura mostruosa, che tratta Bella come una regina, e accetta malinconicamente che non possa amarlo. Al padre perfetto, amato fino al sacrificio estremo, corrisponde uno sposo mostruoso, che però si prende cura della Bella prigioniera, trattandola come una vera regina e accettando il rifiuto con cui lei risponde alla sua proposta di matrimonio.
Al rapporto ideale figlia/padre segue un rapporto impossibile fra bellezza e bruttezza. La Bella salva il suo legame perfetto col padre accettando di essere prigioniera di un essere repellente, mentre la Bestia deve farsi amare dalla Bella per liberarsi dalla maledizione che lo condanna a un corpo mostruoso. L'attante protagonista di questa fiaba è la Bella, perché è l'ingiunzione paterna a dare avvio alla vicenda, mentre la Bestia è confinata nel suo castello e nella sua forma orrida per una ragione che solo qualche volta viene rivelata alla fine della fiaba; si tratta in ogni caso di una creatura molto potente che il principe ha rifiutato di sposare, e che si era vendicata condannandolo a un corpo mostruoso fino a quando una fanciulla non si innamori di lui senza conoscere la sua vera natura.

Nella fiaba romanesca Rana rana, che comincia con l'ingiunzione della Vetta del compito impossibile, è la bella sconosciuta a spiegare all'incredulo Nicolino che è proprio lei la ranocchia che credeva di dover sposare:

Avete da sape' che io ciavevo 'n'affatatura ; e rimanevo ranocchia sin'a ttanto che nun avessi trovato un giuvinotto che, ssenza sape' ch'ero bbella, m'avessi sposato.

Nella raccolta Fabulando un quarto tipo di fiaba ha inizio con l'ingiunzione del Castello dell'amore imposto: un animale - un ranocchio nel nostro caso - soccorre l'attante protagonista femminile, chiedendo in cambio che gli permetta di starle vicino come se fosse la sua sposa. Di questa principessa sappiamo solo che ama giocare con la sua palla d'oro, e che prova tanta repulsione per il piccolo pretendente, indesiderato quanto la Bestia dalla Bella. Nel Principe Ranocchio notiamo possiamo anche notare come il padre le imponga di mantenere la sua promessa e lasciare che il ranocchio mangi dal suo piatto e dorma nel suo letto. Solo tollerandone la presenza, e accettando di baciare il viscido ranocchio, metterà termine alla maledizione che costringeva un bel principe a quella forma animale. Osserviamo infine che l'habitat del ranocchio è l'acqua, elemento femminile come la terra, e che la trasformazione in animale derivava da una creatura femminile.
Nell'imposizione amorosa il padre figura come sposo incestuoso o come causa, volontaria o involontaria, dell'unione della figlia con uno sposo animale o con uno sposo misterioso e spaventoso - quest'ultimo caso si verifica nella fiaba latina Amor et Psyche di Apuleio.

L'idealizzazione dell'amato può apparire come una forma d'amore e di devozione, che però implica l'attaccamento incestuoso al genitore amato e idealizzato nell'infanzia. Solo la graduale accettazione della disturbante estraneità dell'altro scioglie l'ingiunzione del Castello dell'amore imposto, sia che si racconti di un padre che pretende di legare a sé la figlia per sempre nell'incesto, come in Pelle d'asino e ne Le tacconelle di Maria di Legno (sia che si racconti di una figlia che non esita a morire per salvarlo.
I genitori sono imposti alla figlia e al figlio, e idealizzarli è inevitabile e necessario nella prima infanzia, mentre la maturità esige l'elaborazione della perdita di questo ideale, che fa della figlia o del figlio creature perfette in quanto partner scelti da/che hanno scelto - questo amante ideale.

Il divieto dell'incesto rende possibile tracciare un confine fra generazioni, così che il tempo possa fluire, irreversibile, rendendo possibile la separazione, l'avvicendarsi delle generazioni e la fecondità rinnova la vita.
Perché accada occorre che gli filiali attanti femminile e maschile sperimentino il desiderio uno dell'altra, attraverso la possibilità di perdersi: la Bestia teme che la Bella non tornerà da lui, ma nonostante questo la lascia andare, mentre la Bella teme che la Bestia sia morta a causa della sua dimenticanza, e per non perderlo è pronta a sposarlo. Nelle fiabe come Pelle d'asino il gioco fra perdersi e desiderarsi si realizza negli incontri al ballo, dal quale la protagonista fugge in incognita, come Cenerentola, facendo crescere il desiderio del principe finché si ammala d'amore. E come Cenerentola perde la scarpetta, così Pelle d'asino lascia indizi grazie ai quali il principe potrà finalmente scoprirla. (AG)





Inglese4. Quadranti


Quadrante sud ovest
Quadrante nord ovest
Quadrante nord est
Quadrante sud est
Quadrante
                          sud-nord-est-ovest
Quadrante sud-ovest
Quadrante nord-ovest
Quadrante nord-est
Quadrante sud-est
Quadrante sud-nord-est-ovest






IngleseIntroduzione



















Eraclito

L'opposto converge
e dai divergenti
bellissima armonia;
e tutte le cose nascono per discordia.




(Eraclito, DK 8)

Una mappa che aiuti ad orientarsi nel mondo delle narrazioni fiabesche necessita di un dispositivo semplice, chiaro e noto a tutti, perché ciascuno possa fare il suo percorso senza perdersi in quel mondo caratterizzato da innumerevoli storie e personaggi che si combinano in modi ben conosciuti o sorprendentemente diversi, dando origine alle fiabe che sappiamo, a quelle che non avevamo mai sentito e a quelle nelle quali riconosciamo un personaggio o un episodio ma che poi hanno degli sviluppi per noi del tutto nuovi.
Un dispositivo semplice, chiaro e ben conosciuto per orientarsi, dunque. Cos’altro se non i punti cardinali che da tempo immemorabile guidano i viaggi per mare e per terra degli esseri umani? Nord, sud, est, ovest: in base alla posizione del sole rispetto all’orizzonte tutti noi possiamo identificarli.

Ma nel mondo di Fabulando i riferimenti sono diversi. La prospettiva delle narrazioni fiabesche è quella dell’attante giovane (pensiamo a Biancaneve, a Cenerentola, al ragazzo che diventerà il Marchese di Carabas), è sua la storia che si racconta, suo il percorso verso l’autonomia che caratterizza l’adulto. Ogni attante protagonista si trova, all’inizio della fiaba, a doversi confrontare con una figura di tipo di genitoriale e con l’ingiunzione che comporta: quello è il suo riferimento principale. E le cose cambiano se si tratta di una figura materna o paterna: il confronto con l’una o con l’altra esige prove diverse e porta su strade diverse. Non solo, l’attante protagonista può essere una fanciulla o un ragazzo e anche questo è fondamentale: la differenza fra femminile e maschile nelle fiabe è delineata con chiarezza, i percorsi delle fanciulle non sono quelli dei ragazzi e viceversa. E rispettando questa diversità è possibile l’incontro.
Eccoli quindi i punti di riferimento che possono aiutare a orientarsi in Fabulando: il sesso dell’attante protagonista e quello della figura genitoriale, ciascuno con una polarità: femminile/maschile il primo, materna/paterna il secondo. Sono dunque quattro, come i punti cardinali. E il tratto fondamentale è proprio la polarità. Qualcosa che va nella stessa direzione dell’opposizione sole/luna che simboleggia l’opposizione maschile/femminile: in alcune lingue la parola ‘sole’ è maschile e ‘luna’ femminile, mentre in altre è esattamente il contrario; quello che comunque è sempre presente è la polarità fra i due.

La posizione a nord delle ingiunzioni paterne è stata pilotata dal simbolo che abbiamo scelto: i monti. La principale catena montuosa italiana, le Alpi, si trova a nord. E lì abbiamo collocato le ingiunzioni paterne, quelle materne si sono naturalmente trovate al polo opposto, a sud, con il mare che è simbolo universale della madre.
Abbiamo messo a ovest le fiabe con attante protagonista femminile: nelle carte geografiche e nelle mappe ovest è a sinistra, e l’orientamento della nostra scrittura è da sinistra verso destra. Abbiamo voluto cominciare da lì, dalle storie del femminile, che sono le più numerose fra le narrazioni fiabesche. A est, quindi, abbiamo posto i racconti con attante protagonista maschile.
Abbiamo così i quattro quadranti che organizzano quasi tutte le fiabe di Fabulando. Ma ne sono rimaste fuori alcune, Hänsel e Gretel e le versioni de L'Augel Belverde, le cui ingiunzioni sono sia materna che paterna e gli attanti protagonisti sia femminili che maschili. Per loro abbiamo inventato un quadrante impossibile sud-nord-est-ovest.

I quadranti quindi, insieme alle ingiunzioni, sono il principale dispositivo di orientamento all’interno di Fabulando: nella carta di ogni fiaba in alto a sinistra si trova l’indicazione del quadrante al quale appartiene e da lì, con un click o un touch, si apre la carta che mostra tutte le fiabe di quel quadrante, tutte cliccabili, per proseguire l’esplorazione e incontrare nuovi personaggi e nuovi storie. (CC)







IngleseQuadrante sud-ovest
Carta Quadrante












Si trovano in questo quadrante le fiabe nelle quali l'attante protagonista è femminile, e inizia il suo cammino, mettendo in movimento la fiaba stessa, in riferimento a una mancanza, a un ordine, a una costrizione, a una maledizione, a una condanna a morte agita dalla figura materna.

La sola fiaba di questo quadrante nella quale la figura materna non impone nulla alla figlia è quella dei Sette piccioncini, che è anche la sola nella quale l'attante protagonista parte volontariamente per rimediare alla mancanza della figura materna, vale a dire della madre stessa e della levatrice smemorata.

In tutti gli altri casi l'attante protagonista subisce una vessazione che va dalla segregazione di Cenerentola e di Prezzemolina, agita dalla figura materna personificata nel primo caso dalla matrigna, nel secondo dalla strega, alla maledizione e alla condanna a morte che costringono a un sonno comatoso la Bella addormentata e Biancaneve, passando per il compito possibile ma pericolosissimo imposto dalla mamma di Cappuccetto, per l'esilio di Fiore e Gambodifiore  imposto dalla matrigna, per il compito impossibile del Gatto Mammone imposto dalla madre, e per la condizione derelitta della Bambola Popoavola, derivante dalla morte della madre molto povera che lascia alle figlie solo una cassettina piena di stoppa. Da osservare che la Torre della Segregazione si trova solo in questo quadrante, e che il Veliero della maledizione e il Patibolo della condanna a morte sono presenti in questo quadrante e nel quadrante sud-est, vale a dire solo quando l'attante protagonista, femminile o maschile, deve rispondere a una persecuzione che tende alla sua stessa eliminazione, e che riguarda la figura materna. Chi ne deducesse che le madri sono più pericolose dei padri mancherebbe la comprensione delle fiabe: è la relazione con la madre ad essere particolarmente pericolosa, ma è da questa relazione che viene a ogni essere umano la vita e il primo nutrimento, fondamento e modello di ogni nutrimento futuro.

Le fiabe del quadrante sud-ovest hanno una attante protagonista bella, buona e innocente, anche se, come Cenerentola hanno fatto fuori la prima matrigna, e del resto la morte della madre buona significa l'impossibilità di entrare in contatto con la madre donatrice. A questa figlia perfetta corrisponde una madre che arriva a ordinare la morte della figlia e a volerne mangiare il cuore. Ma la fiaba mette in scena un conflitto perché il sollievo che si prova identificandosi con la parte buona e perseguitata protegge dall'ansia e allo stesso tempo permette che emergano contenuti inconsci distruttivi che nella vita di tutti i giorni riguardano la relazione fra madre e figlia.

Nella chiave della successione, possiamo proporre una costante comune a questo conflitto, che può presentarsi nelle fiabe in innumerevoli forme, e nella vita in tante forme quante sono le persone che lo vivono. Le fiabe raccontano che la madre non vuole essere superata dalla figlia, e fa di tutto per fermare il tempo. Nella vita, alla madre che non tollera di invecchiare, di veder sfiorire la sua bellezza, diminuire il suo potere, di avvicinarsi alla morte, corrisponde una figlia che vorrebbe prenderne il posto prima che sia trascorso il giusto tempo. È la fretta della bambina, che non vede l'ora di impadronirsi dei gioielli e degli abiti della madre, così affascinanti che solo gli abiti fatati di Cenerentola possono renderne l'idea, della bambina che vorrebbe il posto della madre accanto al padre e nella possibilità di dare la vita. L'attante protagonista femminile, la giovane, vince perché il tempo è suo alleato, non perché i figli siano migliori dei genitori. Ma è importante che si credano migliori, tanto importante che le fiabe raccontano di una figlia bella e innocente e di una madre che la perseguita, perché non si può affrontare la vita, così dura e rischiosa, se si crede di essere migliori di quanto siamo realmente.

Per non vedere dove siamo,
Perduti in un bosco stregato,
Bambini che hanno paura del buio,
Mai stati felici né buoni.

(W. H. Auden, 1 settembre 1939)

Nelle fiabe del quadrante sud occidentale si racconta sempre anche di un tempo che deve passare, un tempo senza tempo, o un tempo incredibilmente lungo, perfino cento anni, il secolo intero che dovette dormire la Bella Addormentata. Il tempo vince sempre, e la vita scorre facendosi beffe della nostra illusione di rallentarne o accelerarne il flusso. Bellezza e bontà sbocciano come i fiori, secondo la loro stagione, danzando secondo il ritmo irreversibile della vita. (AG)





IngleseQuadrante nord-ovest
Carta Quadrante



Nel quadrante nord-ovest la luna dell'attante protagonista femminile spande il suo chiarore sui monti paterni. Si trovano in questo quadrante fanciulle il cui legame con la figura paterna, un re, un mercante, o anche un malfattore, è tale che il racconto sgorga da questo legame. Manca alla nostra raccolta la fiaba più esplicita sull'imposizione dell'amore che si verifica nella relazione fra padre e figlia: Pelle d'Asino, come la intitolò Charles Perrault (Les contes de ma mère l'Oye, 1697), o Le tacconelle di Maria di Legno, come si intitola in Molise, o O dente d'oo, in Liguria (O dente d'oo è accessibile nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Già presente come Doralice nella raccolta cinquecentesca di Straparola, la fiaba d'incesto figura due volte nel Cunto de li cunti di Basile: L'Orsa e Penta mano-mozza, e in quest'ultima il re che vuole imporre il suo amore non è il padre, ma il fratello della protagonista.. Come nelle versioni popolari sopra ricordate, nella favola di Perrault la protagonista impone al padre delle prove impossibili per dissuaderlo dalla sua fissazione incestuosa. Chiede, uno dopo l'altro, abiti di bellezza tali che le conferiscono lo splendore del sole, la serenità del cielo, o la grazia del mare con tutti i pesci, trasformandola quasi in una dea della natura. Ogni volta il padre le fornisce gli abiti richiesti, fino a che la figlia fugge coperta dalla pelle di un asino, che in altre fiabe è una veste di legno, o la pelle di una vecchia morta a cent'anni. La figlia fugge, con tutta la bellezza che ha affascinato irrimediabilmente il padre, che però è nascosta da una pelle immonda, che svela e rivela, come gli abiti meravigliosi, la relazione incestuosa col padre.

Questo è il tratto fondamentale di questo quadrante: il padre si impone come oggetto d'amore, esplicitamente nelle fiabe che abbiamo finora citato, o implicitamente, come in Occhi-Marci. È anche il caso della Bella e la Bestia, dove l'amore del padre per la figlia gli fa rubare per lei una rosa, rischiando così la propria vita, mentre l'amore che la figlia Bella ha per lui le fa scegliere di sacrificarsi per salvarlo. L'ideale amoroso è talmente forte che solo la lunga frequentazione dell'opposto, la Bestia, può consentire una trasformazione. L'animale senza ideale è isolato in una forma ferina, l'ideale senza contatto con la parte animale è lontano dalla vita.

Singolare la storia provenzale calabrese, Indovina indovinatore, dove l'incesto è limitato al nutrimento che la figlia dà al proprio padre carcerato, singolare che la relazione incestuosa sia l'enigma per eccellenza, tanto che il solutore di enigmi non riesce a risolverlo. Qui anche il marchese è figura paterna, affrontando la quale si ottiene la liberazione.

Nella Bambola smarrita la protagonista ha un legame tale con la propria bambola che non può vivere se non la ritrova. L'aveva persa perdendo il padre, vale a dire perdendo l'ideale di se stessa come partner del padre. Questa parte ideale, senza la quale la principessa non può vivere, la sua bambola smarrita, si trova presso un principe, che ne è innamorato perdutamente. Il ritrovamento coincide con il loro incontro e con le nozze felici.
 
Ideale è lo sposo Panepinto, e la protagonista può sposarsi solo con chi ha impastato da sé, dandogli vita.

Violetta chiede al suo principe di metterla al posto dell'ideale, sottraendosi a tutti i suoi attacchi, e si rende così talmente desiderabile che alla fine diventerà regina. In questo gioco di contrasto, astuto e cortese, sempre condotto dall'attante protagonista femminile, l'orco che adotta Violetta rappresenta quella parte corporea, niente affatto ideale, senza la quale la fiaba non troverebbe il suo lieto fine. (AG)





IngleseQuadrante nord-est
Carta Quadrante



Il sole dell'attante protagonista maschile illumina a giorno i monti paterni, e le ingiunzioni paterne spingono gli attanti protagonisti delle fiabe di questo quadrante a lunghi viaggi.

Vediamo i Giovannini, ai quali manca il desiderio di imparare un lavoro per vivere: Giovannin senza paura non ha genitori, la sua ingiunzione è la mancanza di ingiunzione. Tutto sembra possibile e facile per questo personaggio, che però soccombe alla vista della propria ombra, o del proprio posteriore. Il Giovannino dell'altra fiaba (Giovannino e la pelle d'oca), che prende avvio quando il padre lo caccia di casa, è egualmente privo di paura, ma ne sente la mancanza. La percezione della mancanza è la condizione per apprendere dall'esperienza, e il finale delle due fiabe è ben diverso.

Nel Corvo, e nella Ricotta bianca che è una sua variante, il giovane re non ha genitori: la sua ingiunzione parentale è implicita: si oppone al padre dal quale ha ereditato il trono perché non volendo sposarsi non accetta di lasciare a sua volta il trono ai suoi discendenti. All'improvviso si innamora di una donna ideale attraverso un'immagine che lega la vita - il rosso sangue - e la morte - il freddo marmo. La fiaba procede districando questo impasto che impedisce che la vita fluisca e le generazioni si alternino, passo dopo passo, rischio dopo rischio. Con i suoi particolari cruenti questa storia basterebbe a mostrare come le fiabe non siano lievi giochi narrativi che eludono la dimensione tragica della vita.

Due attanti maschili derelitti, Pietropazzo e il futuro Marchese di Carabas (Il Gatto con gli stivali), possono trovare un aiutante magico che li dota di tutto ciò che serve a sposare una principessa e diventare eredi al trono, come se alla concreta privazione derivante dalla povertà paterna potesse corrispondere un aiuto soprannaturale o magico che li porta a conquistare una principessa.

Come il protagonista di Giovannino e la pelle d'oca, l'attante de Lo scarafaggio, il topo e il grillo, una delle fiabe più belle e comiche de Lo cunto de li cunti, viene scacciato e delegittimato dal padre: il disconoscimento paterno costringe i figli a contare solo sulle loro forze, così gli attanti diventano soggetti, e attraverso rischiose avventure possono giungere al lieto fine.

L'aquila d'oro è la più antica delle fiabe della nostra raccolta, ed è più una storia cavalleresca che una fiaba: il principe Arrighetto, erede al trono dell'impero d'Alemagna, conquista Lena, o Elena, figlia del re d'Aragona, entrando da lei nascosto in un'aquila d'oro come i greci entrarono a Troia nascosti nel cavallo. Il suo antagonista paterno è quindi il re di Aragona, che scatena una guerra per punirlo, una guerra che coinvolge tutti i popoli europei.

Nella favola friulana di Meni Fari il protagonista si trova a competere con una figura paterna ultramondana, San Pietro, che non vuole lasciarlo entrare in Paradiso dopo che è riuscito a mettere nel sacco la morte e il diavolo. Fiaba poco diffusa, Meni Fari mette in scena la vocazione anarchica dell'essere umano, un fratello fiabesco del mitico Prometeo, che ha come massimo desiderio la possibilità di prendersi gioco dell'Aldilà.

Finalmente abbiamo due fiabe nelle quali l'ingiunzione paterna è esplicita, perché sia ne La Regina Marmotta che in Rana rana il re padre, per scegliere il suo erede,  impone ai figli un compito impossibile. Ascenderà al trono l'attante che avrà tentato il compito impossibile, nel primo caso trovare l'acqua che rende la vita al padre re, nel secondo sposare la ranocchia che abita in un fosso.

Impossibile?
Nelle fiabe gli attanti che devono eseguire un compito impossibile o si assumono volontariamente un impegno impossibile, arrivano sempre al lieto fine, perché la vita è un compito impossibile che non si può eludere, a meno che non si arresti il flusso della vita, che è l'alternanza delle generazioni. (AG)





IngleseQuadrante sud-est
Carta Quadrante



Il sole dell'attante maschile sorge dal mare, o nel mare tramonta. Tramonta senza sorgere nella fiaba umbra del povero Tonto (Così finì il tonto), che non conosce la complessità del linguaggio e la responsabilità che ne deriva al soggetto. La madre, comprendendo la sua dabbenaggine, crede di poter rimediare con istruzioni precise, ma in questo modo il figlio non ha modo di formarsi, perché sa solo ripetere, senza mai interrogarsi, quel che gli viene insegnato.

Nella fiaba di Cecino una donna si strugge per la mancanza di figli e ottiene che i ceci della sua pentola si trasformino in bambini, ma li elimina uno ad uno. Il desiderio della madre, raccontano le fiabe, non basta per vivere: Cecino si nasconde nel buco della serratura e non esce finché la madre non gli promette di lasciarlo in vita. Promosso subito ad aiutante del padre, Cecino finisce nella pancia di una mucca, dalla quale esce grazie al padre, e solo dopo questa seconda nascita vivrà felice e contento con i genitori.

Un attante protagonista maschile deve andare in cerca delle sorelle che sono finite in una dimensione ultramondana perché hanno dovuto sposare tre re animali (I tre re animali) o i primi tre passanti (Il testamento d'una fata). Nel primo caso il protagonista pone rimedio a questa perdita del femminile di sua volontà, nel secondo è costretto a farlo per un incantesimo pronunciato da una vecchia. Ritrovare il femminile perduto significa riparare un lutto materno, e implica in entrambe le storie peripezie molto complesse. Il lieto fine ripristina il flusso della vita in quattro regni, altrimenti privi di eredi.

Nella Cerva fatata la regina madre ha un figlio grazie al cuore di un drago marino, la cui potenza fecondatrice è tale che anche i mobili della reggia partoriscono seggioline e tavolincini. Anche la damigella della regina ha un figlio, che cresce insieme al principe ereditario. I due giovani si somigliano come due gocce d’acqua e sono legati da un amore che suscita l'odio della regina, che vuole uccidere il figlio della damigella. La coppia dei fratelli non fratelli per giungere al lieto fine dovrà disarmare la potenza femminile mortifera.

In questo quadrante si trova la versione più antica, da noi rinarrata, del Gatto con gli stivali (La gatta con gli stivali), nella quale una madre, non un padre, lascia solo la sua gatta, non un gatto, in eredità al figlio minore, che insieme a questa aiutante magica trionferà sui fratelli, ai quali l'eredità materna aveva dato di che vivere normalmente.

L'ingiunzione del Veliero della maledizione si trova solo nella parte sud della nostra mappa, come un'ipoteca che l'attante riceve alla nascita per una colpa materna o per un'incantesimo.

L'attante protagonista maschile del Re porco ha forma animale, e per umanizzarsi esige dalla sua sposa un'accettazione impossibile: solo colei che accoglierà teneramente il regale suino tanto da coprirlo teneramente quando va a letto, conoscerà il suo segreto e alla fine avrà come sposo un bel principe. In una versione toscana della fiaba la sposa del porco per ottenere la sua definitiva umanizzazione deve consumare sette paia di scarpe di ferro, sette mazze di ferro e riempire sette fiaschette di lacrime (Re porco, versione raccolta da Vittorio Imbriani, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole).

Appartiene a questo quadrante la storia con la quale Basile apre la sua raccolta, La fiaba dell'orco, nella quale l'ingiunzione materna è esplicita come quella paterna nella fiaba Lo scarafaggio il topo e il grillo. Un figlio perdigiorno e buono a nulla veniva in quella fiaba cacciato dal padre, mentre qui è la madre a scacciarlo, altrettanto adirata col figlio da bastonarlo tanto che non gli lascia altra possibilità che fuggire. In questa storia troviamo un orco d'aspetto orrendo, che però risulta un eccellente educatore, e che alla fine renderà il suo protetto capace di arricchire la madre e far la dote a tutte le sue sorelle. Magnifica versione della fiaba del ciuchino cacadenari, questa fiaba racconta come il soggetto possa formarsi anche in una condizione disperata, purché possa apprendere da se stesso e dalla propria esperienza.

Gli attanti protagonisti maschili non vengono annientati dalle ingiunzioni della madre se possono separarsi da lei, e questo si realizza solo a condizione che si stabilisca una qualche alleanza con un aiutante maschile, sia un fratello, come ne La cerva fatata, siano i cognati, come ne Il testamento di una fata e ne I tre re animali, sia anche un orco educatore. (AG)





IngleseQuadrante sud-nord-est-ovest
Carta Quadrante



Si viaggi per tanto e tanto tempo nel Paese sconfinato delle fiabe, si decida di disegnare una carta che permetta a chi lo desidera di intraprendere questo viaggio, si scelgano le coordinate, i simboli e i segni più chiari e meno saturi. Si distribuiscano quindi sessantasei fiabe in questa carta, in modo che il viaggiatore che sceglie la nostra mappa possa visitarle godendone la bellezza, scoprendone l'origine, scorgendo i luoghi e le persone che l'hanno tramandata, immaginando tutti coloro, che senza essere ricordati, hanno contribuito a far godere noi, ancora oggi, della loro grazia. E poi ecco che una fiaba, e un'altra ancora, non si lasciano collocare in uno dei quadranti senza spostarsi più a sud, più a est, e ancora a nord, e a ovest...

Per mantenere il senso della mappa la tentazione sarebbe di lasciare da parte la fiaba che non vuole farsi mettere a posto, ma l'amore per questa potente, delicata e democratica forma espressiva esclude il tradimento. E allora si aggiunge un quadrante impossibile, che segue il movimento della fiaba in tutti i quadranti, per poi capire che l'eccezione conferma la regola, ne testimonia la vitalità.

La fiaba che ci ha fatto disegnare il quinto impossibile quadrante è una delle più amate e diffuse, Hänsel e Gretel, che fin dal titolo presenta due attanti, che sono egualmente perseguitati, egualmente attivi nel reagire al pericolo di soccombere. La fame induce la madre e il padre ad abbandonarli nel bosco dove dovrebbero essere divorati dalle bestie feroci. Soli e scampati a questo pericolo mortale, i due fratellini finiscono nella casetta dolce come le chicche, dalla strega che li accoglie e li vuole ben in carne per mangiarseli. La fiaba prende avvio dall'ingiunzione del Patibolo della condanna a morte, e anche se è la madre a volerla, è il padre a realizzarla: condanna paterna e materna quindi, contro il figlio e la figlia, che invece di morire insieme, insieme si salvano, sconfiggendo la strega che è trasformazione soprannaturale della madre divorante o reinfetante. La fame dei genitori, la carestia nella famiglia del taglialegna va intesa come esclusione della giovane generazione: solo una generazione può sopravvivere, e i genitori scelgono di fermare il tempo sacrificando i loro discendenti.

E appena abbiamo disegnato il quadrante impossibile, con il mare materno, i monti paterni, e il sole e la luna che rappresentano i due attanti protagonisti, maschile e femminile, abbiamo ricordato una delle fiabe che amiamo di più, che non avevamo compreso nella raccolta proprio perché non riuscivamo a inserirla nella mappa: L'Augel Belverde. È questa una fiaba molto diffusa in Europa, che ha la sua prima codifica nella raccolta di Straparola, e che ha interessantissime analogie con la novella di Griselda, che Boccaccio pone alla fine del Decameron. La novella, tradotta in latino da Francesco Petrarca (De insigni obedientia et fide uxoris, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole) e rinarrata da Geoffrey Chaucer nei Racconti di Canterbury (Il racconto del chierico, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole, ), ebbe grande diffusione in Europa. Nella storia di Griselda (Griselda,  nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole) non ci sono creature magiche, ma i due protagonisti hanno caratteri, stili di vita si può dire, tanto particolari, che potrebbero derivare da un incantesimo di quelli delle fiabe.

Anche in questa fiaba la persecuzione viene agita anzitutto da una figura materna, la madre del re che ha sposato la protagonista, ma è il re stesso a consentire il supplizio al quale viene sottoposta la sua sposa innocente. Ingiunzione quindi materna e paterna, che non implica solo l'umiliante reclusione della giovane regina, ma la condanna a morte dei suoi tre magici gemelli, due maschi e una femmina. Saranno i tre figli, una volta cresciuti, a ritrovare i loro genitori e rendere giustizia alla loro povera madre. Ma prima di ottenere il lieto fine i tre giovani affrontano prove nelle quali rischiano di morire, per conquistare oggetti magici che sono comuni all'antica alchimia, e del resto loro stessi hanno nel corpo segni che ne fanno creature quasi sacre, capelli d'oro e una stella in fronte. La maledizione dei quadranti a sud, che alla nascita degli attanti protagonisti li condannano a una forma animale o a un sonno simile alla morte, è qui una benedizione che viene in ogni caso dalla madre, come un dono straordinario al quale corrisponde l'invidia persecutoria della regina madre che non tollera di essere superata.

Come ogni fiaba L'augel Belverde racconta di come la vecchia generazione cerchi di fermare la nuova generazione, come la sua decadenza reagisca con ferocia di fronte alla bellezza della creature appena nate e della madre che li dà alla luce. Bellezza magica, certo, ma in nulla superiore alla bellezza dei bambini piccoli per i loro genitori e per i loro nonni, che può dare gioia alla loro vita solo se sono pronti a vederli come i loro successori, a gioire pensando che vivranno oltre la loro morte. Il tempo, raccontano anche le storie del quinto, impossibile quadrante, non si ferma, per quanto tutto il potere della vecchia generazione possa tentare di impedirne il corso. Ogni fiaba poi racconta in modo diverso come questo gioco tragico col tempo possa inscenarsi, e come la vita tenda a fluire aggirando o dissolvendo gli ostacoli. Basta allearsi col tempo, basta saper attendere o cogliere il momento giusto per agire. (AG)





Inglese5. Lago della Generazione











Il Lago della Generazione, al centro della nostra carta, raccoglie le acque dei quattro fiumi che, fungendo da coordinate, separano e uniscono tutti i quadranti. Essendo i monti paterni in alto e il mare materno in basso, il fiume che separa e unisce il quadrante nord-ovest e il quadrante nord-est nasce dai monti e fluisce verso il lago del quale è immissario. Ne esce un emissario con la stessa direzione, che separa e unisce il quadrante sud-ovest e il quadrante sud-est per gettarsi nel mare materno.
I due fiumi che dividono i quadranti sud dai quadranti nord potrebbero essere emissari del Lago, significando che i discendenti si formano dal flusso e dall’unione degli ascendenti. Ma potrebbero anche essere immissari del Lago, rappresentando un’attante filiale femminile e un attante filiale maschile che venendo da luoghi diversi portano le loro acque al Lago della Generazione, trasformandosi così da discendenti, o figli, ad ascendenti, o genitori.
In ogni caso il Lago della Generazione, con i suoi immissari e gli emissari, sta al centro della carta a significare che la successione è il nucleo e il cuore di tutte le storie.
La carta rappresenta così al suo centro il triplice incontro generativo fra i quattro tipi di attanti: il primo, unione o nozze, fra ascendenti maschili e femminili; il secondo, generazione, fra ascendenti e discendenti, fra i genitori e i loro figli; il terzo, nuova unione o nuove nozze, fra discendenti, attanti protagonisti e coattanti maschili e femminili, che rinnova la vita.

Il tempo scandisce questi incontri con un doppio andamento, costituito dall'intreccio fra un movimento diretto e irreversibile e un movimento circolare e ciclico. In quanto irreversibile il tempo esige che il discendente nasca e cresca, verso la condizione in cui potrà generare, mentre l’ascendente, che ha generato, invecchia. La morte, se non è tragicamente prematura, tocca prima all’ascendente, mentre il discendente eredita il trono della vita. L’andamento ciclico del tempo porta i figli nella posizione dei genitori, quando ereditano il trono della vita, per poi lasciarlo ai figli che prenderanno il loro posto, quando a loro volta abdicheranno o moriranno.
Secondo il moto irreversibile del tempo, per il quale gli anni si succedono e il loro numero non torna, la nostra vicenda comincia alla nascita, come dal nulla, ci porta alla massima potenza nella maturità, che dura un certo numero di anni, e con la morte torniamo nel nulla.  Secondo il moto ciclico del tempo, per il quale tornano settimanalmente i giorni e annualmente le stagioni e i mesi con le loro feste, noi rinnoviamo nascendo la vita dei nostri genitori, i quali a loro volta hanno rinnovato quella dei loro genitori, secondo una catena che ha inizio in un tempo immensamente lontano, e che senza mai interrompersi è arrivata fino a noi. Noi siamo un anello di questa catena, e come prendiamo vita dagli anelli che ci hanno preceduti, trasmettiamo la vita agli anelli che seguono. Nella catena è la nostra storia che il nulla non assedia, mentre la nostra esistenza individuale, separata dagli ascendenti e dai discendenti, è sempre assediata dall’insignificanza.

Il maschile e il femminile, dei quali i luminari della notte e  del giorno sono figure universali, come cielo e terra, costituiscono una coppia di opposti che si attraggono, ma è il loro intreccio costante, che li lega senza mai confonderli, a rappresentare la fecondità dell'incontro. Il calendario è composto di mesi, che seguono il ritmo regolare del sole che col suo moto apparente copre in un anno il cerchio dello zodiaco, e di settimane, ciascuna delle quali corrisponde alla durata di una fase lunare.
Ai due moti del tempo corrispondono due modi del nostro essere, uno dei quali forma e tutela la nostra percezione di noi stessi come esseri unici e irripetibili, che hanno solo lo spazio e il tempo limitati della loro esistenza fisica. L’altro modo, che corrisponde alla dimensione ciclica del tempo, esiste fra noi e gli altri, non è né nostro né degli altri, ma è qualcosa che sta in mezzo e ci porta alla vita comune; così il singolo anello che siamo prende valore dai suoi vincoli con altri anelli, e il suo presente esiste per l'eredità che riceve dal passato e quella che trasmette al futuro.
Non c’è equilibrio se non c’è riconoscimento del legame con il passato, con chi ci ha generato anzitutto, che da bambini è potente, donatore e persecutore come i re, le regine, le fate e gli orchi delle favole, e con le generazioni e le culture che ci hanno preceduto, senza le quali non esisterebbe la nostra, nella quale viviamo e parliamo. Simmetricamente non c’è equilibrio se non riconosciamo e non sperimentiamo il legame con le generazioni future, sia i figli della carne, che per i genitori sono belli e buoni come gli attanti protagonisti delle fiabe, sia il futuro come dimensione di progetto e di speranza, per il quale possiamo e sappiamo lavorare senza pretendere di raccogliere i frutti della nostra fatica. La bellezza delle generazioni future è come il finale felice delle fiabe: c’è, ma non se ne può sapere nulla. Ci deve bastare quell’istante di gioia che gustiamo quando arriva il finale felice, per quanto possiamo essere critici e disincantati.
Nessuno può sapere se oltre il finale felice delle fiabe duri la pace feconda che viene solo enunciata. Ma se rinunciassimo a quel momento gaudioso, se non sorridessimo quando Cenerentola finalmente balla lievissima nel salone della reggia col principe innamorato, ci mancherebbe qualcosa di essenziale: la leggerezza del desiderio.

Nei dialoghi di Platone capita una sola volta che una donna insegni la filosofia, nel Simposio, il dialogo intorno ad Amore/Eros. La donna, Diotima, racconta la storia della sua nascita, e svela l’errore nel quale anche i commensali di Socrate sono caduti: descrivevano Amore/Eros come perfettamente bello e buono pensando che coincidesse con l’amato. Amare significa desiderare al di sopra di ogni altra cosa, anche a rischio della propria vita, qualcosa che non abbiamo, che è fuori da noi, un altro essere, che il nostro desiderio rende perfettamente bello e buono. Questa perfetta bontà, che caratterizza, come abbiamo detto, gli attanti protagonisti delle fiabe, esiste nei figli per i genitori, e nei genitori per i loro bambini, e si trova nell’amato o nell’amata per l’amante.
Per il figlio cresciuto la potenza e la bellezza del genitore è un’illusione svanita; per chi ha smesso d’amare la bellezza dell’essere un tempo amato è un abbaglio o una frode, e in ogni caso la passione violenta che spinge alla ricerca dell’altro impallidisce col tempo. Per il genitore invece il figlio è sempre amato con la stessa intensità, gaudiosa nell’intesa e nello scambio di doni, dolorosa nell’incomprensione. Come abbiamo ricordato, il bambino ricambia con tutto se stesso questo amore, ma appena raggiunge la maturità manda in pezzi e sbriciola il riflesso del genitore ideale, per cercare lontano dalla sua origine qualcosa o qualcuno che gli permetta di ricostituire lo specchio della sua bellezza. Un’impresa, un’opera, un amante, un figlio, sembrano venire a noi riflettendo la nostra immagine ideale, perché in una parte di noi abbiamo sempre bisogno di credere che siamo, o che siamo stati e che diventeremo, perfettamente belli e buoni, proprio come Cenerentola e il principe azzurro.
Se non intervenisse la delusione, se lo specchio e il riflesso non si frantumassero col tempo, la vita non fluirebbe, perché si resterebbe immobili, come Narciso e la sua immagine. Ma la delusione è difficile da sopportare, perché se è vero che nel ciclo del tempo tutto torna, come i fiori e i frutti nella bella stagione, non è meno vero che il fiore e il frutto di questa particolare stagione appassiranno, o marciranno, e non torneranno più.
La sola cosa certa è che questa permanenza attraverso la generazione e questa precaria presenza del soggetto con la sua irripetibile unicità, formano un intreccio, del quale possiamo riconoscere o non riconoscere un senso: è comunque il modo di fluire della vita, che della morte degli ascendenti si serve perché i discendenti possano prenderne il posto, così che il vigore e la bellezza dei figli, dei giovani, rinnovi la vita mentre gli ascendenti invecchiano.
Senso primo o ultimo della vita, mistero da velare più che da rivelare, la generazione si compie attraverso i tre incontri che abbiamo detto sopra, fra ascendenti, nelle loro nozze, fra ascendenti e discendenti, nella generazione, fra discendenti, nelle nozze che li portano a prendere il posto dei loro ascendenti, che cedono loro il trono della vita. In mille modi, nelle opere d'arte e nei testi filosofici, religiosi o laici, questo logos della vita, che ha il suo demone nell'Amore/Eros, è stato raccontato, senza superare per la tensione verso la verità e la tolleranza nei confronti di ciò che sfugge alla presa del sapere umano del discorso di Diotima, la sola maestra di Socrate e di Platone.

- Il congiungimento dell'uomo e della donna, in realtà, è un dare alla luce. Questo atto, orbene, è divino, e nell'essere vivente che è mortale vi è questo di immortale, il concepimento e la procreazione. … E perché mai proprio la procreazione? Perché la procreazione è ciò che di eterno e di immortale può toccare a un mortale. Da quanto si è ammesso, peraltro, risulta necessario che, assieme al bene, si desideri l'immortalità, se è vero che l'amore tende a possedere eternamente il bene. In base a questo discorso è dunque necessario che l'amore tenda altresì all'immortalità. (Simposio, 74-75)

- Quale credi, o Socrate, la causa di questo amore e di questa brama? O non ti accorgi in quale disposizione mirabilmente strana si trovino tutti gli animali, ogni volta che li coglie il desiderio di procreare, sia quelli che vivono sulla terra sia quelli che volano, tutti ammalati e amorosamente disposti, per ciò che si riferisce, anzitutto, all'accoppiarsi gli uni con gli altri, e, in seguito, all'allevamento della prole; e come i più deboli siano pronti, per i loro nati, a combattere contro i più forti, e a morire per loro, sia subendo essi stessi le torture della fame al fine di tirar su i nati, sia facendo ogni altra cosa? Quanto agli uomini invero - disse - si potrebbe credere che facessero ciò per riflessione: ma gli animali, quale causa c'è che siano così amorosamente disposti?

- Infatti, allo stesso modo di prima, la natura mortale cerca, per quanto è possibile, di essere eterna e immortale. Ma lo può fare solo a questo modo, con la generazione, in quanto lascia sempre dietro di sé, in luogo del vecchio, qualcos'altro di giovane. In effetti, anche durante il tempo in cui si dice, di ogni essere vivente, che vive ed è qualcosa di identico, ad esempio di un uomo, si dice che è il medesimo da quando è bambino sino a che diventa anziano, costui invero, non avendo mai in se stesso le medesime parti, pure viene detto identico, ma in realtà ringiovanisce sempre - perdendo però talune cose - e nei capelli e nella carne e nelle ossa e nel sangue e in tutto quanto il corpo.  E non che solo rispetto al corpo si possa dire in questo modo, bensì inoltre - per quel che riguarda l'anima - i temperamenti, i caratteri, le opinioni, i desideri, i piaceri, le sofferenze, i timori, tutte queste cose insomma, non appartengono mai identicamente ai singoli uomini, ma in parte nascono e in parte periscono. Assai più strano ancora di ciò, peraltro, è il fatto, anche a riguardo delle conoscenze, non solo che alcune nascono e altre invece periscono in noi, e che noi non siamo mai i medesimi neppure rispetto alle conoscenze, ma altresì che ogni singola conoscenza subisce la stessa cosa. Ciò che viene chiamato applicarsi, in realtà sussiste in quanto una conoscenza se ne sia andata. Difatti, la dimenticanza è l'uscir fuori di una conoscenza, mentre l'applicazione, producendo per contro, in luogo del ricordo che è partito, uno che è fresco, salva la conoscenza, di modo che questa sembra essere la stessa. Tutto ciò che è mortale si preserva invero a questo modo, non già per il fatto di essere completamente identico per sempre, come avviene al divino, ma perché ciò che se ne va e invecchia lascia dietro di sé qualcos'altro di giovane, simile a quello che esso era. Con questo artificio, o Socrate, - disse - ciò che è mortale partecipa - sia per il corpo sia per tutto il resto -  dell'immortalità … Non meravigliarti dunque che ogni essere, per natura, tenga in pregio il proprio germoglio: in vista dell'immortalità, difatti, ciascuno è accompagnato da questo slancio e da questo amore.
(Simposio, pp. 77-78) (AG)





Inglese6. Fabulando racconta

6.1
E-book

6.2
E-kamishibai


6.3
Fiabe per YouTube
6.4
Animazioni

6.5
App-tale Gatta Cenerentola

6.6
Storia della favola

















Trovare in rete una fiaba è facilissimo: si apre un motore di ricerca, si scrive il titolo, diciamo Cenerentola, e si ottiene un elenco di centinaia di migliaia di link. Non li esploreremo mai tutti, ci fermeremo alle prime tre-quattro pagine. Nelle quali troveremo l’indicazione di alcuni siti che contengono una versione famosa della fiaba, quasi sempre semplificata, magari corredata da disegni o animazioni patinate. A seguire troveremo poi il rimando ai film, di animazione e live action, e agli innumerevoli spettacoli che si stanno allestendo al momento della ricerca. Scopriremo (ma probabilmente già lo sapevamo) che Rossini ha composto un’opera lirica che narra la storia di Cenerentola e che ancora oggi è rappresentata ad ogni stagione, ma niente sapremo de La Gatta Cennerentola, la prima e inaspettata versione della fiaba pubblicata a Napoli nel XVII secolo. Che dire poi delle fiabe che non hanno ricevuto l'attenzione della Disney? Cecino, Rana rana, Giovannin senza paura, La ricotta bianca, L’Augel Belverde … le fiabe cioè appartenenti al patrimonio narrativo tradizionale italiano ed europeo che non appaiono nelle prime pagine di una ricerca in rete, a meno che non si faccia una ricerca specifica, che ha come presupposto il fatto che già sappiamo dell’esistenza di quelle fiabe. Eppure anche queste storie si possono leggere nel web, liberamente e gratuitamente. Ma come accedervi se non si è uno specialista?

Ecco, uno dei principi guida dell’intero progetto di Fabulando, e anche della scelta degli strumenti narrativi, è quello di facilitare l’accesso alle innumerevoli versioni delle fiabe, antiche, dialettali, in lingua, che, presenti in internet, rimangono però per la maggior parte sconosciute. L’altro principio guida è rappresentato dalla convinzione che il fascino che si prova sfogliando un libro, pagina dopo pagina, sorpresa dopo sorpresa, si possa ritrovare anche utilizzando i mezzi digitali. (CC)


Inglese6.1 E-book


Ognuna della sessantasei favole presenti in Fabulando è narrata in un e-book, un libro digitale, che ha però i colori e i suoni di un libro di carta, e i più bei disegni dei grandi maestri dell’Ottocento e del primo Novecento, dai quali sono tratti anche i capilettera da noi appositamente realizzati. L’e-book contiene la versione della fiaba in lingua originale e la traduzione nelle due lingue contemporanee che abbiamo scelto: l’italiano, che è la nostra lingua materna, e l’inglese, ormai da tempo la lingua internazionale per eccellenza.
Le versioni in lingua originale sono tratte dalle raccolte più importanti, disponibili in rete: le fiabe nei dialetti d'Italia da quelle ottocentesche, le antiche fiabe italiane da quelle tre-cinque-seicentesche, le fiabe più diffuse in Europa dalle raccolte di Charles Perrault e dei Fratelli Grimm. Ciascuno di questi tipi forma una collana, identificata nella copertina degli e-book da questi titoli:

1. Il popolo delle meraviglie. Fiabe dialettali italiane e alloglotte;
2. Le prime fiabe del mondo. Pubblicate in Italia fra il XIV e il XVII secolo;
3. Europa in fabula. Le fiabe più amate del mondo.
4. Racconti migranti. Storie senza confine.

 

Ogni e-book è corredato di una pagina finale nella quale sono indicate le fonti delle versioni in lingua originale, delle traduzioni, delle illustrazioni e dei capilettera; da questa pagina si accede alla bibliografia generale di Fabulando (Bibliografia delle fonti) dove si trovano i link alle edizioni dei testi disponibili nel web.
Infine si precisa che si sono trascritte le fiabe dialettali italiane e quelle in lingua inglese, tedesca o francese dai testi citati (sia nella pagina Fonti/Sources che si trova al termine di ogni e-book, sia nel Fairybiblio, bibliografia di Fabulando) rispettando i segni di interpunzione di ogni edizione. La loro varietà è un aspetto della varietà del linguaggio verbale, narrativo e simbolico delle fiabe. (CC)




Inglese6.2 E-kamishibai



Cosa significa e-kamishibai? È una parola che abbiamo costruito su modello della parola e-book: come e-book significa ‘libro digitale’, così e-kamishibai significa ‘kamishibai digitale’.
E cos’è un kamishibai? Il termine è giapponese e significa ‘dramma di carta’. Si diffuse moltissimo in Giappone fra le due Guerre, quando i kamishibaya, cioè i cantastorie, giravano per le strade delle città con la bicicletta, sulla quale era montato un teatrino di legno: nel teatrino il kamishibaya faceva scorrere le immagini della storia che raccontava. Tutti potevano ascoltare le storie, ma le prime file erano riservate ai bambini che avevano comprato i dolciumi che il kamishibaya vendeva prima del suo spettacolo. Nel teatrino scorrevano illustrazioni dai colori vivaci e di grande impatto, che avevano lo scopo di impressionare il pubblico e costituivano una vera e propria narrazione per immagini: il cantastorie la animava con la sua voce e la sua mimica. Il kamishibai era così popolare che la tv, all’inizio, fu chiamata denki kamishibai, cioè ‘kamishibai elettrico’.

In Fabulando molte illustrazioni utilizzate sono tratte dall’opera di Walter Crane (1845-1915) che illustrò alcune delle favole più famose, realizzando delle vere e proprie narrazioni per immagini. Seguendo il modello del kamishibai giapponese, e adattandolo al mezzo digitale, abbiamo elaborato queste illustrazioni per costruire dei set di immagini che ciascuno può far scorrere, con un touch o con click, narrando autonomamente la fiaba come un vero e proprio kamishibaya.

Le fiabe per le quali è disponibili l’e-kamishibai sono: La bella addormentata nel bosco, La Bella e la Bestia, Biancaneve e i sette nani, La Gatta Cenerentola (nella versione delle Autrici di Fabulando), Cappuccetto rosso, La Gatta con gli stivali, Il Gatto con gli stivaliIl Principe Ranocchio e Jack e la pianta di fagioli (CC)





6.3 Fiabe per YouTube



Movie Cappuccetto Rosso
Jack e la pianta di fagioli

Rosaspina




Inglese6.4 Animazioni






La Gatta con gli stivali e Il Principe Ranocchio sono raccontate anche attraverso un’animazione realizzata a partire dalle illustrazioni di Walter Crane che con la loro bellezza ed espressività, la cura dei particolari e l’intelligenza della fiaba ci hanno affascinate. Le immagini originali non sono molte: cinque per Il Principe Ranocchio, sette per La Gatta con gli stivali. Da queste, con una elaborazione guidata dal rispetto per il lavoro di Crane, smontando e rimontando le immagini, abbiamo costruito una sequenza animata che copre l’intero arco narrativo di ciascuna delle due fiabe. Abbiamo aggiunto alcune didascalie, necessarie alla comprensione della fiaba, lasciandoci guidare dalla delicatezza, dall’ironia e dal ritmo tipici delle narrazioni popolari; e così, le didascalie, le abbiamo scritte in rima. Abbiamo realizzato in proprio anche il carattere tipografico con il quale si presentano, ispirandoci alle didascalie di uno dei film muti più famosi, Il ladro di Bagdad (US, 1924). Le animazioni sono completate da musiche originali di Federico Riondino che ha suonato variazioni sulle melodie di O che bel castello (antica filastrocca musicale), I’ te vurria vasà (Eduardo di Capua, 1900), Te voglio bene assaje (1839 c.a.), insieme a Ugo Nativi e Lorenzo Nardi.


Un’ultima annotazione che riguarda La Gatta con gli stivali: Walter Crane ha illustrato la versione più famosa di questa fiaba, cioè Il Gatto con gli stivali di Charles Perrault. Non potevamo esimerci dall’inserire questa fortunatissima versione fra le fiabe europee di Fabulando, ma abbiamo anche scelto di rielaborare la prima versione della Gatta con gli stivali pubblicata nel mondo, contenuta nella raccolta cinquecentesca Le piacevoli notti di Giovan Francesco Straparola, nella quale l’animale che aiuta il protagonista è una gatta e non un gatto (La gatta, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Sono presenti quindi in Fabulando sia La Gatta con gli stivali che  Il Gatto con gli stivali,   per  le  quali  abbiamo  utilizzato  le stesse illustrazioni. Ma è a partire dalla prima, la meno conosciuta, che abbiamo voluto realizzare l’animazione. (CC)


Movie
La Gatta con gli stivali
Il Principe Ranocchio




Inglese6.5. App-tale Gatta Cenerentola







La versione di Cenerentola narrata dalle Autrici occupa un posto speciale all’interno di Fabulando. Dalla carta di questa fiaba, infatti, oltre che alle altre forme narrative, si accede anche a un’app per i-pad realizzata nel 2013 dalle stesse autrici di Fabulando. Questa nuova versione della fiaba è rinarrata a partire dalle illustrazioni di Arthur Rackham, rielaborate e moltiplicate, e dalle versioni di Giambattista Basile (Napoli, 1634-36), Charles Perrault (Parigi, 1697), Walt Disney (Burbank, California,1950) e Vittorio Imbriani (Firenze, 1877). È un’app interamente dedicata a Cenerentola: la fiaba è raccontata attraverso la parola scritta, le animazioni presenti in ogni pagina, la voce narrante, gli effetti sonori e la musica.

L’app è disponibile gratuitamente non solo in italiano e in inglese, ma anche in greco moderno e in latino, omaggio questo alla cultura classica, che ha mantenuto nei millenni il suo portato generativo nel pensiero e nelle narrazioni, anche contemporanee.
(Per scaricare l'app della Gatta Cenerentola, vai alla Carta della fiaba; vedi anche altre notizie nel sito di Fairitaly, Associazione ONLUS). (CC)




Inglese6.6 Storia della favola



In due brevi e-book la voce del Ranocchio (Il Principe Ranocchio) e quella della Gatta (La Gatta con gli stivali) raccontano ciascuno i punti salienti della storia della propria favola.
Ogni fiaba ha una storia interessante nella quale si possono evidenziare i legami con le altre fiabe e con le altre forme della cultura, come ad esempio la letteratura e il cinema. La scelta di concentrarsi su queste due fiabe è in parte dovuta ai loro grandi narratori (rispettivamente i Grimm e Perrault), in parte al fascino suscitato proprio dalla storia delle loro storie.
Da una parte infatti ne La Gatta con gli stivali suscita curiosità il passaggio di genere dell’animale che, in poco meno di un secolo e mezzo, da gatta lasciata da una madre in eredità al figlio diventa un gatto lasciato in eredità da un padre ed è stimolo di riflessione il fatto che poi quest’ultima versione si sia stabilizzata, tanto che oggi è l’unica che quasi tutti conoscono.
Dall’altra parte Il Principe Ranocchio rivela, nella versione raccontata dai fratelli Grimm, dei legami profondi con la letteratura medievale.
Con l’obiettivo di favorire una più ampia diffusione di questioni che normalmente rimangono chiuse in ambito specialistico, si è scelto di utilizzare un espediente narrativo in questi due e-book: sono i due animali delle due fiabe che parlano in prima persona. Questo ha consentito un registro linguistico maggiormente colloquiale e una sintesi che, se impedisce di approfondire ogni punto, mostra però i fatti salienti nel loro complesso. (CC)

Story La Gatta con gli stivali
Il Principe Ranocchio




Inglese8. Sessantasette fiabe

Vetta del compito
                                          impossibile
Vetta
del compito impossibile

Il Gatto Mammone
Indovina indovinatore
Rana rana
La Regina Marmotta
Il testamento d'una fata
5


Veliero della
                                          maledizione Veliero
della maledizione

La Bella addormentata nel bosco
Re Porco
Rosaspina
Sfurtuna
Sole, Luna e Talia
5

Patibolo della condanna a
                                          morte
Patibolo
della condanna a morte

Biancaneve e i sette nani
La scatola di cristallo
Cecino
La cerva fatata
Hänsel e Gretel
5

Panepinto
La Principessa di Vallepelosa
I tre cedri
Il corvo
La ricotta bianca
5
Torre della segregazione
Torre
della segregazione

Gatta Cenerentola - versione
  delle Autrici di Fabulando
Gatta Cenerentola - prima
  versione pubblicata, XVII secolo
Prezzemolina
Surya Bai
4

Bivio
                                          del compito possibile
Bivio
del compito possibile

Cappuccetto rosso
Così finì il tonto
Giovannin senza paura
I desideri ridicoli
4

Bosco dell'esilioBosco
dell'esilio



Fiore e Gambodifiore
L'anatra dalle uova d'oro
Lo scarafaggio, il topo e il grillo
Giovannino e la pelle d'oca
La fiaba dell'orco
La Penta mano-mozza
Occhi-Marci
7
Castello dell'amore
                                          imposto
Castello
dell'amore imposto

La Bella e la Bestia
Belindu il mostro
Doralice
Il Principe Ranocchio
Il Re d'Arcolaio
L'Orsa
Le tacconelle di Maria di Legno
Pelle d'asino
8


Palude dei derelitti
Palude
dei derelitti



Bambola Popoavola
Jack e la pianta di fagioli
Humà, l'uccello della fortuna
L'oca d'oro
La bambola smarrita
La papera
Pietropazzo
Il Gatto con gli stivali
La Gatta con gli stivali

Il giovane e la lampada
10

Labirinto dell'impegno
                                          impossibile
Labirinto
dell'impegno impossibile

 

I sette piccioncini
Violetta
L'aquila d'oro
Meni Fari
Mastro Benigno
I tre re animali
Violetta romaní
Caterina la sapiente
L'Augel Belverde
Il canto e 'l sono della Sara
   Sibilla
L'Oiseau Bulbul Hezar

Le figlie dell'erbivendolo
Princesse Belle Étoile
Sivka-Burka
14


IngleseIntroduzione



La scelta delle sessantasei fiabe presenti in Fabulando si basa su due criteri che nella nostra ricerca si sono sempre intrecciati: il piacere della narrazione densa di significato e il rigore filologico.
La ricerca delle versioni più antiche infatti non è motivata da un desiderio di correttezza meramente inteso. Così, abbiamo cercato la prima versione di Biancaneve pubblicata dai Grimm (di cui non abbiamo trovato una traduzione italiana) non perché la intendiamo come “la versione più giusta” in quanto la prima, ma perché, sebbene poco conosciuta, è pregnante e mostra con più evidenza di altre la questione che è al cuore della fiaba: quell’articolazione del rapporto madre-figlia che abbiamo chiamato Ingiunzione del Patibolo della condanna a morte.
Scegliere le fiabe ha significato non solo classificarle secondo le dieci ingiunzioni, ma anche confrontarsi con l’immensità del patrimonio narrativo, quanto meno europeo. Su quali fiabe volevamo lavorare? Senza dubbio su Cenerentola, la fiaba che accompagna la nostra ricerca fin dall’inizio. E poi? Su quelle più conosciute, ci siamo dette. E da queste siamo risalite alle prime pubblicate al mondo, che sono italiane, e alle innumerevoli versioni narrate nei dialetti dell’Italia.
Sono nate così le tre collane di Fabulando: ogni fiaba, pur trovandosi aggregata con le altre sulla base delle ingiunzioni e dei quadranti, appartiene anche ad una delle tre collane, che rappresentano una sorta di filo che, con discrezione, lega le storie in un altro modo, a ricordare che si può guardare alle fiabe sotto molteplici punti di vista, ciascuno dei quali ha una sua validità e nessuno dei quali le può racchiudere.

1. Il popolo delle meraviglie. Fiabe italiane dialettali e alloglotte
Una prima collana si intitola Il popolo delle meraviglie. Fiabe italiane dialettali e alloglotte nella quale sono rappresentati vari dialetti d’Italia e tre isole linguistiche alloglotte, dove cioè si parla un dialetto diverso da quello delle zone circostanti: è il caso del catalano di Alghero (Sardegna), del guardiolo, cioè la varietà dell’occitano parlata a Guardia Piemontese (CS) e del tabarchino, che deve il suo nome alla città di Tabarca in Algeria dove si era stabilita originariamente una colonia ligure trasferitasi, in seguito, in una piccola area della Sardegna sud-occidentale.
Fanno parte di questa collana: Belindu il mostro nel catalano di Alghero, Cecino in tabarchino (Sardegna), Così finì il tonto in umbro-laziale, Fiore e Gambodifiore in abruzzese - marchigiano inferiore, Il Gatto Mammone in montalese (Toscana), Il testamento d'una fata in ciociaro, Indovina indovinatore in guardiolo (Calabria), La bambola smarrita in piemontese, La Regina Marmotta in montalese (Toscana), La ricotta bianca in calabrese, La scatola di cristallo in senese (Toscana), Meni Fari in friulano, Rana rana in romanesco, Sfurtuna in siciliano e Giovannin senza paura in italiano.
Nel realizzare questa collana volevamo non tanto mostrare esempi di fiabe tradizionali di alcune zone d’Italia, ma affiancare la narrazione in dialetto con quella in lingua, in modo che ciascuno potesse gustare la vivacità, ma anche la tenerezza tipiche della narrazione popolare italiana. E per chi non volesse leggere la versione dialettale, la traduzione in lingua, a cura di Adalinda Gasparini, si basa sull’intento di rendere il più possibile quella vivacità e quella tenerezza.
Ci sono alcune eccezioni alla formula del testo a fronte.
Abbiamo ritenuto che Il Gatto Mammone, La scatola di cristallo (entrambe in dialetti toscani) e Rana rana (in romanesco) fossero comprensibili senza la traduzione in lingua italiana, mentre abbiamo inserito a fianco della versione in toscano de La Regina Marmotta la versione che ne dà Italo Calvino che mostra con molta chiarezza l’operazione linguistica e stilistica compiuta dallo studioso nella sua pubblicazione Fiabe italiane (Einaudi, 1956). Infine abbiamo incluso in questa collana Giovannin senza paura nella versione italiana di Calvino anche per metterla a confronto con un altro Giovannino, quello che va in cerca della pelle d’oca (presente in Fabulando nella versione dei Grimm): entrambi incapaci di provare paura, le loro storie hanno uno sviluppo narrativo e un finale completamente diverso. Non a caso in Fabulando condividono il quadrante (Nord-Est) ma non l’ingiunzione: Bivio del compito possibile per il primo, Bosco dell’esilio per il secondo. E, rimaste colpite dal fatto che Calvino non abbia problematizzato la differenza fra le due fiabe, parlando di «tranquilla fermezza» nei confronti del soprannaturale, senza mettere l’atteggiamento dell’attante protagonista in rapporto con la fine della fiaba, abbiamo voluto inserire proprio la sua versione che è in italiano e non in dialetto, ma che dalle versioni dialettali attinge in una narrazione nella quale la mano di Calvino, per sua stessa ammissione, è presente più che nelle altre fiabe della sua raccolta.
Altre traduzioni di altre fiabe dialettali e alloglotte dell’Italia sono disponibili nel sito Favole e Psicanalisi di Adalinda Gasparini.
Una bibliografia ragionata delle fonti delle Fiabe italiane Italo Calvino, corredata di notizie biografiche dei raccoglitori, è disponibile nel sito Percorsi di pensiero di Claudia Chellini.

2. Europa in fabula. Le fiabe più amate del mondo.
Le fiabe più famose, conosciute e rappresentate sono riunite nella collana Europa in fabula. Le fiabe più amate del mondo. Anche in questa collana la scelta della versione ha seguito un criterio filologico e di senso insieme: stabilito che le fiabe oggi “più amate” sono quelle più presenti nelle narrazioni contemporanee, come il cinema e la tv, abbiamo deciso di inserire in Fabulando le redazioni dei grandi narratori europei, Charles Perrault e i fratelli Grimm in primis, in quanto storie intense, che sono state poi spesso edulcorate con l’andare dei secoli.
Abbiamo quindi raccolto in questa collana Biancaneve e i sette nani nella prima versione pubblicata dai fratelli Grimm nel 1812 nella quale la strega è la madre e non la matrigna di Biancaneve; Cappuccetto rosso che in Perrault non ha affatto un lieto fine; Giovannino e la pelle d'oca, Hänsel e Gretel e Il Principe Ranocchio dei fratelli Grimm; La Bella addormentata nella forma completa narrata da Charles Perrault che, seguendo Sole, Luna e Italia di Giambattista Basile, non termina la storia con il ritrovamento della bella da parte del principe, ma prosegue narrando l’altra metà della fiaba; Il Gatto con gli stivali anch’esso di Perrault; La Bella e la Bestia di Madame de Beaumont.
Abbiamo poi deciso di inserire in questa collana due fiabe conosciutissime che abbiamo voluto rinarrare a partire dalla più antiche versioni: La Gatta Cenerentola e La Gatta con gli stivali.
La prima riprende la storia raccontata nell’omonima app per i-pad da noi realizzata a partire dalle versioni di Giambattista Basile (la più antica pubblicata al mondo e presente in Fabulando nella collana dedicata alle antiche fiabe italiane), di Perrault, di Walt Disney, dalle versioni popolari, come La Cenerentola fiorentina (Imbriani, 1877) e dalla storia illustrata da Arthur Rackham.
La seconda invece combina l’antica versione della storia, raccontata da Giovan Francesco Straparola ne Le piacevoli notti, nella quale Costantino Fortunato riceve in eredità dalla madre una gatta che, grazie alla sua astuzia, lo rende bello e ricco, la più famosa versione del Gatto con gli stivali di Perrault (anch’essa, come detto poco sopra, presente in Fabulando) e la magnifica narrazione per immagini realizzata da Walter Crane.
E infine, per l'e-book Giovannino e la Pelle d'oca abbiamo scelto la versione in lingua originale dei fratelli Grimm ponendovi a fronte la traduzione italiana di Antonio Gramsci, dai Quaderni del carcere (1929-1932).

3. Le prime fiabe del mondo. Pubblicate in Italia fra il XVI e il XVII secolo
In questa terza collana abbiamo raccolto qui le prime fiabe pubblicate al mondo, traendole da Lo cunto de li cunti (1634-36) di Giambattista Basile nel quale si trovano alcune fiabe molto famose (oltre a Cenerentola, ricordiamo Prezzemolina, oggi più conosciuta con il nome di Rapunzel, che le hanno dato i fratelli Grimm) e altre fiabe meno note ma che sono entrate a far parte del patrimonio narrativo nei vari dialetti d’Italia e nelle lingue d’Europa. In Fabulando sono presenti: I sette piccioncini, I tre re animali, Il corvo, La cerva fatata, La fiaba dell'orco, La Gatta Cenerentola, Lo scarafaggio, il topo e il grillo, Panepinto, Pietropazzo, Prezzemolina, Violetta. Basile racconta nella sua opera anche una versione (la seconda pubblicata dopo Straparola) del Gatto con gli stivali, che in realtà anche qui è una gatta; ma, essendo la storia già molto presente in Fabulando, abbiamo circoscritto l’indicazione di questa fiaba a quanto ne dice la Gatta nella sua storia della favola. (Vedi anche: Le prime fiabe del mondo. Basile e Straparola nella traduzione di Adalinda Gasparini,1996 e 1999).
Poco meno di cento anni prima del Cunto, Giovan Francesco Straparola dava alle stampe Le piacevoli notti (1550-1553), raccolta di novelle nella quale sono inserite alcune fiabe, anch’esse divenute famose in tutta Europa. In questa collana di Fabulando ne abbiamo pubblicate tre: Bambola Popoavola, versione antica dell’Oca d’oro dei fratelli Grimm, L'Augel Belverde, antica versione di Principessa Bella Stella, e Re Porco, dalla quale è stata tratta Il Principe Cinghiale di Madame d'Aulnoy.

4. Racconti migranti. Storie senza confini.
Abbiamo incluso in questa sezione L’aquila d’oro, novella del XIV secolo, parte integrante del Pecorone di Ser Giovanni fiorentino, la quale, pur non essendo propriamente una fiaba,  presenta un andamento narrativo e interessanti motivi di tipo fiabesco. C'è un'altra ragione per il quale abbiamo scelto di includere questa storia. Ne L'Aquila d'oro si racconta di un'antica battaglia nella quale sono schierati gli eserciti di tutti i popoli europei, ciascuno con la propria fierezza e i propri stendardi, mentre e’ razzi del sole cominciarono a percuotere in quelle armi rilucenti, e ’l vento che facea isventolare i pennoni e le bandiere, e l’anitrire che faceano i cavalli, e ’l grandissimo romore che faceano i pifferi e trombetti dell’una parte e dell’altra, parea che ’l mondo balenasse. I due schieramenti stanno combattendo ferocemente quando il Papa li obbliga a far pace sotto la minaccia della scomunica. Alla fine della storia, il figlio e la figlia dell'Imperatore di Germania sposano la figlia e il figlio del Re d'Aragona  e vivono per sempre felici e contenti. Ci piace pensare che l'Europa di oggi possa essere consapevole e orgogliosa delle sue tante bandiere come delle sue tante storie.
Le fiabe e i racconti si formano e si trasformano nel continuo corpo a corpo fra popoli e culture, sia quello violento delle guerre, sia quello degli scambi in tempo di pace. Chi aggiunga al patrimonio narrativo di una lingua o di una cultura un corpus di favole, o una singola storia, non frequenta di solito gli studi sulle fiabe. A partire dal XIX secolo molti studiosi hanno dedicato il loro lavoro alla descrizioni delle loro migrazioni, fra Oriente e Occidente come fra narratori colti e popolari. Questa raccolta di Fabulando comprende storie molto famose e storie rimaste quasi sconosciute, per mostrare la bellezza che passa dalle une alle altre. Pensiamo, ad esempio, alla fiaba dell'Augel Belverde, che, pubblicata a Venezia nel XVI secolo, viene narrata a Parigi da un viaggiatore siriano ad Antoine Galland, il primo traduttore delle Mille e una notte, che la pubblica a Parigi all'inizio del XVIII secolo come traduzione di un racconto arabo alla fine della raccolta. 
Anche quando sono molto lontane nello spazio e nel tempo possono mostrare stupefacenti caratteri comuni. Le fiabe non dipendono dalle religioni, dalle nazioni o dalle ideologie diverse, e possono facilmente vestirsi con gli abiti e le usanze di ogni popolo e parlare tutte le lingue e tutti i dialetti. Ci piacerebbe che questi Racconti migranti potessero essere accolti come un piccolo antidoto a qualunque forma di razzismo.
(CC)





IngleseIl Gatto Mammone
Vetta del compito impossibile
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba



Il nucleo significante di questa fiaba è nel triplice tentativo di danneggiare e distruggere la protagonista, che ha come risultato la crescita dell'attante protagonista:
- la madre e la sorella brutta la vessano in ogni modo per imbruttirla: la Bella Caterina diventa sempre più bella;
- la mandano dalle fate perché la graffino irreparabilmente: lei ottiene ricchi doni e una stella in fronte;
- la chiudono in un tino sostituendole la sorella brutta; lei sposa il figlio del re che elimina definitivamente le rivali.

Come un sogno è comprensibile come storia intrapsichica del sognatore, così una fiaba è interpretabile come specchio della complessa e decisiva vicissitudine di un soggetto, dal punto di vista della sua realtà psichica, anche se i personaggi sono presentati come esterni: si ha così un racconto che tocca le corde più intime di chi narra e di chi ascolta, senza ferire.
In questa fiaba il padre manca, non è nemmeno nominato, mentre la madre, che ha un alter ego nella figlia brutta e cattiva come lei, non ha limiti nel vessare Caterina: la protagonista buona e bella deve sottostare alla loro volontà, come Cenerentola con la matrigna.

Quando è costretta a lasciare la casa per avventurarsi nel bosco fino alla dimora delle fate, Caterina ha paura e piange: nelle fate potrebbe incontrare nemiche anche peggiori alla madre e alla sorella.
Il vissuto di una figura materna che intralcia ingiustamente la propria crescita, fino a impedirla, riguarda tutti, come la ricerca di una figura materna illimitatamente accogliente: le donne, una volta sposate e con figli, spesso vedono la prima nella suocera, la seconda nella madre. L’incontro fiabesco con fate pericolose o streghe che donano oggetti magici pone il soggetto in contatto con la sua percezione ambivalente della figura materna.
Lungo la via un vecchio male in arnese chiede qualcosa a Caterina, che si ferma e accetta di prendersi cura della sua testa che prude: passa un po’ di tempo a ‘guardargli i capelli’, ma non lo umilia, e gli dice che ha trovato oro e perle, non i più probabili pidocchi. Il vecchio è una figura paterna, che alle soglie del bosco, regno della natura e quindi della madre, le dà le istruzioni indispensabili per incontrare le fate: aiutare i gattini, chiedere il minimo quando viene offerto anche il massimo, e badare a non danneggiare la scala di accesso alle stanze delle fate. Le istruzioni del vecchio le insegnano a placare la collera materna esprimendo umiltà e capacità di portare aiuto. Le fate e il Gatto Mammone sono ambivalenti, come le figure magiche della tradizione popolare, ostili o propizie a seconda di come l'attante si rivolge a loro.

Una delle scene più belle della fiaba è quella dei gattini che vanno a dire al Gatto Mammone come li ha aiutati Caterina. Fare le faccende significa prendersi cura dei corpi, pulendo la casa e preparando il suo nutrimento: non si tratta letteralmente dei lavori di casa, ma della capacità femminile di rendere e mantenere abitabile la casa, anzitutto la propria casa-corpo, dove risiede la fecondità, fisica e psichica. Prerogativa del femminile come funzione ricettiva, non passiva, è allestire e curare lo spazio dove gli esseri viventi tornano per nutrirsi, lavarsi, riposare, rigenerarsi.
La sorella brutta fallisce lo stesso percorso, sia perché non avendo paura né sofferenza sottovaluta la prova e non pensa di aver bisogno dell’aiuto di chi incontra per via, sia perché copia il movimento dell’altra, non avendo un desiderio proprio.
Caterina dopo aver incontrato le fate è bellissima e splendente: è sbocciata, e la sua fioritura viene vista dal figlio del re, che la chiede in sposa. A questo punto la madre e la sorella invidiose vogliono rubarle quel che è suo, eliminandola per sempre, e il principe, il maschile, non è in grado di scoprire l’inganno chiuso nelle relazioni femminili. Ma i gattini beneficati, legati alle fate e al Mammone, cantano miagolando che la sposa non è quella giusta. La stessa cosa accade in Aschenputtel, la Cenerentola dei Grimm, quando le colombine avvertono il principe che sta portando con sé la sposa sbagliata.

Il Gatto Mammone ha genere maschile e ricorda nel nome la mamma, ma potrebbe rimandare anche a Mammona, nome del diavolo, o alla parola araba maimon, che significa fortunato, propizio. Nel luogo della potenza arcaica del femminile Caterina ha saputo come fare, seguendo i consigli paterni del vecchio di cui si è presa cura: i gattini che ha aiutato nelle faccende la salvano dalla prigione. Queste figure maschili, un vecchio pidocchioso e il Mammone col suo seguito di gatti, possono rappresentare l'aiuto che viene da un mondo diverso alla fanciulla il cui padre è assente.
Il principe porge ascolto alla piccola voce dei gatti come Caterina aveva ascoltato il vecchietto lungo la via, e con la sua autorità dà alle rivali quel che avevano destinato a Caterina: non si tratta di una morte in senso letterale, ma dell’eliminazione definitiva delle parti invidiose e distruttive.

Nella vita quotidiana, la tenerezza che si dà e si riceve nel rapporto con un animale domestico può aiutare a superare un difficoltà: è una creatura vicina alla natura, alla madre terra, attraverso la quale ci si può prendere cura di una parte che si è ferita nella relazione con la madre, che non sappiamo medicare in altro modo.
In attesa che il dolore esca dal silenzio, e che la parte vicina alla natura madre trovi parola, la voce di un micio può lenire la pena: mau, maurino...  (AG 2016)






IngleseIndovina indovinatore
Vetta del compito impossibile
Quadrante nord-ovest
Carta della fiaba



Idem praedicatum de pietate Perus existimetur, quae patrem suum Mycona consimili fortuna adfectum parique custodiae traditum iam ultimae senectutis velut infantem pectori suo admotum aluit. Haerent ac stupent hominum oculi, cum huius facti pictam imaginem vident, casusque antiqui condicionem praesentis spectaculi admiratione renovant, in illis mutis membrorum liniamentis viva ac spirantia corpora intueri credentes. Quod necesse est animo quoque evenire, aliquanto efficaciore pictura litterarum vetera pro recentibus admonito recordari. Lo stesso elogio per la pietà lo merita Pero, che nutrì il padre suo Micone, colpito da una consimile sventura, e anche lui racchiuso in prigione, e ciò fece presentando alla tarda vecchiaia di lui il proprio seno come a un bambino. Non sanno staccarsi stupiti gli sguardi umani quando ammirano questo fatto raffigurato da una pittura, e meravigliandosi di quell'azione trascorsa la rinnovano nelle menti come avvenisse nell'età presente, parendo loro di scorgere in quelle mute sembianze dei corpi vivi e respiranti. Lo spirito deve perciò provare la stessa impressione, e gli scritti sono una pittura assai più efficace per ricordare gli avvenimenti passati come fossero recenti.
(Valerius Maximus, Factorum et dictorum memorabilium libri novem, 5.4.ext.1; http://www.thelatinlibrary.com/valmax5.html, 26/07/15; accessed 26/07/15) (Valerio Massimo, Fatti e detti memorabili, Traduzione e note di Luigi Rusca. Milano Rizzoli 1972, 5.4 Esempi stranieri 1. pp.301-302)

La storia di Pero, figlia di Micone, che di nascosto nutre suo padre, condannato a morire di fame, citata come Carità romana, racconta che un carceriere la scopre, ma le autorità, commosse dal suo amore filiale, anziché punirla le donano la libertà del padre. La figlia che allatta il padre è dipinta in un affresco pompeiano (Pompei, Micon e Pero), e il soggetto è stato dipinto molte volte, anche da pittori come Peter Paul Rubens e Caravaggio, che ritrae la figlia che allatta il padre nelle Opere di Misericordia, facendo loro rappresentare due delle Sette opere di misericordia: Dar da mangiare agli affamati e Visitare i carcerati).

L’attante protagonista di questa fiaba, come l’antica Pero, nutre col suo seno il padre, e come lei ottiene la sua liberazione. Mentre la storia latina pone l'accento sulla caritas filiale, quello della storia della minoranza occitana calabrese apre il motivo dell’intimo legame fra l’enigma, la situazione edipica e l’irriducibile ambiguità del linguaggio, che in questo caso inverte chi allatta (madre/figlia) e chi succhia il seno (figlio/padre).
Osserviamo che Edipo, rispondendo alla sfinge, risolve un enigma che riguarda l’alternanza fra le generazioni: l’uomo è la semplice risposta, ma l’uomo non è semplice nella successione delle diverse età, e l’eroe tragico dovrà impararlo. In questo motivo, che abbiamo posto al cuore di Fabulando, qualcosa di molto semplice e qualcosa di tragicamente complesso si trasformano l’uno nell’altro, con un enigma e una risposta che articolano la nascita e la crescita con la morte e l’invecchiamento, rendendo possibile o impossibile la trasmissione dell’eredità.
Il Marchese solutore di enigmi di questa fiaba crede nella potenza delle sue facoltà razionali, ma cozza contro l’ambiguità del linguaggio per la prima volta quando si trova di fronte la protagonista femminile.

’Ndëvinë, ’ndëvënatourë, filhë dë prìnchëpë ë dë gran sënhourë: primmë, ł’ èrë moun pairë, iérë ł’è moun filhë, iaië in filhë qu’ ał è marì a ma mairë.
Indovina, indovinatore, figlio di principe e di gran signore: prima era mio padre, ora è mio figlio, ho un figlio che è sposato con mia madre.

(e-book, pp. 6-9)

Dopo questa prima sconfitta, il Marchese si trova di fronte un prigioniero che gli pone un nuovo enigma, la cui formula, con qualche variazione, si ritrova in numerose fiabe popolari:

Al à sparè enquiì a vëiìa e al à massè ënquiì a vëiìa pè; al à mëngè carnë nëssù ë pa nëssù, quièoutë abë parołłë vèlhë ë al à bouvù iaiguë quë lh’ista pè në ’n chìëlë në ’n tèrrë. Sparò a chi vedeva e ammazzò chi non vedeva: mangiò carne nata e non nata, cotta con vecchie parole, e bevve acqua che non stava né in cielo né in terra.

(Ibid., p. 9-13)

Il Marchese prende tempo per trovare la soluzione, ma per la seconda volta fallisce. Allora libera il prigioniero e revoca il suo decreto, secondo il quale si impegnava a rendere la libertà a un prigioniero ogni volta che non fosse riuscito a risolvere un indovinello. Il detentore del potere paga un prezzo meno alto di Edipo per imparare questa lezione sui limiti delle facoltà razionali.
Vogliamo ricordare un’altra storia, nella quale un re padre si unisce con la figlia, e per allontanare I pretendenti di lei pone loro un enigma: se non troveranno la risposta, saranno messi a morte. Così racconta il romanzo latino Historia Apollonii Regis Tyri (V secolo), la cui traduzione in inglese arcaico, Apollonius of Tyre (XI secolo) viene citata come il primo romanzo inglese (vedi anche: Historia Apollonii Regis Tyri, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Dal romanzo di Apollonio Shakespeare trasse il soggetto di Pericle principe di Tiro, formulando così l’enigma:

Non sono una vipera, eppure mi nutro
della carne della madre che mi ha generato.
Cercai uno sposo, e in questo lavoro
Trovai quel favore in un padre.
Egli è padre, figlio, e dolce sposo;
Gli sono madre, figlia, e pure bambina.
Come è possibile, per due sole persone?
Ora rispondi, se non vuoi morire.
(Atto I, Scena 1, vv. 64-71)

Semplice in apparenza, questa storia ci invita a riflettere su un motivo che affonda le sue radici nel mondo classico e nella letteratura europea, sopravvissuto in una piccola comunità alloglotta la cui storia è allo stesso tempo affascinante, avventurosa e tragica. Nel XIII secolo una comunità occitana fuggì dal Piemonte al tempo delle persecuzioni religiose, andando a popolare alcuni villaggi della Calabria: il piccolo paese nel quale questa storia è stata raccolta si chiama Guardia Piemontese, e in passato si è chiamato anche La Gardia, in occitano, e Guardia dei Valdi. Questi valdesi vissero in pace seguendo la loro fede, accanto alle comunità cattoliche, fino a quando aderirono alla Riforma protestante, come i Valdesi del Piemonte. Nel 1561 un cardinale, che sarebbe salito al soglio pontificio col nome di Pio V, promosse una crociata contro i valdesi, e li sterminò tutti, senza far eccezione per le donne e i bambini. I pochi sopravvissuti furono costretti a convertirsi alla religione cattolica, e posti sotto la stretta sorveglianza dei frati domenicani. Nelle porte delle loro case c’erano spioncini apribili dall’esterno, attraverso i quali questi guardiani potevano in qualunque momento controllare che non celebrassero i loro riti. Questa comunità di lingua occitana della Calabria fu dimenticata per secoli, anche dalle altre comunità valdesi italiane, fino alla fine dell’Ottocento, quando un Valdese scoprì che esistevano, sentendoli parlare un dialetto occitanico, per quanto fortemente influenzato dal calabrese. Alla fine del secolo scorso si contavano poche centinaia di parlanti.

La politica culturale dello stato italiano, non solo durante il fascismo, ha teso ad eliminare il dialetto in favore della lingua nazionale, fino agli ultimi decenni, nei quali si può osservare una nuova consapevolezza del valore delle lingue locali, dialettali e alloglotte, alla quale seguono sforzi meritori per mantenerla in vita.
E infine, questa storia della piccola comunità Valdese della Calabria non ricorda l’incredibile oppressione di certe fiabe? Se questa storia venisse raccontata come una fiaba, le sue ingiunzioni potrebbero essere la Torre della segregazione, ma anche il Veliero della maledizione e infine il Patibolo della condanna a morte. (AG)





IngleseRana rana
Vetta del compito impossibile
Quadrante nord-est
Carta della fiaba




I tre figli del re vogliono sposarsi e il padre consegna loro tre palle d’oro: dovranno lanciarle e dove si fermeranno là saranno le loro spose. Nella versione narrata dai Fratelli Grimm, Le tre piume, la direzione che i fratelli dovranno prendere sarà quella di tre piume che il re lancia in aria. In una fiaba russa il principe Ivan, alla ricerca di Campestre Bianco, si trova in un bosco e chiede a un vecchio, che chiama a raccolta tutti gli uccelli. Ma nemmeno loro sanno dove si trovi. Allora il vecchio dice a Ivan: “To’, prendi questo gomitolino, e gettalo avanti a te; dove il gomitolo rotolerà, tu guida il cavallo” (Afanasjev, p. 208). Metodi singolari, a prima vista assurdi, che nelle fiabe conducono alla meta. Suggeriamo di leggervi una verità che ciascuno sperimenta: seguire un desiderio significa cercare di raggiungere una meta impossibile, e procedere anche quando la ragione e il buon senso ci farebbero desistere. Non si tratta di cercare una magia, ma di riconoscere che la geometria della vita è tutt’altro che semplice, e in certi casi il senso si manifesta come per una grazia improvvisa, come risolvere un problema proprio quando la tentazione di rinunciare a trovare una soluzione si fa più forte.

Come si affronta il compito di trovare una sposa? Il metodo del re non è molto pratico, ma nessuno è in grado di rispondere in maniera soddisfacente. In questo senso intendiamo il metodo aleatorio della nostra fiaba come espressione dell’imprevedibilità che ogni matrimonio concretamente implica.
La fiaba, dopo aver presentato due soluzioni soddisfacenti per i due fratelli maggiori, sembra sottolineare l’assurdità del metodo: chi può chiamare Nicolino nel fosso dove è caduta la sua palla d’oro? Nella fiaba che abbiamo citato, delle tre piume, i primi due fratelli seguono le direzioni indicate dalle due piume, mentre la terza piuma cade subito per terra e il figlio minore non può fare altro che sedersi senza sapere che fare. Ma poi vede l’anello di una botola, scende in un sotterraneo, e trova una famiglia di ranocchie che prova dopo prova lo porterà al lieto fine.

Nicolino chiama una rana, e una rana gli risponde, comprende la sua delusione ma è certa che un giorno l’amerà. Come i fratelli ha trovato una sposa, e il re padre a questo punto presenta il tema della successione: salirà al trono il figlio la cui sposa mostrerà di essere la migliore. La ranocchia, come il Principe Ranocchio di un’altra delle fiabe di questa raccolta, da una parte è umile, vive in un fosso o in una fontana, ma è fin dalla sua apparizione una creatura magica: è dotata di parola e prova dopo prova riempirà di meraviglia i principi e il re. Nelle fiabe sono sempre la figlia o il figlio minore ad assolvere il compito impossibile, sono disprezzati o perseguitati per la loro bellezza, costretti da un incantesimo che è avvenuto prima del racconto nel quale lo conosciamo, in ogni caso invitano chi legge o ascolta la loro storia a lasciar emergere insieme a loro la propria parte meno amata, quella che dispera di farcela, la più debole, vale a dire la minore. Il dialetto romanesco accompagna con tenerezza e ironia tutta la vicenda, con un’attante protagonista che non rinuncia all’unica possibilità che gli è toccata, pur dubitando ogni volta che le cose possano mettersi bene. Il giorno delle nozze piange e piange, deriso da tutti perché porta a palazzo una ranocchia, mentre i suoi fratelli hanno due belle spose. Nonostante questo apre la camera della ranocchia per portarla alla cerimonia, e quando vede una bellissima fanciulla si scusa con lei dicendole che sta cercando la sua sposa: “Cercavi una ranocchia?”, chiede la bella. Nicolino afflitto risponde di sì: “Beh, la ranocchia sono io”. Nicolino non ci crede, anzi, non se la beve, finché la bella non gli spiega che solo quando qualcuno l’avesse sposata senza sapere che era bella l’incantesimo del quale era vittima avrebbe avuto fine.

La rana è connessa alla fecondità e alla metamorfosi, alla possibilità che sbocci qualcosa che non prevediamo e che non possiamo controllare. Il modo in cui veniamo al mondo non è meno miracoloso e aleatorio – magico, dicono le fiabe – della metamorfosi delle ranocchie e dei ranocchi nelle favole. E la nostra possibilità di seguire il nostro desiderio comprende movimenti incerti come quello dei principi che seguono un gomitolo, una piuma o una palla d’oro. (AG)




IngleseLa Regina Marmotta
Vetta del compito impossibile
Quadrante nord-est
Carta della fiaba



Nonostante il titolo della fiaba sia dedicato all’attante femminile, che certamente spicca con la sua decisione e il fascino del suo sontuoso palazzo, il protagonista de La Regina Marmotta è Andreino, il figlio minore del re di Spagna che porta a termine, a differenza dei suoi fratelli, il compito di trovare la medicina che può curare la cecità del padre: il compito è impossibile in quanto si tratta di andare a cercare un’acqua magica che si trova nell’Isola del Pianto, il reame incantato de La Regina Marmotta, che è lontano lontano al di là di un oceano dove nuotano enormi e terribili orsi bianchi. L’ingiunzione di questa fiaba è infatti la Vetta del compito impossibile, e, poiché il compito è imposto dal padre all’attante maschile, la storia si trova nel quadrante nord est.
Italo Calvino, nell’introduzione delle sue Fiabe italiane, definisce La Regina Marmotta

...il più ariostesco racconto che sia stato trascritto da bocca di popolano, figliato da non so qual sottoprodotto dell’epica cinquecentesca, non nella trama, che nelle sue grandi linee è quella d’una fiaba assai diffusa, e neppure nella fantastica geografia che era pure nei cantari cavallereschi, ma nel modo di raccontare, di creare il “meraviglioso” attraverso la dovizia di descrizioni di giardini e palazzi (assai più estese e letterarie nel testo montalese di quanto non appaia nel mio rifacimento, molto abbreviato, per non scostarmi troppo dal tono generale del libro. (Italo Calvino, Introduzione, in Fiabe italiane, Milano: Arnoldo Mondadori Editore, 2002, pp. 28-29)

Il rifacimento molto abbreviato a cui accenna Calvino risulta particolarmente evidente nel confronto con il testo originale. Seguendo i criteri che hanno guidato il progetto di Fabulando, il piacere della narrazione densa di significato e il rigore filologico, abbiamo voluto proporre un affiancamento delle due versioni, e la diversa lunghezza dei due testi mostra di per sé le parti che Calvino non considera nella sua rinarrazione. Il lettore vedrà così che per quanto il linguaggio della versione originale è vivace e attinge alla concretezza tipica del linguaggio popolare ma anche al registro del meraviglioso in un miscuglio che muove i sentimenti, altrettanto il linguaggio della versione di Calvino è piano, poco modulato, privo di allargamenti descrittivi o di particolari curiosi. Quando nel 1956 Calvino ha pubblicato le sue Fiabe italiane ha realizzato un’operazione culturale importante: ha consentito la diffusione del patrimonio fiabesco italiano nell’Italia stessa. Fino ad allora le fiabe si trovavano pubblicate quasi soltanto nelle raccolte dialettali che erano (e sono) poco conosciute proprio perché trascritte nei molti dialetti locali parlati per lo più dalle generazioni più anziane e sempre meno da quelle più giovani. Rinarrare quelle fiabe nella lingua nazionale ha reso possibile a tutti la loro conoscenza, sia agli italiani sia agli stranieri, che traducono con più facilità i testi di Calvino che quelli in dialetto.

Dobbiamo dire però che Calvino ha compiuto una scelta stilistica che va nella direzione opposta a quella dei grandi raccoglitori dell’Ottocento, dai quali pur trae le storie e per i quali pur dichiara la propria ammirazione. Questi studiosi, oltre un secolo fa, avevano tentato di valorizzare l’apporto linguistico e culturale proprio di ciascuna zona d’Italia facendo dialogare fra loro testi raccolti in luoghi anche lontani, mostrando i legami spesso sorprendenti fra le varie forme di narrazione, trascrivendo la lingua orale e annotandone le peculiarità linguistiche. Calvino invece sceglie di raccontare le fiabe in una lingua unica, uguale per tutte. Non intendiamo con ciò il fatto che abbia scelto l’italiano al posto dei dialetti, quanto piuttosto il fatto che quello da lui stesso definito il tono generale del libro sia improntato ad un registro in cui è annullata la diversità di andamento narrativo e di tono linguistico esistente fra le diverse fiabe raccontate nei diversi dialetti. Riteniamo che tale diversità sia il cuore della ricchezza culturale italiana e per questo abbiamo voluto affiancare da una parte i testi nella lingua originale che potrà gustare chi la conosce e consultare chi, pur non conoscendola, è curioso, dall’altra una traduzione italiana (inglese) rispettosa delle particolarità di ogni fiaba, perché ognuno possa accedere al mondo narrativo e linguistico di quella storia, anche leggendola nella sola lingua nazionale.
(CC)


 


IngleseIl testamento d'una fata
Vetta del compito impossibile

Quadrante sud-est
Carta della fiaba



Questa fiaba ciociara comincia con la morte di una fata, evento piuttosto raro nel mondo pervaso dalla magia, che detta le sue ultime volontà al figlio: dovrà sposare le tre sorelle ai primi tre che passeranno per via, per poi sposarsi a sua volta. Obbedendo all’ingiunzione materna l’attante protagonista di questa storia offre le sorelle a tre umili personaggi, che le prendono e le portano via, rivelandosi presto alle malcapitate sposine come un porco, un piccione e uno scheletro. Nelle fiabe raramente ci sono matrimoni normali, essendo bizzarri nel dispositivo iniziale, o assolutamente felici nel lieto fine. Il testamento della fata sembra assurdo e nefasto, e il figlio non manca di rammaricarsene eseguendo la sua volontà, come non è contento della seconda ingiunzione, sempre femminile, che è costretto a seguire per incantesimo: non può sedersi né coricarsi se non trova la Margarita bella. Come ne I tre re animali la sua ricerca delle sorelle e della futura sposa è priva di coordinate e quindi impossibile, e la posta è altrettanto alta: la liberazione dalla forma animale dei tre cognati, il ritorno delle sorelle, la liberazione della Margarita bella dall’orco che l’aveva rapita, e la sua dall’incantesimo che gli impediva ogni forma di riposo. Questa fiaba ha elementi magici con i quali l’attante protagonista e i cognati suoi aiutanti non possono non confrontarsi, e questo difficile – o, meglio, impossibile - confronto rendere possibile la loro dissoluzione: la fata madre muore, l’orco fugge e scompare per sempre, la forma non umana dei tre cognati lascia il posto al ripristino della loro principesca figura.

Merita un’osservazione la terza prova alla quale l’orco sottopone l’attante protagonista: passerà la notte con Margarita bella, ma l’orco li ingoierà entrambi se al mattino non gli faranno trovare un bambino bell’e nato. Solo di fronte all’avvicendamento delle generazioni, attestato da una magica fecondità della coppia dalla quale dipende la soluzione di tutti gli incantesimi negativi, l’orco si dichiarerà sconfitto. E come se la fiaba corrispondesse alla coppia Eros/Thanatos, Amore e Morte, fecondità e sterilità, il cognato che rende possibile la nuova vita è lo scheletro. Il reame delle figure magiche è un aldilà che ricorda sia il mondo dei sogni notturni e dei deliri, sia il regno dei morti: è qualcosa che ha a che fare con l’umano, che però allo stesso tempo impedisce e permette quella soggettivazione che rende compiutamente umani, finalmente liberi dalle ingiunzioni parentali e quindi fecondi.
La fiaba prende avvio dall’ingiunzione della Vetta del compito impossibile, che si ripete più volte, dal testamento che le dà titolo alle prove imposte dall’orco, e si iscrive nel quadrante sud-est, essendo dettata dalla madre all’attante protagonista maschile.
(AG)





 IngleseIl giovane e la lampada
Palude dei derelitti

Quadrante nord-est
Carta della fiaba




Nella bellissima raccolta di fiabe Novellistica italo-albanese, 1967 si trova una ricchezza di motivi e combinazioni in buona parte inaudite che fanno pensare a un popolo separato dalle genti non arbrèshe e forse per questo dedito all'alrte del racconto in misura così lussureggiante.
Molti sono i riferimenti, spesso elaborati in modi originali e diversi da quelli delle altre regioni meridionali, altrettanto ricchi, ma diversi da questi. Le opere alle quali il lettori ripensa più spesso sono Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile e Le mille e una notte, ma viene anche in mente, Straparola. In ogni caso, non ci siamo lasciati scappare questo fratello fiabesco di Aladino.
Nella comunità italiana albanese di Calabria, nel paese di Eianina, è stata raccolta negli anni Sessanta questa versione popolare della fiaba di Aladino. Come il protagonista non è nominato altro che come il giovane, al posto del sultano delle Mille e una notte si trova il re, e la principessa Badr al-Budur (Luna piena delle Lune piene) è qui nominata semplicemente come la figlia del re o la sposa del giovane. La lampada non viene mai definita magica, e non ne esce nessun genio. Però come la sua letteraria parente costruisce un castello tutto d’oro in una sola notte, e sa anche trasportarlo in volo, per ordine del mago che si è impadronito della lampada, in mezzo al mare. Il mago, come il suo corrispettivo narrato da Galland nella prima versione europea delle Mille e una notte, ottiene la lampada di Aladino andando in giro a offrire lampade nuove per vecchie lampade. La fiaba fa parte di quelle narrate a Galland da Hannà, maronita di Aleppo, come L’uccello Bulbul Hezar, compreso in questa raccolta.
L’avvio delle fiaba è lacunoso: il mago convince la madre del giovane a darglielo come lavorante, e presto lo chiude nel pozzo, come il suo alter ego più illustre che abbiamo nominato. Ma il narratore arbërëshe non ci dice perché, né perché voglia poi vendicarsi portandogli via castello d’oro, sposa e madre. La lacuna è per noi preziosa, perché attesta la provenienza della fiaba dalla tradizione colta insieme alla capacità popolare di farla propria.  È la democrazia delle fiabe, la loro mirabile e certa magia. (AG)



IngleseI sette piccioncini
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba



Cianna, l'attante protagonista, vuole ritrovare i sette fratelli che se ne sono andati alla sua nascita, a causa di un involontario errore materno. Quando li ritrova a servizio di un orco misogino, la felicità della loro riunione cessa per un suo involontario errore a causa del quale i fratelli diventano sette piccioncini. Si rinnova l'impegno impossibile di Cianna, che per riumanizzarli si mette in viaggio alla volta del Tempo. Lungo il rischioso cammino, dà ascolto a creature che le chiedono aiuto in cambio di preziose istruzioni su come raggiungere la casa del Tempo. L'attante protagonista raggiunge la sua meta: permette così ai fratelli di ritrovare la forma umana e soddisfa i desideri di tutte le creature che aveva incontrato. Queste, a loro volta, consentono agli otto giovani di affrontare e superare gli ostacoli che impedirebbero il loro felice ritorno.

Questa è una delle più belle fra le meravigliose fiabe di Basile, non solo per la complessità e la coerenza della sua struttura narrativa, ma anche perché in essa si realizza esplicitamente quella attitudine a liberarsi liberando altre creature che è l'etica stessa di tutte le fiabe.

La favola ha come protagonista un'attante femminile e parte da un'implicita ingiunzione materna, figura dunque nel Quadrante sud-ovest. L'ingiunzione è quella del Labirinto dell'impegno impossibile in quanto Cianna sceglie autonomamente di rimediare a tutto ciò che ha causato la perdita dei suoi sette fratelli, in primo luogo perché hanno abbandonato la madre e lei stessa, poi perché sono stati esclusi dal mondo umano.

Basile ci offre in questa fiaba un lungo elenco di predatori e di piccoli uccellini, per bocca dei sette fratelli di Cianna quando tornano da lei a rimproverarla per aver causato la loro metamorfosi. Ne offriamo un'IMMAGINE e una TABELLA che presenta diverse traduzioni italiane e inglesi dei nomi elencati da Basile, di aprire una loro fotografia e di sentire il loro verso. (Nel sito Psicoanalisi e favole di Adalinda Gasparini, vedi: IMMAGINE, TABELLA)
(AG)





IngleseVioletta
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante nord-ovest
Carta della fiaba



L'ingiunzione di Violetta è il Labirinto del compito impossibile, perché l'attante protagonista segue il suo desiderio, di non sottomettersi al figlio del re, affermando anzi la sua superiorità. Agisce contro l'autorità maschile, sia quella del padre che tenta di allontanarla dall'occasione di competere col principe, sia la norma sociale e culturale per la quale una povera femmina deve soggiacere all'autorità di un maschio regale. Si comprende quindi come si trovi nel quadrante nord ovest: la realizzazione del suo desiderio esige la vittoria sulla regola sociale. I suoi alleati infatti sono decisamente anti-convenzionali: un orco ingenuo e teneramente paterno, e le fate femministe.
Violetta è la bellissima figlia di un pover’uomo, e il figlio del re si innamora di lei. Quando la saluta lei lo prende in giro: "Bonní, figlio de lo re! io saccio chiú de te!".
Il senso comune, rappresentato dal padre e dalle sorelle di Violetta, la esortano a non parlare senza rispetto al figlio del re, perché anche a loro potrebbe derivarne un danno, ma la schermaglia amorosa continua. Il padre la allontana mandandola da una zia maestra di cucito, ma il principe la scopre e convince la sarta ad aiutarlo con Violetta. La ragazza però si accorge della tresca e lascia il principe con un palmo di naso.

Violetta, armata della sua parola e della sua determinazione, potrebbe essere la protagonista di una novella, se a un certo punto, quando le sorelle cercano di farla fuori, non cadesse nel giardino di un orco straordinario, che crede di aver messo al mondo la bella fanciulla con un peto. La tiene con sé come figlia e le assegna come maestre alcune fate amiche sue. Si potrebbero definire protofemministe le fate di Violetta, visto il sostegno che danno alla sua determinazione di non piegarsi al principe. Il regale corteggiatore fa di tutto per vincere Violetta, ma alla fine deve capitolare e sposarla, dato che questo è l’unico modo di possederla. L’orco e le fate aiutano Violetta, come in tutte le fiabe, perché la loro funzione è sostenere l’attante protagonista lungo il suo cammino di crescita. L’attante protagonista non sacrifica mai nulla agli idoli del senso comune o ai personaggi potenti, e potrebbero rappresentare doti ancora non scoperte e imprevedibili, come risorse vitali che emergono solo quando il soggetto segue il suo desiderio, pronto a rischiare anche la vita. Violetta non può contare su suo padre né sulle sue sorelle pavide e invidiose, ma quando queste tentano di eliminarla trova un tenero padre e delle fate protofemministe. Realizza il suo desiderio, di essere pari, o anche superiore, al figlio del re.

Nella favola di Giambattista Basile, che abbiamo scelto per la nostra raccolta, le nozze rappresentano il lieto fine. Ma secondo certe versioni popolari della fiaba il possesso legale non basta, e la storia continua. Violetta se che il suo principe non sopporta di essere stato sconfitto, e teme la sua vendetta. Così si fa fare dalle fate una bambola di zucchero ripiena di rosolio uguale a lei, e la notte di nozze la mette nel letto, nascondendosi poi dietro una tenda. Arriva il principe e gridando che finalmente la fanciulla è in suo potere le pianta un pugnale nel cuore e vuole leccarne il sangue. Sentendo la dolcezza del rosolio, il principe si pente: come ha potuto uccidere una creatura così dolce? Il suo dolore e il suo rimorso sono così smisurati che estrae il pugnale per uccidersi, ma Violetta esce da dietro la tenda e gli offre tutta la dolcezza che credeva di aver perduto.
La fiaba sembra suggerire qualcosa sulla violenza che gli uomini esercitano sulle donne, e sulla possibilità di addolcirla e trasformarla in amore. Non ignoriamo che si tratta di un compito impossibile, a meno che non si possa contare sull’aiuto di un tenero orco e di un gruppo di fate femministe.

L'ingiunzione di Violetta è il Labirinto del compito impossibile, perché l'attante protagonista segue il suo desiderio, di non sottomettersi al figlio del re, affermando anzi la sua superiorità, nonostante sia povera e quindi destinata alla sottomissione. Sua antagonista è l'autorità paterna, sia quella di suo padre che tenta di allontanarla dall'occasione di competere col principe, sia la norma sociale e culturale per la quale una femmina povera non può che subire l'autorità di un maschio ricco e nobile. Si comprende quindi come si trovi nel quadrante nord ovest: la realizzazione del suo desiderio esige la vittoria sulla regola sociale, rappresentata sia dal padre che dal re. I suoi alleati infatti sono decisamente anti-convenzionali: un orco ingenuo e teneramente paterno, e le fate proto-femministe. (AG)





IngleseL'aquila d'oro
Labirinto dell'impegno impossibile

Quadrante nord-est
Carta della fiaba







L'attante protagonista Arighetto, figlio dell'imperatore tedesco, desidera conquistare la principessa Lena, figlia del re d'Aragona. Per poterla avvicinare, fa costruire un'aquila d'oro nella quale si nasconde. Quando il re regala l'aquila d'oro alla figlia, Arighetto può finalmente incontrare Lena che si innamora di lui. I due fuggono di nascosto per recarsi nel castello di Arighetto. Allora il re d'Aragona dichiara guerra all'imperatore tedesco: entrambi chiamano a raccolta i propri alleati e tutti i popoli d'Europa sono coinvolti in una battaglia, piena di bandiere, armi, squilli di trombe e rombi di tamburo, duelli cruenti e massacri, ma tutti rispettano comunque le regole della cavalleria. Alla fine, l'intervento del Papa pone fine alla guerra costringendo i belligeranti a fare pace. Si celebrano così  due matrimoni: Arighetto sposa Lena, mentre Prinzivalle, fratello di Lena, sposa la sorella di Arighetto.

L'associazione con l'epica di Omero è immediato: qui Lena o Elena, nell'Iliade Elena, e in entrambi i casi il ratto provoca una grande guerra. Nella fiaba, diversamente che nell'epica e nella tragedia, l'esito non è la distruzione di una delle due parti o di entrambe, ma un lieto fine con due matrimoni regali.
L'andamento della storia e i suoi protagonisti ricordano antiche battaglie epiche e insieme la grazia dell'amor cortese. Questa favola italiana del XIV secolo può essere adottata da insegnanti e genitori come introduzione alla conoscenza dell'Europa, dei suoi popoli, delle sue guerre, della sua pace.

In questa fiaba l'ingiunzione è il Labirinto dell'impegno impossibile, in quanto è l'attante principale che decide da sé di seguire il proprio desiderio, la cui realizzazione sembra impossibile. L'Aquila d'oro si trova nel quadrante nord est poiché l'attante protagnosita è maschile, Arighetto, e il suo antagonista è il re d'Aragona, una figura paterna. (AG)



IngleseMeni Fari
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante nord-est
Carta della fiaba


In questa fiaba Gesù e i discepoli in incognito capitano davanti alla casa dell'attante protagonista, il fabbro Menico. Gesù incarica san Pietro di entrare da lui tre volte per chiedere la carità, e san Pietro ottiene uno dopo l'altro i soli tre soldi con i quali il fabbro doveva mangiare, fumare un sigaro e mettere l'olio nella lampada. Come ricompensa a tanta generosità Gesù promette al fabbro di esaudire tre suoi desideri. Anziché chiedere ricchezze, palazzi, giovinezza, il fabbro chiede e ottiene che il suo violino, il suo panchetto e il suo albero di fico diventino magici. Grazie a ciò l'attante protagonista sconfigge la morte e il diavolo imprigionandoli a suo piacimento. Il fabbro ha quindi chiesto e ottenuto di realizzare il desiderio impossibile per eccellenza: evitare di essere preso dalla morte. Dopo una lunghissima vita il fabbro decide di andare a vedere cosa c'è nell'Aldilà, ma san Pietro gli impedisce di visitare il Paradiso perché secondo lui ha fatto cattivo uso dei doni concessigli dal Signore. Respinto anche dagli angeli del Purgatorio, il fabbro bussa all'inferno, ma il diavolo ha conosciuto il suo potere e avverte tutti i diavoli perché non lo facciano avvicinare. Tornato alle porte del Paradiso, Meni Fari con uno stratagemma elude la sorveglianza di san Pietro e ottiene un piccolo posto appena oltre la porta, seduto sulla giacchetta e col suo violino in mano, suonando il quale costringe a ballare chiunque, anche i santi.

In altre fiabe si racconta di attanti che non hanno paura di nulla, nemmeno della morte; sono le due fiabe di Giovannin senza paura e di Giovannino e la pelle d'oca. Meni Fari conosce bene l'esistenza della morte e gli fa tanta paura che i suoi tre desideri realizzano la possibilità di evitarla. Al contrario i due Giovannini non la conoscono. E mentre Giovannin senza paura non percepisce come una mancanza la sua ignoranza della morte e ne sarà afferrato all'improvviso, l'altro Giovannino cerca il brivido della paura perché ne sente la mancanza. Attraversa peripezie analoghe al suo più sfortunato fratello fiabesco, e solo dopo aver provato la pelle d'oca lui e la sua favola giungeranno al lieto fine. Quella di Meni Fari è una fiaba-parabola laica che sembra raccontare come vincere la paura della morte sia un impegno impossibile, eppure si realizza, consentendo all'attante protagonista di non essere dominato dalla paura né di ciò che gli capita sulla terra né di quanto potrebbe accadergli nell'aldilà.

La fiaba di Meni Fari, attante protagonista maschile, si trova nel quadrante nord-est perché san Pietro rappresenta la figura paterna antagonista che disapprova la scelta del fabbro. L'ingiunzione è il Labirinto dell'impegno impossibile.
(AG)





IngleseMastro Benigno
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante nord-est
Carta della fiaba



Sul sito della Royal Society Publishing House possiamo leggere i risultati di una ricerca (Comparative phylogenetic analyses uncover the ancient roots of Indo-European folktales. Sara Graça da Silva, Jamshid J. Tehrani), pubblicati nel 2016, secondo la quale le strutture narrative delle fiabe sarebbero state presenti molto tempo prima della loro scrittura. In particolare la storia Il fabbro e il diavolo, vale a dire il tipo di Mastro Benigno e di Meni Fari, sarebbe stata già presente nell'età del bronzo (3300-1200 a. C.).
Nelle popolazione senza scrittura le strutture narrative raccolte dai viaggiatori e dagli studiosi sono allo stesso tempo storie religiose, miti, fiabe e novelle moralistiche. Noi riteniamo che la fiaba - più particolarmente la fiaba europea, successivamente diffusa nel mondo attraverso i colonizzatori e missionari - come genere nasca nel XVI secolo, ovvero nel tempo della riforma e della controriforma.
Il metodo dei ricercatori il cui lavoro figura sul citato sito della Royal Society non si occupa della differenza fra storie religiose, considerate vere e fondanti in un certo tempo, da una certa comunità, i miti, le fiabe, le favole, le leggende, gli apologhi. Resta interessante e apre prospettive d'indagine non insignificanti rintracciare un motivo narrativo applicando un metodo biologico - nato per comprendere le migrazioni degli esseri umani grazie al rilevamento del DNA - al campo dell'espressione narrativa.
Non dubitiamo, in ogni caso, che storie dell'essere umano che forgia i metalli siano associate alla capacità umana di giocare o gabbare potenze sovrannaturali, come il diavolo o la Morte. Perizia tecnica e intelligenza svincolata dal pensiero comune, spesso atterrito di fronte all'ignoto (c'è qualcosa di più ignoto della Morte?), sono al cuore della nostra condizione umana, paradossale o miracolosa, perennemente esiliata dalla grazia eppure capace di meritarla vincendo ostacoli in apparenza insormontabili.

Homo faber fortunae suae, come recita un adagio latino: il fabbro rappresenta l'uomo che grazie al fuoco forgia i metalli, prima quelli ricavati dalle meteoriti - di origine celeste (è dal latino sidera, stelle,  viene la parola siderurgia) - poi quelli terresti, estratti dalle viscere della terra madre. L'uomo lavora ciò che estrae con gli strumenti che gli sono propri: è perciò artefice, fabbro, del suo destino.
Venendo alla nostra fiaba, il fabbro Benigno - nomen est omen - in una notte di pioggia ospita un'intera comitiva di viandanti, senza sapere che sono Gesù, il Maestro, san Pietro, e altri discepoli. Li scalda, li sfama e li disseta: sfamare gli affamati è una delle sette opere di misericordia. Né chiederebbe nulla in cambio, se non fosse per il suggerimento di san Pietro. Ma a differenza degli oggetti magici per lo più chiesti e ottenuti nelle favole, quel che mastro Benigno chiede e ottiene lo usa solo per moltiplicare il tempo della sua vita: non cerca nessun dominio su oggetti o altri esseri viventi. Sembra che mastro Benigno ci indichi una verità difficile e luminosa: il vero bene, l'unico, è la vita stessa.
Grazie ai suoi oggetti magici il mastro fabbro moltiplica la vita per otto volte, prima di seguire senza scherzi la Morte, inviata per la terza volta dal Maestro Gesù perché lasci questo mondo. Questo antico homo faber ci appare come un magnifico homo laicus, non solo perché per lui il massimo bene della vita è la vita stessa, ma da come si comporta una volta arrivato nell'Aldilà. Più semplice e forse più elegante del suo fratello fiabesco già ricordato e presente in Fabulando, Meni Fari, Mastro Benigno non è empio, né ignora i propri limiti. Chi gli ha concesso i tre doni, Gesù Cristo, nominato per tutta la fiaba come il Maestro, con la maiuscola, non poteva non sapere come il mastro fabbro Benigno, avrebbe potuto usarle. Mastro Benigno,  maestro con la minuscola dell'arte che piega i metalli col fuoco, si pone di fronte al Maestro con tutta la dignità che l'uomo può esprimere, disponendo di quel fuoco che Prometeo ha sottratto per lui agli dei. La dignità del mastro fabbro è della stessa materia del soggetto letterario che dalla sua comparsa ha goduto e gode tuttora di una fortuna universale e ininterrotta: Odisseo, Nessuno, Ulisse.
Mastro Benigno è una semplice fiaba, non una favola sapienziale, una fiaba di quelle, come si diceva sopra, nate nel secolo della Riforma e della Controriforma. Ma il modo in cui ci racconta che il bene più grande della è la vita stessa, ci commuove e ci paice di più del suggerimento esplicito degli apologhi e delle storie sapienziali stesse. Qualcuno, generoso e mai avido, riconoscendo il potere divino ha potuto forgiare il suo destino, chiedendo e ottenendo per sé una parte del potere divino: potere di respingere la morte e il diavolo, per prolungare la vita moltiplicandone per otto la durata, potere di entrare con in Paradiso giocando san Pietro. Se mastro Benigno ha diritto - in nome di Dio! - di entrare nel suo zaino, san Pietro, che non ricordava il terzo dono,  potrà dolersi della propria dabbenaggine. È del resto il suo carattere, è l'uomo che dimentica, come il mastro Fabbro è l'uomo che ricorda: azzardiamo un'analogia, vedendo in san Pietro col mastro fabbro una coppia discendente dalla grande coppia mitica dei fratelli titani Prometeo ed Epimeteo. Se ha dimenticato che lo zaino di mastro Benigno  è fatato, questa dimenticanza non è certo più grave di quella che secondo i Vangeli gli ha fatto dimenticare il suo Maestro, rinnegandolo per tre volte nella notte in cui Pilato lo torturava.
Il Maestro ama giocare col maestro, che gioca la scintilla divina della sua intelligenza, non meno che con l'uomo che per paura rinnega ciò a cui aveva giurato fedeltà, ora giudice e portinaio del Paradiso. Che non capisce questo gusto del gioco fra divino e umano: ma è costretto ad accettarlo.

Potrebbe essere intesa come un inno alla vita, corrispondente all'inno alla vita della comunità che l'ha tramandata fino a noi, gli Occitani di Guardia Piemontese, in Calabria. Dopo essere fuggiti dal Piemonte, loro luogo di origine, durante le persecuzioni dei Valdesi nel XII secolo, i protestanti vennero allo scoperto secoli dopo, al tempo della Riforma, per subire poco tempo dopo la persecuzione durante la Controriforma. Ai pochi che erano rimasti vivi, convertiti con la forza, era stato proibito di professare il loro culto e di parlare la loro lingua, ma nonostante questo i membri delal piccola comunità sopravvissuta hanno custodito le loro tradizioni fino a quando un demologo - così si chiamavano allora i ricercatori di tradizioni popolari, verso la fine del XIX secolo - riconobbe la loro sorprendente presenza. La damnatio memoriae controriformistica non era riuscita, nonostante un collegio di gesuiti eretto nei pressi, i cui padri potevano utilizzare uno spioncino apribile dall'esterno delle case per controllare che nessuno contravvenisse alle regole imposte dai cattolici. (AG, 4 febbraio 2018)





IngleseI tre re animali
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante sud-est
Carta della fiaba



Il principe ereditario si mette in cammino per ritrovare le tre sorelle che prima della sua nascita sono state rapite, ovvero sposate contro la volontà paterna, da tre re animali, un falco, un cervo e un delfino. Abitano in dimore meravigliose isolate dal resto del mondo, il cui archetipo risale al secondo secolo dopo Cristo: il palazzo dove Amore conduce Psiche nella fiaba posta da Apuleio al centro de Le metamorfosi o Asino d’oro. È la regina madre a determinare la condizione dell’impresa dell’attante protagonista, dando alle figlie e al figlio quattro anelli uguali perché possano riconoscersi se mai si rincontreranno. Se in un film appare una pistola, prima della fine del film la pistola sparerà; se in una fiaba c’è una separazione, prima della fine ci sarà la riunione delle creature che erano state separate. Analogamente, se si presenta qualcuno vittima di un incantesimo negativo, la legge della fiaba prevede che si realizzi l’incantesimo opposto, verso una liberazione che un’umanizzazione: non umano è il castello separato dal mondo, non umana è la forma dei tre sposi. Il principio maschile giovane, il principe, muovendosi lega tutti gli altri, e compensa la perdita di eredi che riguarda il suo regno, i regni dei tre animali, e quello della principessa prigioniera del drago che diventerà la sua sposa.
Il tema della successione fra generazioni è qui moltiplicato, e la sterilità significata dalla lontananza dal loro regno degli otto giovani racconta di un arresto della vita stessa. Si noti che le nozze fra i re animali e le tre principesse sono sterili fino al loro ritorno al mondo umano, alla forma umana dei tre re e al reame, al trono sul quale dovranno salire. Come ha scritto Calvino, l’etica della fiaba è liberare liberando, e questa storia la mostra moltiplicata, perché ogni liberazione è connessa alle altre, sia come causa che come effetto.

Si iscrive questa fiaba nel quadrante sud-est perché l’attante protagonista è il giovane principe, senza il quale i principi e le principesse resterebbero lontani dal mondo umano. La sua ingiunzione è il Labirinto dell’impegno impossibile perché l’attante decide autonomamente di partire. L’ingiunzione è materna perché è la regina madre, col dono dei quattro anelli, a determinare la condizione perché il figlio minore, principe ereditario, possa assumersi volontariamente il compito di porre fine alla sterilità conseguente all’allontamento dal mondo umano dei tre re animali, delle principesse loro spose, e della principessa prigioniera del drago che diventerà la sua sposa.
Si può confrontare questa fiaba con Il testamento di una fata, dove la madre dell’attante protagonista, morendo, gli impone un compito impossibile che determina un cammino sostanzialmente coincidente con l’impegno impossibile dei Tre re animali.
(AG)





IngleseVioletta romaní
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante nord-oves
Carta della fiaba



Per chi legga questa fiaba nella traduzione italiana, ben pochi dettagli possono essere riferiti a una tradizione romaní distinta da quella di fiabe popolari italiane ed europee dello stesso tipo, che hanno nella Violetta di Giovan Battista Basile il loro prototipo. Chi voglia sentire la sua particolarità dovrà quindi misurarsi con la versione romaní.
La storia della contadina saggia, che con la sua perspicacia batte il re nell'aministrazione della giustizia e vince il suo sdegno con amorosa astuzia, ricorda la novella di Griselda. Se la protagonista della centesima favola di Boccaccio ha una sovrumana pazienza, Violetta ha una altrettanto sovrumana astuzia, unita alla capacità - comune con quella di Griselda - di non opporsi frontalmente al detentore del potere, che non tollera di essere contraddetto da lei nell'esercizio delle sue regali funzioni. Astuzia che ricorda il finale popolare della fiaba di Violetta: sicura che il suo regale pretendente sposandola non abbia affatto rinunciato a vendicarsi, la protagonista mette al suo posto nel letto nuziale una bambola di zucchero, ripiena di miele o di rosolio. Il re, ancora infuriato per aver perso il contrasto con la protagonista che non gli ha ceduto, inizia la prima notte di nozze trafiggendo la bambola con la spada. Poi, credendo di leccare il sangue della sposa, si commuove sentando tanta dolcezza, e sta per uccidersi per la perdita. Allora la protagonista esce dal suo nascondiglio e lo ferma: ora la coppia può finalmente vivere felice e contenta. (Vedi in Fabulando il finale aggiunto alla Violetta di Basile; vedi anche, nella raccolta di Giuseppe Pitrè la fiaba siciliana on line La grasta di lu basilicò).

L'attante protagonista è femminile e la sua azione si sviluppa in rapporto al padre - che non la comprende - e al re suo sposo: si trova infatti nel quadrante nord-ovest.
L'ingiunzione della fiaba, come nella Violetta di Basile, è il Labirinto dell'impegno impossibile perché l'azione della protagonista dipende dalla sua scelta più che dalle decisioni dei personaggi maschili. (AG)




IngleseCaterina la sapiente
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante nord-ovest
Carta della fiaba



Il principe presenta la storia di Caterina la sapiente

Ero andato pieno di buona volontà a scuola da Caterina, e pensavo che si sarebbe sentita onorata di avere il principe ereditario ad ascoltarla. E invece mi diede un ceffone alla prima risposta che non seppi darle! Che storia la nostra, la VI raccolta da Pitrè! Un maschio, e per giunta di sangue reale, non può vivere subendo un affronto come quello, da una femmina, e per giunta figlia di un mercante. Ma Caterina era proprio tremenda: mi sarebbe bastato che dicesse che le dispiaceva avermi messo le mani addosso, e l’avrei perdonata, e invece no! Non solo non era pentita, ma minacciava di picchiarmi di nuovo, e allora decisi che per amore o per forza avrebbe dovuto obbedirmi. La sposai, e la prima notte di nozze la calai giù nella ghiacciaia, ma lei continuò a non pentirsi. Non capivo come facesse a stare così bene là senza mangiare. Forse aveva studiato qualche metodo per resistere digiunando, e allora partii per Napoli, e poi andai a stare a Genova, e poi a Venezia, per dimenticarmi di lei. Ma dove andavo c’era sempre una che le somigliava, e proprio per questo quelle signore mi piacevano e me le sposavo. A quei tempi, nel regno delle fiabe, a noi principi ereditari era permesso, che volete? Ma per quanto potessi permettermi di prendere più mogli, e di tenerne una in prigione a casa mia in una specie di cella frigorifera, non riuscivo a domare Caterina, e ogni volta che ci parlavo era più bella e spiritosa che mai.
Come ci rimasi quando si presentò con i nostri tre bambini, mentre io credevo di averla tradita con tre donne diverse! Era proprio sapiente, non c’è che dire, e io, dopo aver riconosciuto che proprio per la sua intelligenza mi piaceva tanto, mi sono rassegnato a non comandarla, ma a chiederle di amarmi, dandole in cambio il mio amore. Sapete, nelle fiabe la parità tra maschi e femmine, tra mogli e mariti, tra principi ereditari e figlie di mercanti esiste davvero, anche se sono storie raccontate un secolo fa, come questa mia e di Caterina. Mi hanno detto che questa parità c’è di diritto, che ormai non c’è più bisogno di conquistarsela, come ha fatto Caterina viaggiando per l’Italia intera su quei brigantini snelli e veloci. Ma è proprio vero? (AG)
(Tratto da: Sorgente di meraviglie. Fiabe antiche e popolari nei diversi idiomi d'Italia. Volume I: Sicilia. A cura di Claudia Chellini e Adalinda Gasparini. Foschi Editore: Forlì 2018. ll principe commenta la fiaba di Caterina la sapiente, pp.118-119)

Credo che dopo il tramonto dell'utopia umanistica e rinascimentale la libertà della donna abbia trovato nelle fiabe un riparo tanto umile quanto solido e duraturo. Perché le fiabe, che non hanno testimoni diretti, nemmeno nelle generazioni che hanno preceduto quella del narratore, non servono al potere, e per questo non ne sono soggette.
Nel Cinquecento veneziano di Giovan Francesco Straparola troviamo una bellissima versione di questa fiaba, o favola, o novella che dir si voglia: la protagonista, avendo pregato a lungo per il ritorno del marito, ricorre alla magia nera e va a visitarlo in incognita dove si è fermato troppo a lungo. Il motivo del volo notturno a cavallo di un demone - ma qui vero e proprio diavolo fatto arrivare dall'inferno - potrebbe venire dalla Mille e una notte, e se Straparola, come è stato ipotizzato, ha passato qualche decennio nel Vicino Oriente per un incarico della Serenissima, potrebbe averlo conosciuto nella tradizione delle Mille e una notte, dove i demoni, convertiti all'Islam, servono i credenti proprio come la cavalcatura della sposa volante, che di sua iniziativa le procura le prove che presenterà al marito incredulo, e ai fratelli che la credono adultera. (Vedi, nel sito Psicoanalisi e favole Isabella e Teodosio, Le piacevoli notti, notte VII, favola I) (AG)


IngleseCappuccetto rosso
Bivio del compito possibile
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba






Chi ha sentito la versione originaria della fiaba, nella quale non arriva nessun cacciatore, che finisce con il lupo ben sazio nel letto della nonna, avendo senza rischio incorporato lei e Cappuccetto? La versione narrata alla corte del Re Sole da Perrault si conclude con un ammonimento alle fanciulle, a non cedere alle lusinghe dei corteggiatori che minacciano la loro virtù, specialmente di quelli garbati e gentili, che sono poi i più pericolosi. Ma questa valenza edificante e pedagogica non esaurisce il ricco senso della fiaba, che è una delle più note e rinarrate in Europa, sia nei libri di fiabe sia col cinema e i nuovi media. Cappuccetto, per il suo nome e l’indumento rosso che la caratterizza, e ancor più per il suo movimento nell’elemento femminile, può significare il bambino come la bambina, nella loro funzione di movimento, che non esce dalla sfera materna: la madre la invia dalla propria madre, il percorso è tutto compreso nel bosco, luogo di Madre Natura, e il lupo è qui nella sua funzione di belva divoratrice. Partendo dalla madre e andando dalla grande madre, passando per la natura selvaggia, apparentemente il compito dell’attante è possibile, facile. In realtà questa facilità dipende dalla possibilità di evitare l’incontro con la funzione divorante, incorporante, infine reinfetante, del materno stesso. Come tutti gli attanti del Bivio del compito possibile, Cappuccetto fa la sola azione autonoma che il suo orizzonte narrativo prevede: trasgredisce l’indicazione materna, incontrando così la minaccia che nel mondo materno idealizzato si misconosce.

Se poi pensiamo alla fiaba nella versione più diffusa, troviamo una conferma alla nostra suggestione interpretativa: senza l’intervento del cacciatore, che è la figura maschile capace di entrare nel bosco fornito di armi e conoscenze che gli consentono di trarne nutrimento e uscirne, la fiaba avrebbe l’esito fatale che è di Perrault. Il lupo ha divorato/reinfetato la generazione vecchia e quella giovane, doppio selvaggio e mortifero della madre civile e donatrice, e solo una seconda nascita, operata dalla figura paterna con quella specie di taglio cesareo consente a Cappuccetto di uscire, e al tempo di scorrere insieme alle generazioni. (AG)

Di questa fiaba esiste anche l'e-kamishibai, accessibile dalla carta della fiaba.



IngleseGiovannin senza paura
Bivio del compito possibile
Quadrante nord-est
Carta della fiaba


Italo Calvino, che si pone come ultimo anello di una lunga catena di narratori, scrive che …le fiabe sono vere. Sono nel loro insieme una spiegazione generale della vita, con la loro registrazione sempre ripetuta e sempre varia degli accadimenti umani. (Fiabe italiane, p. 15)
Apre la sua raccolta con questa fiaba, annotando che in questo caso particolare non cita le sue fonti perché l’ha rinarrata ispirandosi alle versioni popolari diffuse in tutta Italia.

Inizio questa raccolta con una fiaba per la quale, a differenza che per tutte le altre, non cito la versione che ho seguito, perché è diffusa si può dire in tutta l'Italia settentrionale e centrale in versioni molto simili e io mi sono tenuto liberamente alla tradizione comune. Non solo per questo mi piace metterla per prima, ma anche perché è una delle fiabe più semplici ed anche, per me, una delle più belle. Non fa una grinza, come il suo imperturbabile protagonista; si distingue dalle innumerevoli "storie di paure" a base di morti e di spiriti, perché dimostra verso il soprannaturale una tranquilla fermezza che dà tutto per possibile, senza sottostare alla soggezione dell'ignoto. (Ivi, p. 85-86)

Riconoscendo la tranquilla imperturbabilità di Giovannino al cospetto dell’ignoto, dobbiamo però riconoscere anche la sua totale ignoranza della propria ombra, o del suo posteriore. La versione più diffusa racconta che Giovannino una volta accettò di farsi tagliare la testa da qualcuno che gliela avrebbe riattaccata, ma siccome gliela rimise a rovescio si vide il sedere e morì per lo spavento. Non sappiamo perché Calvino non abbia proposto una riflessione sul terrore che il suo Giovannino prova di fronte all’ignoto rappresentato, o proiettato, dal suo stesso corpo. Gli fa paura da morire una cosa che è di tutti, e che i bambini conoscono bene. Aver paura anche della propria ombra è un modo per indicare una pavidità straordinaria, la condizione di qualcuno che ha paura di tutto, a differenza di Giovannino che prima del tragico finale non ha paura di nulla.

I bambini delle scuole elementari ai quali raccontavo questa fiaba si divertivano per il contrasto fra la tranquillità di Giovannino fra spettri e morti che cadevano dalla cappa del camino pezzo dopo pezzo e il fatto che alla fine muoia di paura vedendo la sua ombra o il suo sedere. Bambini che non passerebbero mai una notte in un castello stregato, e forse non si addormenterebbero senza una piccola luce accesa, non hanno però nessuna paura della loro ombra, e così si sentono rassicurati e ridono di gusto. (Per il lavoro di Adalinda Gasparini nella scuola, vedi anche la sezione Scuola, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole)
La nostra ombra e il nostro posteriore sono ciò che ci segue sempre, invisibile se non ci voltiamo mai indietro, e se pensiamo che non esista nulla di misterioso, da temere, l’irruzione improvvisa di questo ignoto, vale a dire dell’inconscio, ci annienta.
Quale bambino sarebbe disposto a lasciarsi tagliare la testa? Giovannino pare proprio un essere imperturbabile, e ascoltando la sua fiaba i bambini si vergognano delle loro paure,rassicurarsi quando sentono che lui muore per una cosa così naturale.
La predilezione di Italo Calvino per questo personaggio ci fa pensare a un ideale pedagogico per il quale la vita psichica si riduce alla coscienza, nonostante sia evidente, anche ignorando la psicoanalisi, che l’inconscio esiste, e determina in tanta parte la nostra vita, anche se, e soprattutto se, ne rimuoviamo i segnali e la percezione. Possiamo cercare di ignorare il perturbante (unheimliche) mistero della note, del sonno, dei sogni e degli incubi, dei fantasmi e dei morti che vengono a spaventarci, ma non vivremo mai nemmeno un giorno al quale non segua una notte, né muoveremo un passo senza la nostra ombra o il nostro didietro.

Abbiamo incluso in Fabulando questa versione di Giovannin senza paura per mettere in guardia dall’illusione pedagogica che porta certi genitori a cercar di convincere il loro bambino spaventato nella notte dicendogli semplicemente che non c’è nulla di cui aver paura. Affermazione che sembra realistica come Giovannino sembra coraggioso, ma molto lontana dalla realtà, perché la vita è piena di rischi e pericoli, per non pensare al terrore che proviamo dopo un incubo, alle fobie o agli attacchi di panico. Molto presto conosciamo l’esistenza della morte, dove affondano le radici di tutte le nostre paure.
Nel poema induista Mahabharata, in un dialogo sapienziale si chiede quale sia il miracolo più grande, e la risposta è il miracolo più grande è che noi sappiamo che potremmo morire in qualunque momento, e viviamo quasi come se fossimo immortali. La nostra dignità umana ha bisogno dello spazio tenuto aperto dalla parola quasi, perché il soggetto che non conosce questo spazio vive come se la morte e la paura non esistessero. Giovannino ignora la paura e la morte, per questo è imperturbabile, e per questo muore la prima volta che vede la sua ombra, vale a dire ciò che lo segue senza che lui lo sappia.

In una versione antica di questa fiaba, la prima pubblicata nel mondo, troviamo una chiave che ci consente di comprenderla meglio: fa parte della raccolta cinquecentesca Le piacevoli notti di Giovan Francesco Straparola (Flamminio senza paura, quarta storia della notte quinta, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Altre notazioni su Giovannin senza paura si trovano in questa pagina a proposito di Giovannino e la pelle d’oca, che appartiene allo stesso tipo ma comincia con una diversa ingiunzione e ha un finale diverso.

Giovannin senza paura si apre con l’ingiunzione del Bivio del compito possibile. Non ci sono attanti parentali che propongano nulla all’attante principale, ma consideriamo l’illusoria facilità di una vita priva di paura come dipendente dall'assenza del padre, della sua parola e della legge che incarna. La mancanza del padre ha come conseguenza l’assenza di limiti che porta Giovannino a vivere come se fosse privo di paura, mentrè è in realtà privo di pensiero. (AG)




IngleseI desideri ridicoli
Veliero della maledizione
Quadrante nord-est
Carta della fiaba



Questa fiaba entra a far parte di Fabulando anche se non vi sono genitori né figli, perché il tema della successione può essere rappresentato dalla relazione fra una figura magica, una divinità in questa versione, una fata in molte versioni popolari, che interpreta un personaggio potente come il genitore, e un personaggio debole, come il figlio.
Giove, sovrano dell'olimpo, si presenta a un povero taglialegna perseguitato dalla sfortuna, e gli garantisce che soddisferà tre dei suoi desideri. Come nella fiaba di Giovannino è rimossa la paura, qui è rimosso il rischio di poter realizzare qualunque desiderio, senza limitazione alcuna.
Il taglialegna torna dalla moglie e le dice cosa gli è successo, poi esprime la voglia di una salciccia, che subito gli appare nel piatto. La moglie si infuria contro di lui perché ha sprecato così un desiderio, e lui nella collera esclama: ti si attaccasse al naso! Non resta che l’ultimo desiderio, ma l’uomo si chiede se sia meglio diventare re con una regina in quelle condizioni,  o restare povero con una moglie graziosa. Se osserviamo la figura vediamo come la salsiccia costituisca una grottesca appendice fallica, che, causata dalla lite fra i due coniugi, sparisce grazie al loro accordo. Desideri sprecati, certo, ma forse tutt’altro che ridicoli.
E poi il desiderio, che nasce dalla mancanza, è realizzabile se alla mancanza succede un limite. Il tutto esclude il desiderio, anche nella sua magica realizzazione.
Forse per questo gioco fra una creatura dell'ultramondo, sia una fata o un'antica divinità, e un piccolo povero mortale, che dice del desiderio con una particolare finezza psicologica, Freud notò la storia abbastanza da citarla nella sua opera due volte nel 1919.
E se la rapida semplicità dei tre ridicoli desideri fosse illusoria, come quella dell’enigma della Sfinge, alla quale rispose Edipo? Come i desideri possono essere esauditi, ma non esauriti, così i segreti si lasciano svelare, ma solo nell'istante in cui si velano nuovamente. (AG)






IngleseCosì finì il tonto
Bivio del compito possibile
Quadrante sud-est
Carta della fiaba



Il tonto nelle fiabe ha due destini opposti, come l’attante privo di paura, e la differenza dipende dalla sua relazione col genitore: il suo destino è felice se il genitore, dopo aver inutilmente cercato di educarlo, lo caccia, infelice se il genitore, di solito, come in questa fiaba, la madre, fa di tutto per compensare la sua mancanza di buon senso con istruzioni precise, che nelle sue intenzioni sarebbero sufficienti a proteggerlo dai rischi della vita, e nella realtà diventano la sua condanna a morte, come in questo caso, o alla esclusione: è il caso di Vardiello, fiaba narrata da Basile nel Pentamerone, che per la sua bizzarria viene in possesso di un piccolo tesoro, ma che la madre pensa bene di far chiudere in manicomio per evitare che lo perda. Si confronti questa madre con la madre de La favola dell’orco, o col padre de Lo scarafaggio, il topo e il grillo. La soggettivazione, l’umanizzazione, possono avvenire felicemente anche con le premesse più sfavorevoli, a patto che l’attante protagonista si trovi a scegliere il suo cammino, sperimentando il rischio di perdere tutto, vita compresa.

La fiaba non è scioccamente ottimista, non dice che tutti possono crescere, ma che in qualunque condizione si può crescere, a patto che il soggetto si muova autonomamente, che scelga il proprio cammino, o il proprio rifugio, o il modo di portare a termine un compito. Dice solo che nessuna condizione sfavorevole è tale da escludere una via d’uscita, a meno che l’attante parentale non pensi di potersi sostituire al figlio quando questo appare incapace. Il genitore che cerca di rimuovere con la sua azione gli ostacoli che il figlio non sa affrontare rappresenta un genitore che non riconosce il proprio limite: non constatando il parziale fallimento della sua educazione non permette al figlio di cercare attraverso l’esperienza la sua propria via d’uscita dal luogo delle origini, per entrare nella vita adulta.

Nel caso del tonto ciò che manca è la consapevolezza della natura ambigua del linguaggio, perché il poverino manda a memoria ossessivamente le parole della madre e non si chiede quali siano le occasioni adatte a pronunciarle. In una ripetizione disperante viene picchiato per quel che dice, che sarebbe stato adatto in un’occasione diversa, ed è pronto a mandare a memoria le istruzioni di tutti, come quelle della madre, fallendo regolarmente. La morte gli viene dalla collera di un fabbro, umano discendente del dio del fuoco che forgia i metalli, figura maschile che significa l’abilità umana di trasformare la natura, opposta quindi al povero tonto che è totalmente dipendente dalla madre, intendendo la parola solo nel suo significato letterale. (AG)





IngleseFiore e Gambodifiore
Bosco dell'esilio
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba



Fiore e Gambodifiore, due bellissimi fratelli, sono cacciati di casa perché la matrigna non sopporta che siano così belli mentre sua figlia è brutta. Si racconta in questa storia che la madre naturale è morta e il padre si è risposato con una donna che perseguita i due ragazzi. Possiamo leggere questo inizio, comune a molte fiabe (pensiamo a Cenerentola), come la narrazione di qualcosa che è difficile da esprimere: la compresenza di sentimenti di amore e di aggressività nei confronti della figura genitoriale materna. Nella fiaba questo miscuglio viene separato e così agiscono da una parte un attante materno donatore, che all’inizio della storia muore, ma può tornare in forma di fata (proprio come in Fiore e Gambodifiore), e un attante materno persecutorio, che è quello che prende lo spazio narrativo e con il quale gli attanti filiali devono confrontarsi per poter diventare adulti e quindi autonomi, in una parola per poter raggiungere il loro lieto fine.

Nella nostra fiaba l’attante protagonista è femminile e l’ingiunzione è materna, siamo infatti nel quadrante sud ovest, e si tratta del Bosco dell’esilio perché è l’allontanamento violento dalla famiglia che dà il via all’avventura di Fiore e di suo fratello.
Ma perché i due vengono cacciati di casa? Cos’è che scatena questo evento, visto che entrambi sono belli fin dall’inizio? La storia ci racconta che un giorno accade qualcosa: mentre sono alla fontana a prendere l'acqua, i due ragazzi incontrano dodici fate che chiedono loro un po’ della focaccia che stanno mangiando. Allora Fiore ne fa dodici pezzi e li distribuisce alle fate, senza tenerne per sé o per il fratello neanche un bocconcino. Le fate ricambiano questa generosità facendo tre doni alla fanciulla: che le sboccino fiori sulle labbra ogni volta che parla, che le scendano cascate di perle d’oro ogni volta che si scioglie le trecce, che possa sposare il figlio del re. Se la madre buona è morta e la casa è in balia di una matrigna invidiosa, può accadere di incontrare un femminile materno potente, che può essere alleato o nemico. E la storia ci racconta che, se lo si onora, si può avere qualcosa di prezioso in cambio.

Quando infatti i due fratelli si trovano a vivere da soli, i fiori che sbocciano sulle labbra della fanciulla sono la loro fonte di sopravvivenza e il motivo per cui Fiore conosce il re che, affascinato dalla sua bellezza, le chiede di sposarlo. Ma Fiore non ha fatto ancora i conti con la matrigna e il suo lieto fine è ancora lontano. Proviamo a esplicitare quanto la fiaba mette in narrazione a questo proposito. Dicevamo prima del miscuglio di amore e aggressività che è presente nel rapporto con la figura materna. Se la madre buona morta e le fate rappresentano l’amore, la matrigna rappresenta l’aggressività. E se nella realtà in questa relazione è praticamente impossibile sbrogliare la matassa dei sentimenti, tanto sono intricati e uguali quelli dell’una e quelli dell’altra, nella fiaba la figlia è buona e la matrigna è cattiva e su di lei è collocata l’aggressività insita nel movimento con cui la figlia si stacca dalla madre. Perché se separarsi dalla madre, e dalla famiglia, è necessario per formarsi come soggetti capaci di trovare il proprio posto nel mondo, è vero però che questa separazione è dolorosa: significa distaccarsi anche dalla sensazione di sentirsi al sicuro e di avere qualcuno nel quale potersi rispecchiare. Certamente quel senso di protezione è ideale e quel rispecchiamento comporta l’adesione incondizionata ad un modello (quello materno) dal quale è vietato scostarsi, ma è ciò con cui la figlia è cresciuta, è ciò che conosce di sé e del mondo. Come rinunciarci?  Eppure la spinta ad allontanarsi e trovare la propria strada è irrefrenabile, e questo fa nascere nella fanciulla la percezione di un’aggressività connaturata a quel desiderio: deve seguirlo? deve  contrastarlo? E se da una parte la figlia sente il distacco come un atto aggressivo nei confronti della madre, dall'altra è come se proiettare quell’aggressività sulla figura genitoriale aiutasse la fanciulla a tollerare la difficoltà del distacco e le fornisse la spinta necessaria a uscire. Ecco, possiamo dire che la fiaba mette in narrazione questo complesso di sentimenti profondi e di solito senza parola. Dopo essere stata cacciata di casa, ma in procinto di sposare il re, Fiore subisce un’altra angaria della matrigna e finisce rapita dalla Sirena del mare, mentre la sorellastra brutta prende il suo posto: Fiore non è ancora pronta per l’autonomia e deve vivere per un tempo con un essere magico e potente che la vuole tutta per sé. Ancora una volta si tratta una figura di tipo materno, e infatti in altre versioni dialettali della fiaba, fra le quali Cicerone (vedi in Internet Archive), raccolta a Palermo da Giuseppe Pitrè, la fanciulla si rivolge alla Sirena chiamandola esplicitamente “madre”.

Perché la storia possa giungere ad un finale felice, è necessario allora che si attivi Gambodifiore che di nuovo fa da tramite fra la sorella e il re. Di nuovo i doni delle fate si rivelano utili perché le perle d’oro che scendono dai capelli di Fiore sono il cibo impossibile di cui si nutrono le papere del re che, come le comari, tornando a palazzo parlano della bellezza della fanciulla. È così che il re viene a sapere cosa è accaduto e libera Fiore, non solo grazie al fatto che affronta coraggiosamente la Sirena del mare, ma anche perché la fanciulla gli dice come fare. Soffermiamoci un poco su questo punto: lui è l’esecutore materiale della liberazione di Fiore e senza di lui, la fanciulla sarebbe ancora là, sulla riva del mare, prigioniera della Sirena. Ma lui non saprebbe da dove cominciare se lei non gli fornisse le giuste indicazioni. La fiaba racconta che quando una fanciulla si trova a dover affrontare un materno persecutorio, soprattutto se è così potente come la nostra Sirena, un attante maschile può agire per aiutarla, lasciandosi però guidare da lei che deve attingere alla sua conoscenza per affrancarsi, e vivere finalmente felice e contenta con il suo sposo. (CC)





IngleseLo scarafaggio, il topo e il grillo
Bosco dell'esilio
Quadrante nord-est
Carta della fiaba


Ogni fiaba può essere letta a diversi livelli, e a ogni livello un senso si svela. Può essere interpretata in chiave psicoanalitica, sia freudiana, sia junghiana, sia kleiniana, sia lacaniana. Sembra docile all’interpretazione, con l’umiltà di una forma secolare che all’entusiasta ermeneuta si presenta come se fosse sempre stata in attesa di quella particolare interpretazione. Non c’è alcun danno possibile, perché la straordinaria vitalità di questa forma narrativa non ha alcun rapporto di dipendenza dalle interpretazioni, e ogni lettura può avere un senso se si esercitano le proprie competenze, più o meno ampie, senza essere troppo sicuri del proprio esercizio e della propria teoria di riferimento. Chi tenti di costringere la complessità della fiaba in un’interpretazione, illudendosi di esaurirne il senso, perde la fiaba stessa, che scivola via fra le maglie dell’esercizio ermeneutico, e scompare. Per la fiaba, come per la poesia e il sogno notturno, occorre percepire la loro fonte segreta, che nel momento in cui rivela la propria presenza si sottrae all’interpretazione (vedi anche: Adalinda Gasparini, Se le metafore giocano. Fiaba e psicoanalisi, 2010).

Sperando di resistere a questa tentazione, che per impadronirsi del senso lo perde, proponiamo la nostra lettura de Lo scarafone, lo sorece e lo grillo, una fra le fiabe più belle della raccolta di Basile, certo la più esilarante.

Si racconta di un mercante con un solo figlio, così sciocco e perdigiorno che gli ha già consumato metà del patrimonio, fra giochi d’azzardo, osterie e donne di malaffare, che lo prendono in giro e gli spillano quattrini. Dopo aver cercato di fargli entrare in testa un po’ di buonsenso con discorsi assennati, il padre lo manda al mercato di Salerno con cento ducati, perché compri dei vitelli con i quali cominciare un allevamento che promette di essere tanto redditizio da arricchirlo al punto che potrà anche comprarsi un titolo nobiliare.

La prima volta Nardiello, il nostro attante protagonista, si mette in cammino, ma poco lontano da casa vede una fata che si diverte con uno scarafaggio che suona una chitarrina meglio dei più acclamati musicisti del suo tempo. Preso dal desiderio di averlo, Nardiello lo ottiene per cento ducati, e certo di aver fatto un buon affare lo mostra al padre, che non vedendo altro che un insetto non gli dà nemmeno il tempo di descriverne il virtuosismo, e dopo avergliene dette di tutti i colori gli dà altri cento ducati. Anche stavolta però Nardiello si innamora di un virtuoso topolino che danza con perizia e grazia impareggiabili, e la fata glielo cede per cento ducati, e di nuovo il padre non vede altro che un sorcio, ma gli dà per la terza volta la stessa somma per comprare bestiame da allevamento, facendogli un’altra predica e minacciandolo di farlo pentire d’esser nato se ripeterà lo stesso errore. Ma anche questa volta Nardiello compra da una fata un animaletto, un grillo canterino che ha una voce meravigliosa, e il padre passa dalle parole ai fatti e lo bastona senza pietà. L’educazione è fallita, e Nardiello si trova costretto a lasciare la casa e si mette in cammino così, delegittimato dal padre, con la sola ricchezza dei suoi tre artisti in miniatura.

Quando sente che un re ha promesso la figlia, che non ride da sette anni, a chi sia in grado di farla ridere, tenta la prova, anche se il re gli dice che se fallirà perderà la testa. La performance dello scarafaggio musicista, del topo ballerino e del grillo canterino provoca il riso della principessa melanconica, e la costernazione del re, che non vuole un genero così miserabile. Gli impone quindi un’altra prova: se non consumerà il matrimonio in tre giorni, dovrà morire.

N’aggio paura”, disse Nardiello, “ca fra sto tiempo sono ommo da consummare lo matremonio,  figliata e tutta la casa toia!” (e-book, p. 45)

Ma non accorgendosi che il re per tre sere alloppia il suo vino, Nardiello dorme e invece del matrimonio con la principessa gli tocca la fossa dei leoni. Vedendosi in punto di morte apre la scatolina dove tiene lo scarafaggio, il topo e il grillo, e dice loro che vuole lasciarli liberi.

L’arte cura la malinconia: da sempre la musica è considerata un rimedio contro l’antico male, che corrisponde in qualche modo all’odierna depressione, e del resto l’arteterapia gode tutt’oggi di un certo credito. Nella nostra fiaba sono i tre minuscoli artisti a permettere al disadattato scialacquatore Nardiello di riuscire dove tutti gli altri avevano fallito, anche se questo lo ha portato nella fossa dei leoni. Insignificante per il senso comune, che un ministro italiano ha personificato dichiarando che con Dante non si mangia, sottovalutata dal re, rappresentante della legge, l’arte può apparire trascurabile, nonostante sia ciò che sopravvive attraverso secoli e millenni, quando dei sovrani e dei mercanti che non ne hanno riconosciuto il valore si è persa completamente la memoria. Ma anche chi la possiede, come Nardiello che tiene i suoi magici aiutanti chiusi in una scatolina, non ha nessuna garanzia di successo. Fino a quando, racconta Basile in questa magnifica fiaba, non libera l’arte stessa, perché viva oltre la sua morte. Non più posseduti da una fata o da un vagabondo condannato a morte, lo scarafaggio, il topo e il grillo per la prima volta parlano, per dire a Nardiello che intendono ricompensarlo, perché li ha acquistati dando tutto ciò che aveva, li ha custoditi e nutriti amorevolmente, e infine ha fatto loro dono della libertà. Detto questo, ripetono la loro performance, e se prima hanno curato la malinconia, ora ammansiscono i leoni, che si immobilizzano, incantati. La loro arte ripete la magia di Orfeo, l’artista per eccellenza nella mitologia greca.

Mentre i leoni stanno fermi come tante statue, gli animaletti fanno evadere Nardiello, lo guidano in un rifugio sicuro, e gli chiedono cosa possono fare per lui. Se il re ha fatto sposare la figlia a qualcuno, Nardiello vorrebbe che anche a lui fosse impedito di consumare il matrimonio, che consumerebbe la sua stessa vita.

Qui comincia l’impresa scatologica dei tre animaletti fatati, la cui magia è fatta di astuzia e di azioni che in qualche modo corrispondono alle loro abilità fisiche, di restare invisibili grazie alle loro piccole dimensioni, di non rifuggire dallo sporco, di rodere, e allo stesso tempo di ricorrere alla loro perizia artistica.

Siccome il re ha fatto sposare la figlia con un gran signore tedesco, che dopo la festa di nozze si addormenta della grossa, lo scarafaggio gli fa da supposta:

…’n forma tale che le spilaie de manera lo cuorpo, che potte dicere co lo Petrarca:“d’amor trasse inde un liquido sottile”.

La zita, che ’ntese lo squacquerare de lo vesenterio, “l’aura, l’odore, il refrigerio e l’ombra”, scetaie lo marito. (Ibid., p. 58-60).

Lo scarafaggio guastatore trasforma l’alcova regale in un nauseabondo palcoscenico, e a niente vale nella seconda notte la difesa dello sposo, che barrica l’orifizio anale con una trincea di fasce, panni e mutande. Se lo scarafaggio non può fare lo stesso servizio, il topo provvede a rosicare la trincea aprendogli un varco, e l’insetto:

fece n'autra cura medecinale de manera che fece no maro de liquido topazio e l'arabi fumme 'nfettarono lo palazzo. Pe la quale cosa scetatose l'ammorbata zita ed, a lo lummo de na lampa visto lo delluvio citrino c'aveva fatto deventare le lenzole d'Olanda tabiò de Venezia giallo onniato, appilandose lo naso foiette a la cammara de le zitelle e lo nigro zito, chiammanno li cammariere, se fece na longa lammentazione de la disgrazia soia, che con fonnamiento accossì lubreco aveva commenzato a fermare le grandezze de la casa soia. (Ibid., pp. 64-66)

Per la terza notte lo sposo sbarra l’entrata con un tappo di legno fatto su misura, e si prepara a vegliare per non perdere il controllo. Ma il grillo col suo canto irresistibile lo addormenta, e se non c’è modo di rimuovere l’ostacolo il topo pensa bene di andare a intingere la coda in un vaso di mostarda, per poi passarla e ripassarla sotto il naso del malcapitato tedesco:

…lo quale commenzaie a sternutare accossì forte che sbottaie lo tappo co tanta furia che, trovannose votato de spalle a la zita, le schiaffaie 'm pietto accossì furiuso che l'appe ad accidere.
A le strille de la quale corze lo re e demannanno che cosa aveva, disse che l'era stato sparato no pedardo 'm pietto. Se maravigliaie lo re de sto spreposeto, che co no pedardo 'm pietto potesse parlare, ed, auzato le coperte e le lenzole, trovaie la mena de vrenna e lo tappo de lo masco, c'aveva fatto na bona molegnana a la zita, si be' non saccio che le facesse chiù danno o lo fieto de la porvere o la botta de la palla.
(Ibid., pp. 78-80)

Il re scaccia il gran signore tedesco, e pensando che questo disastro è derivato dalla sua ingiusta condanna a morte di Nardiello, si dispera. Lo consolano gli animaletti, che il sovrano pentito ascolta ben volentieri quando gli rivelano che il legittimo pretendente è vivo e che lo possono condurre da lui. Lo trasformano in un bel giovane, degno sposo della principessa e da allora vivono tutti felici e contenti, anche il padre mercante che viene invitato a condividere il lieto fine. Possiamo pensare che se lo merita, perché ha riconosciuto il fallimento della sua educazione, costringendo il figlio a trovare una strada che lui non avrebbe potuto nemmeno sognare.

Basile dedica oltre un terzo della fiaba all’operazione scatologica e bellica dei tre animaletti, nella quale agiscono per amore di chi li ha amati fino alla fine, portandolo a vincere tutti i suoi avversari. L’arte vince il comune buon senso, personificato dal padre di Nardiello e la legge personificata dal re. I tre minuscoli artisti mettono in fuga il gran signore tedesco, sostenuto da un seguito di servitori, medici e consiglieri, anche militari – il tappo è suggerito da un giovane bombardiere. Per chi sia disposto a riconoscerlo, l’arte vince il buon senso e la prepotenza: accade in questa fiaba, e torna ad accadere ogni volta che la leggiamo.

L'Italia possiede ne Lo cunto de li cunti o Pentamerone del Basile il più antico, il più ricco e il più artistico fra tutti i libri di fiabe popolari; com’è giudizio concorde dei critici stranieri conoscitori di questa materia. (Vedi in: Basile 1974, vol. I, p. XXVII)

Così Benedetto Croce introduceva nel 1925 la sua traduzione, la prima in italiano, e tutt’oggi la più bella, del capolavoro di Basile. L’edizione del 1974 era arricchita da un’introduzione di Italo Calvino, che non aveva mai letto l’originale di Basile: “Del resto è d’un libro di Basile-Croce che sto parlando, perché non conosco il primo che attraverso il secondo”. (Ivi, vol. I, p. V). Presentando le sue Fiabe italiane, uscite nel 1956, Calvino definiva Lo cunto de li cunti come

…il sogno d'un deforme Shakespeare partenopeo, ossessionato da un fascino dell’orrido per cui non ci sono orchi né streghe che bastino, da un gusto dell’immagine lambiccata e grottesca in cui il sublime si mischia col volgare e il sozzo. (Calvino 1968, vol. I, p. 7).

L’accostamento a Shakespeare coglie la stupefacente abilità linguistica di Basile, che raggiunge uno dei suoi apici nella fiaba di cui stiamo parlando, proprio nell’impresa scatologica dei tre animaletti fatati. Giocoliere della lingua e delle narrazioni, che muove nella stessa pagina il lessico militare, scatologico, amoroso e i versi di Petrarca, provocando la risata e l’ammirazione del lettore, Basile lancia e riprende i suoi attrezzi alla perfezione, e il piacere che ci offre mette in scena le infinite risorse della lingua.

Lo cunto de li cunti è opera partenopea, ma se la lingua nella quale è stato scritto è pressoché incomprensibile oggi, il suo influsso sull’immaginario fiabesco italiano, europeo e mondiale ne attesta il valore universale. Quanto alla qualifica di deforme, la possiamo accettare se la attribuiamo all’essere umano in genere, nella cui vita il sublime e il sozzo non solo si mescolano regolarmente, ma affondano le radici nello stesso terreno. Ed è proprio questa irriducibile complessità linguistica e narrativa ad avvicinare Basile a noi, quando la nostra identità appare indebolita, perché nessuna ideologia salvifica pare più in grado di puntellarla.

Potremmo somigliare proprio a Nardiello e ai tanti attanti fiabeschi che si devono mettere in cammino privi di qualunque delegittimazione, quando accettiamo la ferita narcisistica inferta dalla disillusione sulla nostra possibilità di padroneggiare noi stessi. L’io non è padrone in casa propria, come ci ha insegnato Freud, ma fuori dalla casa delle origini ci si può farci innamorare di una bambola, come la protagonista della Bambola Popoavola, o di tre animaletti artisti. Ci si può trovare a correre il rischio radicale di seguire il proprio desiderio, che raramente si presenta in accordo col buon senso, e appare radicalmente divergente dalle ingiunzioni parentali e sociali. Ma è attraverso il desiderio che emerge il gusto della vita.

Il sognatore scrittore Giambattista Basile non ha conquistato un trono come Nardiello, né la sua arte gli ha reso facile l’esistenza. Ma la sua creatura, la sua raccolta di fiabe, dotata com’è della magia dell’arte, viaggia nello spazio e nel tempo, coprendo distanze superiori a quelle che il loro autore avrebbe mai potuto sognare.

Riconoscere la magia dell’arte significa comprendere che l’arte è nella cultura umana il germoglio, la sola forma di immortalità alla quale l’uomo possa aspirare, che richiede la rinuncia al possesso della propria stessa creatura (vedi anche il Lago della generazione).

Solo nell’arte succede ancora che un uomo consumato da struggenti desideri crei qualcosa di affine alla realizzazione di essi, e che questa finzione – grazie all’illusione artistica – abbia il potere di evocare le stesse reazioni affettive della realtà. Si parla a ragione di magia dell’arte e si paragona l’artista a un mago. E forse questo paragone è più significativo di quando aspiri ad essere. (Freud, 1912-13, p. 96)

Grazie a questa magia i cunti di Basile vivono ancora, con Nardiello, la principessa, il re e il mercante felici e contenti, senza dimenticare lo scarafaggio chitarrista, il topo ballerino e il grillo canterino. (AG)






IngleseGiovannino e la pelle d'oca
Bosco dell'esilio
Quadrante nord-est
Carta della fiaba



La prima versione di questa fiaba fu pubblicata la prima volta a Venezia nel Cinquecento, nella raccolta di fiabe e novelle Le piacevoli Notti. È la quinta storia della quarta Notte, e l'abbiamo intitolata Flamminio senza paura. Così apre il racconto l'autore della raccolta, Giovan Francesco Straparola:

In Ostia, antica città non molto lontana da Roma, sí come tra volgari si ragiona, fu già un giovane, piú tosto semplice e vagabondo che stabile ed accorto, e Flamminio Veraldo era per nome chiamato. Costui piú e piú volte aveva inteso che nel mondo non era cosa alcuna piú terribile e piú paventosa de l’oscura ed inevitabile morte, perciò che ella, non avendo rispetto ad alcuno, o povero o ricco che egli si sia, a niuno perdona. Laonde pieno di maraviglia, tra sé stesso determinò al tutto di trovare e vedere che cosa è quello che da’ mortali morte s’addimanda.

Flamminio parte in cerca della morte, e quando stremato per il lungo cammino incontra una brutta vecchia crede che sia la morte, invece si tratta della vita. Sentendo la sua richiesta, di conoscere la morte, la brutta vecchia vita gli taglia la testa, e poi gliela riattacca volta all’indietro, come nella tradizione ricordata da Calvino.

Onde Flamminio, guattandosi le spalle, le reni e le grosse natiche e scolpite in fuori, che per a dietro vedute non aveva, in tanto tremore e pavento si puose, che non trovava luoco dove celare si potesse, e con dolorosa e tremante voce diceva alla vecchia:
– Ohimè, madre mia, ritornatemi com’era prima, ritornatemi per lo amore de Iddio, perciò che io non vidi mai cosa piú diforme né piú paventosa di questa. Deh, removetemi vi prego da questa miseria, nella quale inviluppato mi veggio.

Dopo averlo lasciato bollire nel suo brodo per qualche tempo, la cara vecchia vita gli ristacca e gli riattacca la testa volta in avanti, e Flamminio:

avendo veduta la paura e per isperienza provato quanto brutta e paventosa era la morte, senza altro commiato prendere dalla vechiarella, per la piú breve e ispedita via ch’egli seppe e puoté ad Ostia se ne ritornò, cercando per lo innanzi la vita e fuggendo la morte, dandosi a miglior studi di quello che per lo a dietro fatto aveva.

Noi conosciamo la paura da quando sappiamo che esiste la morte, quindi smettiamo di cercarla. La morte, insieme alla nascita, è la sola cosa che riceviamo senza cercarla. Questa fiaba può essere letta come uno splendido flash, per chi voglia scorgere la realtà umana che illumina, anche sulla tendenza a correre rischi concretamente inutili, a varcare confini rischiando la vita.
Possiamo perdere la vita cercando la morte, ma quel che dobbiamo incontrare per vivere è il senso del limite. Vedere la morte vicina, percepirne il terrore, può costituire una spinta vitale a dedicarsi a migliori studi, a faccende più promettenti, come accade a Givannino/Flamminio.

La versione cinquecentesca della fiaba è la miglior introduzione alla variante popolare della storia variante altrettanto popolare, che presenta motivi analoghi, come la permanenza notturna nel castello abitato da fantasmi dove tutti quelli che hanno, presente in tutta Europa, che qui proponiamo nella versione di Wilhelm Grimm, pubblicata nel 1818: Märchen von einem, der auszog, das Fürchten zu lernen. Come il Giovannino/Flamminio di Straparola  qui l’attante protagonista, ignorando la paura e la morte, si mette in cammino per cercarla, mentre il Giovannino della versione rinarrata da Calvino semplicemente vaga per il mondo, senza una meta. A differenza degli altri, il Giovannino di Calvino non ha paura, non conosce la morte, e non si rende conto che gli manca qualcosa di talmente importante che deve cercarlo, senza mai smettere. Al Giovannino di Grimm non basta nemmeno sposare la figlia del re: nella sua regale condizione continua a lamentarsi perché non conosce la pelle d’oca, il brivido che attesta la percezione di qualcosa di unheimlich, intimo ed estraneo allo stesso tempo, come il rimosso, sia la propria ombra, sia il proprio posteriore. Come la vita, la brutta vecchia vita nella favola cinquecentesca, è una figura femminile a fargliela sperimentare, con un colpo altrettanto magistrale, per quanto più semplice e niente affatto magico.
La principessa, come si racconta, era comprensibilmente infastidita dal marito che si lamentava di continuo per il desiderio di provare la pelle d’oca, e la sua cameriera provvide degnamente:

Allora la cameriera le disse: «Proverò ad aiutarlo ad imparare cos'è la pelle d'oca». Andò giù al ruscello che scorreva attraverso il giardino e si fece portare un secchione pieno di ghiozzi.  La notte, quando il reuccio dormiva, sua moglie tirò via la coperta e gli versò addosso il secchione pieno d'acqua fredda e di ghiozzi, così che i pesciolini gli si dimenavano intorno.
Egli si svegliò e gridò: «Ah, che pelle d'oca, cara moglie! Sì, adesso so cos'è la pelle d'oca!».

Così finisce la favola, di cui si presenta nell’e-book la traduzione italiana fatta in carcere da Antonio Gramsci, non con le nozze regali, perché il desiderio che ha messo in movimento il protagonista era sperimentare la paura, non sposare la figlia del re. Il lieto fine è la realizzazione del desiderio che ha messo in moto l’attante protagonista, e con lui il racconto, in ogni fiaba.
Nella versione di Grimm vale la pena osservare che quando l’attante protagonista sta per entrare nel castello stregato chiede e ottiene dal re alcuni strumenti: del fuoco, un tornio e un banco da falegname col coltello. Forgiare i metalli, costruire strumenti, piegare la materia per costruire utensili, armi, recipienti, è l’atto fondante della civiltà umana. Giovannino qui chiede e ottiene di essere fornito degli strumenti stessi della cultura, usando i quali riuscirà a contenere e sconfiggere le forze sovrumane e mortifere del castello stregato.

Chi ignora il rimosso, chi non sa che qualcosa lo segue, muovendo gli stessi suoi passi, anche se non ne sa nulla, come il Giovannino della versione scelta da Calvino, soccombe alla sua prima incursione, nella lacerazione che il reale innominabile produce nel continuum dell’esperienza del soggetto. E’ la stessa lacerazione dell’incubo notturno, che ciascuno di noi sperimenta senza averlo scelto, e senza poterlo ricusare.
Se Calvino si pone, scegliendo e commentando come abbiamo visto il suo Giovannino come apertura della sua raccolta, possiamo dire che la sua posizione punta a un rafforzamento della rimozione. Raccontare ai bambini questa fiaba li allieta perché loro, che non entrerebbero mai di notte e da soli in un castello infestato dai fantasmi, né accetterebbero di farsi tagliare la testa, anche se chi lo propone garantisce che gli verrà riattaccata senza danni, sono superiori a Giovannino non avendo affatto paura della propria ombra.
La versione di Wilhelm Grimm, e tutte le versioni popolari che le somigliano, come la favola cinquecentesca che abbiamo ricordato, raccontano invece che la paura, il terrore che ha la morte come comun denominatore, non solo è legittimo, ma necessario. (Vedi anche: Adalinda Gasparini, La fiaba, la morte, la paura: un fuoco, un tornio, un banco da ebanista, 1994)


Questa fiaba ha come ingiunzione il Bosco dell'esilio perché il cammino di Giovannino comincia quando il padre lo caccia di casa delegittimandolo.
Figura nel quadrante nord-est perché sono maschili sia l'attante protagonista che la figura genitoriale che lo misconosce e lo esilia costringendolo a partire da casa. (AG)






IngleseLa fiaba dell'orco
Bosco dell'esilio
Quadrante sud-est
Carta della fiaba



C’è in questa fiaba, la prima de Lo cunto de li cunti, un giovane sciocco e perdigiorno, un po’ fratello  dell’attante protagonista della fiaba umbra Così finì il tonto, un po’ di Nardiello de Lo scarafaggio, il topo e il grillo, e un po’ di Pietropazzo. Mentre loro sono figli unici, lui ha sei sorelle, che, non avendo dote, non possono maritarsi, e nonostante la madre gliene dica di tutti i colori non combina nulla di buono, tanto che lei un giorno lo caccia di casa a bastonate. L’ingiunzione è quindi il Bosco dell’esilio, nel quadrante sud-est.


Anche la fiaba umbra si trova nello stesso quadrante, ma comincia con l’ingiunzione del Bivio del compito possibile, perché il tonto non viene cacciato dalla madre, che gli assegna un compito semplice mettendogli in bocca le parole perché non combini guai. Senza mai incontrare una figura paterna, magica o regale, che lo spinga nella vita, il povero tonto alla fine muore, come Giovannin senza paura al quale nessun compito sembrava difficile o spaventoso. Anche Pietropazzo ha una madre che non perde la speranza che il figlio faccia una buona pesca, ma non cerca di istruirlo, e lui, incontrando un aiutante magico e un re che lo condanna a morte, si ritrova finalmente bello a sposare la principessa. Nardiello invece un padre ce l’ha, mentre al posto della madre incontra tre fate, alle quali dà tutto ciò che ha per comprare gli animaletti magici; scacciato dal padre che non lo sopporta più, conquista e perde la principessa come Pietropazzo, e come lui viene condannato a morte dal re, ma finalmente diventa bello e sposa la principessa.


Tontonio, così abbiamo chiamato il protagonista de Lo cunto dell’uerco nella nostra traduzione, fugge da casa sua per evitare che la madre lo ammazzi di botte, e non si ferma finché non si trova davanti a un orco. Ma non è proprio l’orco cannibale delle fiabe più famose, è piuttosto una creatura ultramondana, discendente isolato dei fauni e dei satiri che popolavano le terre incolte nell’antichità, messi da parte con la netta divisione fra angeli e diavoli, rispettivamente buoni, da seguire, e cattivi, da fuggire. Nelle fiabe vivono ancora, uno di loro, urbano, un po’ credulone, pieno di tenerezza paterna e amico delle fate, si trova in Violetta; qui ne abbiamo un altro, più selvatico, per l’aspetto grottesco e per la sua dimora lontana dalla città, ma altrettanto propizio all’attante protagonista.

 

Era chisso naimuozzo e streppone de fescena, aveva la capo chiú grossa che na cocozza d’Innia, la fronte vrognolosa, le ciglia ionte, l’uecchie strevellate, lo naso ammaccato co doi forge che parevano doi chiaveche maestre, na vocca quanto no parmiento, da la quale scevano doi sanne che l’arrivavano all’ossa pezzelle, lo pietto peluso, le braccia de trapanaturo, le gamme a vota de lammia e li piede chiatte comm’a na papara: ’nsomma pareva na racecótena, no parasacco, no brutto pezzente e na malombra spiccecata, c’averria fatto sorreiere n’Orlanno, atterrire no Scannarebecco e smaiare na fauza pedata. Ma Antuono, che non se moveva a schiasso de shiónneia, fatto na vasciata de capo le disse: «  A Dio messere, che se fa? Comme staie? Vuoie niente? Quanto nc’è da ccà a lo luoco dove aggio da ire? ». L’uerco, che sentette sto trascurso da palo ’m perteca, se mese a ridere e, perché le piacquette l’omore de la vestia, le disse: «  Vuoi stare a patrone? ». E Antuono leprecaie: « Quanto vuoie lo mese? »; e l’uerco tornaie a dire: « Attienne a servire ’noratamente, ca sarrimmo de convegna, e farraie lo buono iuorno » (e-book, pp. 12-14).

 

A servizio dell’orco Tontonio non fa altro che mangiare, e diventa molto grasso, ma dopo due anni gli prende la nostalgia di casa, e allora dimagrisce e deperisce paurosamente. Incapace di procurarsi di che vivere, noncurante della miseria della madre e delle sei sorelle, ora che il padrone lo nutre senza farlo lavorare, Tontonio prova un sentimento che lo fa soffrire. L’orco comprende cosa gli manca e nel lasciarlo andare gli regala un somarello, ordinandogli però di non dire “Arre cacaure” finché non arriva a casa. L’orco dà un ordine sapendo che Tontonio non obbedirà, e infatti, poco lontano dal suo padrone pronuncia la formula magica: l’animale fatato evacua perle, rubini, smeraldi e diamanti in quantità.


Incapace di distinguere fra quel che si deve dire e quel che si deve tacere, come di lavorare per vivere e di obbedire a un ordine, Tontonio si fa sostituire da un taverniere l’animale magico, fratello dell’asino magico che nella fiaba di Pelle d’asino provvedeva alle spese del re padre dell’attante protagonista. Arrivato dalla madre le promette una ricchezza inesauribile, ma la povera bestia non reagisce alla formula magica, e alle bastonate risponde con un’evacuazione che riempie di escrementi tutta la casa. Preso di nuovo a bastonate, Tontonio scappa e arriva di corsa dall’orco, che lo rimprovera senza mezzi termini ma lo riprende a servizio come la prima volta. Tontonio di nuovo ingrassa, ma dopo un anno torna a dimagrire per la nostalgia, finché l’orco lo rimanda a casa con un tovagliolo, ordinandogli di non dire, se non quando sarà a casa dalla madre, le parole “Aprete” e poi “Sèrrate tovagliuolo”. Ancora una volta Tontonio pronuncia la formula magica e scopre che il tovagliolo fornisce in abbondanza cibi prelibati e preziose stoviglie, ma si fa di nuovo infinocchiare dallo stesso taverniere, e tornando dalla mamma non può mostrarle altro che un comune tovagliolo. Delusa e incollerita la madre lo caccia di casa ordinandogli di non rimetterci più piede, e Tontonio torna dal suo padrone, che lo redarguisce come merita. E ancora la storia si ripete, ingrassa per tre anni senza far nulla, poi deperisce per la nostalgia, e di nuovo l’orco lo lascia andare con un terzo dono, avvertendolo che è l'ultimo:


«Portate chessa pe memoria mia, ma guardate che no decisse " Auzate, mazza", né "Corcate, mazza", ca io non ce ne voglio parte co tico» (ibid., p. 44).


Non tiene un contegno diverso col taverniere, al quale consegna il terzo dono magico dandogli come le altre volte lo stesso ordine che ha ricevuto dal suo padrone, ma solo la prima parte. Tontonio ha imparato che ci sono cose da non dire, e questo è determinante per la sua sorte: convinto di potersi impadronire del terzo tesoro, il taverniere si trova invece sotto una gragnuola di colpi e non può far altro che andare da Tontonio a supplicarlo di fermare quella mazza indiavolata. Ma il nostro attante protagonista non dice "Corcate, mazza" finché non gli vengono restituiti l’asino e il tovagliolo magici, con i quali torna a casa, fa una bella dote alle sorelle che così possono sposarsi, consola la mamma con tanta ricchezza e da allora vive felice e contento.

Il motivo dei tre oggetti magici è molto popolare in Italia e in Europa, mentre questo orco "brutto de facce e bello de core" (ibid, p. 32), è frutto della genialità di Basile, che unisce in sé la freschezza e la vivacità delle fiabe popolari e l’arte del letterato.

Difficile non cedere alla tentazione di interpretare i tre oggetti magici collegandoli alle fasi libidiche descritte da Freud, con una sola differenza: il tovagliolo, che rimanda alla fase orale, segue il ciuchino cacadenari, che rimanda alla fase anale. Interpretando il bastone come simbolo fallico, osserviamo che solo quando possiede questo oggetto magico Tontonio sa difendere quel che è suo, recupera quel che aveva perduto e provvede largamente alle necessità sue e della sua famiglia. In questa chiave si potrebbe interpretare il finale, che non comprende né la conquista di un trono né le nozze, ma un felice ritorno con la madre, finalmente orgogliosa del figliolo che per tre volte aveva cacciato a bastonate. Al bastone della madre, al suo potere, subentra il bastone del figlio, con reciproca soddisfazione, come se il passaggio dalle fasi orale e anale alla fase fallica aprisse una quieta latenza, lasciando ad altre storie obbiettivi più ambiziosi. Questa interpretazione, convincente ma piuttosto meccanica, può valere per tutte le fiabe che contengono i tre oggetti, solo il terzo dei quali, bastone o randello, permette di superare la condizione di estrema povertà dell’attante protagonista.

Nella versione di Basile però i tre oggetti, che si vogliano o meno leggere come relativi alle tre fasi dello sviluppo libidico, sono il tessuto sul quale è ricamata la relazione fra Tontonio e l’orco, brutto di fuori e bello di dentro. Si tratta di uno straordinario educatore, figura paterna dotata di una pazienza, un intuito e una generosità irrealistici quanto la pazienza di Griselda nella centesima novella del Decameron, della quale diciamo qualcosa a proposito della fiaba dell’Augel Belverde. Come psicoanalista sarei tentata di riconoscere nell'etica dell'orco qualcosa di psicoanalitico: conosce e tollera la coazione a ripetere, accoglie chi gli si trova di fronte, lo nutre e lo lascia andare quando il suo desiderio lo porta ad allontanarsi. Forzando l’interpretazione si potrebbe dire che gli oggetti magici di cui fa dono a Tontonio ricordano l’efficacia della relazione transferale, che permette di fare esperienze che nella casa dell’origine non sono state possibili. Transferalmente l’orco è sia maschio che femmina, paterno nella misura in cui dà ordini e mette Tontonio davanti alla sua dabbenaggine e alle conseguenze negative che implica, materno per il cibo che dà generosamente come una madre al suo lattante. L’orco rispetta i tempi di Tontonio, comprende i suoi bisogni, e gli permette di formarsi in sei anni come soggetto, lasciando che mangi quanto vuole senza far nulla, finché non emerge la nostalgia per la sua casa che supera il desiderio di mangiare e oziare senza limiti.


Quanto alla bruttezza, proprio per questo l’orco potrebbe somigliare all’analista, che non è bello come nessuna delle figure rassicuranti che vivono nella città regolata dal comune buon senso, e perché ogni movimento del paziente in analisi esige una disillusione che lo fa soffrire. In questo senso, la domanda insensata di Tontonio, che chiede all’orco quanto vuole per prenderlo al suo servizio, potrebbe invere avere il senso del pagamento spettante all'orco. Lo psicoanalista può ben essere brutto quanto l’orco, ogni volta che nel corso di questo solitario lavoro in coppia il paziente si trova davanti a uno specchio nel quale vede qualcosa di tanto brutto che ha fino a quel punto tentato in tutti i modi di non vedere. Ma solo non continuando a fuggire di fronte a questa particolare bruttezza si può trovare qualcosa che si considerava inaccessibile o ritrovare qualcosa che si credeva perduto per sempre. E si può lasciare l’analista, come l’orco, nella sua grotta ornata di pietra pomice. (AG)














IngleseBambola Popoavola
Palude dei derelitti
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba


C'era dunque una magica poavola, che nella lingua italiana del Veneto cinquecentesco significa bambola. Un secolo dopo, scrivendo la sua grande raccolta, Giambattista Basile raccontò la stessa fiaba, ma al posto della bambola c’era un’oca (trattenemiento primmo de la iornata quinta).

Forse il napoletano Basile non conosceva il significato del veneto poavola? A loro volta, due secoli dopo, i
Fratelli Grimm rinarrarono la stessa favola, nella quale l’oca evacua oro e morde il sedere del re, anche se sembra decisamente improbabile che un servitore del re la scelga per fornire al re qualcosa per nettarsi, e ancora più improbabile che un’oca viva sia rimasta nella spazzatura dove l’ha gettata la vicina invidiosa. Ma nelle fiabe può succedere questo ed altro, e il fraintendimento ha fatto sparire la bambola originaria ma non ha tolto nulla della grazia di questa fiaba, particolarmente gradita ai bambini in età prescolare per la marcata coprolalia. Ritrovando la bambola, immagine dell’identità dell’attante protagonista, e aiutante decisiva della sua felice crescita, rileggiamo le ultime righe di Straparola, che ci racconta come la poavola scomparisse quando tutto era andato per il meglio, non si sa come:  "Ma giudico io che si disfantasse come nelle fantasme sempre avenir suole."

Sfugge a uno sguardo superficiale che la magia nelle fiabe ha una rigida disciplina, anzitutto perché le fiabe iniziano e finiscono in un orizzonte umano, così come sono totalmente umani i loro attanti protagonisti, anche se possono avere una stella in fronte. La magia si manifesta in mille modi cangianti, ci sono tanti motivi, ereditati da miti antichi e riproposti nella narrativa e nel cinema contemporanei, ma alla fine l'attante protagonista non ha più bisogno della fata, l'oggetto magico non è più nelle sue mani, la strega è vinta, l'orco è lontano, la maledizione che lo imprigionava nella forma di una bestia non tornerà, perché l'incantesimo è sciolto. Quando la vicenda si compie, gli esseri magici si dissolvono, per poi tornare in un'altra fiaba, magari in forma di oca. Si disfantano, come racconta Straparola, come il terrore o la piena gioia di un sogno notturno, come le ombre della notte che ci spaventano nel buio da bambini, perché sono fatti della stessa sostanza dei sogni. Una sostanza che alla fine si rivela intima alla nostra, senza per questo confondersi con l'orizzonte concreto, quotidiano, con la realtà comune a tutti. Per fortuna a volte si addensano e ci segnalano un rischio, o vengono in nostro aiuto, per un tempo breve, delimitato come un sogno notturno o il racconto di una favola.

L’ingiunzione di questa fiaba è la Palude dei derelitti perché la narrazione prende avvio dall’estrema povertà dell’attante protagonista e della sorella, che diventa rischio di morire di fame a causa della morte della madre, unico genitore. Si iscrive nel quadrante sud-ovest perché l’attante protagonista è femminile. (AG)






IngleseLa bambola smarrita
Palude dei derelitti
Quadrante nord-ovest
Carta della fiaba





A nord-ovest, nella Palude dei derelitti, troviamo una curiosa fiaba piemontese: La bambola smarrita. Ciò che la rende particolarmente curiosa è il fatto che storia della fanciulla che viaggia per il mondo vestita da uomo alla ricerca della propria bambola è intrecciata ad un’altra storia: quella del pappagallo che grazie alla propria narrazione fa sì che la regina rimanga fedele al re. Una storia nella storia, dunque, di lontana derivazione orientale e misteriosamente giunta nella tradizione orale dei dialetti d’Italia (versioni di questa fiaba si trovano in Sicilia, in Toscana, in Sardegna e in Calabria). Come sia accaduto non lo sappiamo, sappiamo invece che esiste almeno dal XII secolo un testo indiano che si intitola Śukasaptati, I settanta racconti del pappagallo. Anche questo testo ha la struttura che troviamo nella fiaba piemontese: c’è una storia che porta le altre, una cornice nella quale il pappagallo racconta per settanta notti per far rimanere a casa la moglie del suo padrone evitandole di commettere adulterio. Alcuni studiosi credono che il Śukasaptati fosse conosciuto in Europa fin dal Medioevo, altri invece che si sia diffuso qualche secolo più tardi. Ma come avrà fatto il narratore popolare piemontese vissuto nell’Ottocento a conoscere favole narrate in lingue diverse dalla sua? Nessuno finora ha mai raccontato il viaggio di questa storia, ma il suo fascino è indubbio e testimonia, quanto meno, che i motivi fiabeschi non conoscono confini geografici né temporali e che abitano, con uguale piacere dell’ascoltatore, i luoghi della narrazione colta come quelli della narrazione popolare.

Di tutt’altro genere e di tutt’altro tono è la storia narrata dal pappagallo: la fiaba cioè della figlia del re che, rimasta completamente sola e priva della sua bambola, viaggia per il mondo guarendo molti principi prima di trovare colui che è ammalato d’amore per lei. Delle due storie intrecciate è questa che abbiamo attribuito all’ingiunzione della Palude dei derelitti, perché la fanciulla viene derubata di tutto: del padre, ucciso dai nemici, e della bambola, che si era fatta fare «uguale identica a lei, col suo stesso viso, della sua stessa altezza». E rimasta completamente sola, senza nessuno che si occupi di lei e  senza nessuno di cui occuparsi, inizia un lungo viaggio che la porterà a riunirsi con la sua bambola e a trovare qualcuno da amare. Il quadrante di questa fiaba è il nord-ovest, perché l’attante protagonista è una fanciulla (ovest) e perché ciò che la spinge all’azione è l’assenza del padre (nord). Sostiamo ancora un po’ in questa fiaba o, per meglio dire, viaggiamo con la fanciulla protagonista che, vestita da uomo, sperimenta una caratteristica che è parte del femminile: la cura. I principi che guarisce lungo il suo cammino hanno in comune il fatto di essere prigionieri di figure ctonie e per la maggior parte femminili. La ragazza infatti per scoprire qual è il male che li attanaglia, deve scendere nella parte più fonda e scura della prigione o in un antro che si apre sotto il letto del malcapitato o comunque vegliare durante la notte. È come se lei stessa dovesse sperimentare il profondo legame fra morte e vita, per capire come guarire prima di ritrovare la sua bambola. E può giungere alle nozze, l’unione che nelle fiabe è feconda per eccellenza, solo dopo questo lungo percorso: non importa se il suo principe si è già innamorato di lei vedendo la sua immagine fissata nella bambola, finché lei non compie il suo viaggio e non si confronta con la potenza dell’intrico di morte e vita, non c’è spazio per l’incontro con il maschile. Che può finalmente avvenire quando, pronta di nuovo a esercitare le sue doti taumaturgiche, la fanciulla ritrova se stessa. (CC)





IngleseJack e la pianta di fagioli
Palude dei derelitti
Quadrante sud-est
Carta della fiaba



Fabulando propone questa celebre fiaba traducendo una versione anonima del 1807 (Londra, The History of Jack and the Bean-Stalk), che dichiara di riprodurre un manoscritto originale mai pubblicato fino ad allora.
Jack è incapace di aiutare la madre a sopperire ai loro bisogni, e la povera donna lo manda al mercato con la sua mucca perché la venda, dato che non ha altre risorse per sfamare se stessa e il figlio. Ma prima di arrivare al mercato Jack è sedotto da certi semi colorati, al punto che, come ha fatto Nardiello con i suoi tre animaletti artisti, dà tutto ciò che ha per averli. Jack torna a casa felice, convinto che la madre approvi il suo acquisto, ma la madre perde la pazienza e scaglia lontano quel che a Jack era parso tanto prezioso. Il mattino dopo Jack vede che è cresciuta una pianta di fagioli la cui cima si perde fra le nuvole, e decide di scalarla per cercare la sua fortuna, nonostante la madre cerchi di dissuaderlo.
Oltre le nuvole c'è un mondo nel quale vive una fata che gli rivela quel che sua madre gli ha sempre taciuto per proteggerlo, vale a dire chi era suo padre e come sia morto. La fata racconta che suo padre era un uomo immensamente generoso, e che un orco lo ha ingannato e ucciso, per impadronirsi di tutti i suoi tesori. Gli assegna quindi il compito di vendicarlo, riprendendosi tutto quello che apparteneva a suo padre. Lo scioperato Jack riesce a farsi ospitare dalla moglie dell'orco, e quando questi dorme gli sottrae tutto quello di cui si era impadronito. Prima gli prende la gallina che depone uova d'oro, poi due borse piene di monete d'oro e d'argento, e infine un'arpa che suona magnificamente senza che nessuno tocchi le sue corde. Quando fugge per la terza volta l'orco si sveglia e lo rincorre, e anche se è rallentato dal troppo vino che beve ogni sera sta per raggiungerlo. Ma Jack,appena tocca terra, taglia alla base la pianta di fagioli che rovina a terra insieme all'orco, uccidendolo. E così Jack, liberando la madre da qualunque preoccupazione, può vivere per sempre in pace e prosperità. Il tema dell'avidità e della generosità attraversa tutta la fiaba di Jack, che dal momento in cui viene a sapere della sua origine paterna usa la sua astuzia per recuperare quel che il padre aveva perduto. L'orco aveva ingannato, ucciso e derubato il generoso padre di Jack, e a sua volta viene ingannato, derubato e ucciso dal giovane, che così accede all'eredità paterna. Ma nulla accadrebbe se Jack non si innamorasse dei semi colorati, cibo comune e magico come i ceci della fiaba di Cecino, dando in cambio tutto quello che ha, anche se in questo modo va a letto senza cena, come accade ad Adamantina nella fiaba della Bambola Popoavola.
Questo attante  protagonista. scioperato e perdigiorno, ha tanti fratelli fiabeschi che non possono crescere se non si mettono in cammino, e possono farlo solo quando, seguendo il loro desiderio, ricevono un oggetto magico. Molto diffusa in ambito anglosassone, questa fiaba contiene il motivo dell’orco feroce ed enorme al quale il protagonista sfugge per agilità e astuzia: è l’antico eterno motivo del piccolo che vince il grande, come David vinse Golia e Ulisse il ciclope. Così ogni nuova generazione è destinata a vincere il mondo dei grandi, come i bambini chiamano i genitori, purché riesca a ottenere le ricchezze appartenute alla generazione passata. (AG)



Di questa fiaba esiste anche l'e-kamishibai, accessibile dalla carta della fiaba.




IngleseHumà, l'uccello della fortuna
Palude dei derelitti
Quadrante nord-est
Carta della fiaba



L'attante protagonista di questa fiaba è un povero legnaiolo. Il suo aiutante magico è Humà, che vedendolo così derelitto depone accanto a lui un uovo d’oro. Il legnaiolo, che non ne conosce il valore, lo dà a un mercante che glielo compra per una miseria, e gli promette una rupia se gli porterà l’uccello che l’ha deposto. Il legnaiolo cattura l’uccello della fortuna, e lo mette in un sacco nonostante Humà gli prometta grandi ricchezze se lo lascerà libero. Nel sacco del taglialegna il povero uccello muore soffocato. L'uomo, pensando che il mercante no ngli darà nulla per un uccello morto, brucia una delle sue penne, e in un batter d'occhio si trova nell’ultramondano reame della famiglia dell’uccello. Humà torna in vita, e il legnaiolo che lo aveva ucciso si ritrova sulla terra povero come prima. Passa il tempo, e non avendo di che dare una dote alle sue figlie perché possano sposarsi, il legnaiolo va a cercare un re noto per la sua immense generosità, ma il re è diventato povero. Non avendo altro, il nobile sovrano gli dà sua figlia, perché vendendola come schiava possa avere quel che gli serve per la sua famiglia. Lungo il cammino i due incontrano un giovane re, che si innamora della bellissima principessa e la sposa, dando al taglialegna una somma che lo libera dalla miseria. Quando dopo un certo tempo viene a sapere che la sua sposa è la figlia del nobile re, manda a chiamare il taglialegna, per farsi raccontare tutta la storia. Poi fa venire il nobile generoso suocero e lo fa regnare al posto suo: saprà farlo meglio di lui, che è ancora giovane e inesperto. E all’avido mercante viene ordinato di dare al nobile re l’uovo d’oro di Humà, Uccello della Fortuna. I doni soprannaturali spettano a chi non ne è entrato in possesso con l'inganno o per avidità. Accade con rigore matematico nelle fiabe che lo stesso oggetto magico che fa la fortuna dell'ingenuo attante protagonista non rechi mai beneficio all'avido. La sua figura potrebbe rappresentare l'incapacità di distinguere ciò che appartiene a una dimensione ultramondana con beni materiali, concreti, che possono essere misurati come se fossero oggetti di commercio, d'inganno, di furto. Le fate, gli uccelli che depongono uova d'oro, e tutto ciò che dispiega potenza magica nelle fiabe è indipendente da qualunque potere religioso, eppure partecipa dell'indomabile sfera del sacro. (AG)





IngleseL'anatra dalle uova d'oro
Palude dei derelitti
Quadrante nord-est
Carta della fiaba



Questa storia russa è stata raccolta da un anonimo folklorista inglese alla fine del XIX secolo, ma potrebbe risalire a molto tempo prima. Piccolo Ivan, attante protagonista della nostra fiaba, mangia un’anatra arrosto senza sapere che è l'animale magico che deponendo uova d’oro ha fatto diventare ricco suo padre. La madre di Piccolo Ivan l’aveva arrostita per accontentare il suo garzone preferito, senza sapere il segreto di cui quello era venuto a conoscenza: chiunque avesse mangiato l’anatra sarebbe diventato zar. Ma la magia non favorisce gli avidi, e il destino regale tocca all’ignaro giovane, che non ne sa nulla, e per il momento si trova solo per il mondo, dato che il padre lo scaccia da casa. Piccolo Ivan cammina e cammina, finché arriva alle porte di una città i cui abitanti lo acclamano come il loro nuovo zar. In molte storie delle Mille e una notte si racconta che quando manca un erede al trono i dignitari e/o il popolo escono dalla porta della città, e aspettano il primo che vi giunge, per salutarlo come il loro nuovo zar. Un metodo aleatorio, certo, ma anche un affidamento al destino. Del resto, non esistono metodi infallibili, nemmeno ai giorni nostri.
Se leggessimo questa fiaba, e le altre che sono riunite nel Tour dei giovani derelitti, come un apologo della generosità contro l'avidità, secondo il quale il giovane ingenuo e innocente è premiato, mentre nessun dono spetta all'avido e all'invidioso, ci fermeremmo alla superfice e perderemmo il senso vivo della fiaba, che non ha nulla a che vedere con il moralismo e i buoni insegnamenti. La fiaba racconta del rapporto fra l'attante umano e il destino, personificato da animali magici ed esseri dotati di poteri misteriosi che possono rappresentare i casi fortunati e sfortunati che ci capitano senza che possiamo evitarli. A proposito dell'ingenuità di chi beneficia della magia, si tratta di attanti che non misurano quel che incontrano, siano oggetti, siano animali o esseri umani, con il metro del buon senso. Apparentemente sprovveduti, essi entrano in gioco sospendendo i criteri razionali e il calcolo comune che guidano i loro attanti antagonisti - come il garzone preferito dalla madre del Piccolo Ivan. Il loro carattere li rende capaci di interagire con le forze favorevoli e sfavorevoli che in ogni vita si manifestano, e che nessuna misura comune può veramente classificare. (AG)




IngleseL'oca d'oro
Palude dei derelitti
Quadrante sud-est
Carta della fiaba



I Fratelli Grimm, che conoscevano bene la raccolta di Basile, raccontano di tre fratelli che andarono uno dopo l'altro a far legna nel bosco. Tutti incontrarono un piccolo uomo grigio, che chiese loro di dividere con lui la loro frittata e il loro vino, perché aveva fame e sete. Ma i due fratelli maggiori rifiutarono, dicendo che quel che avrebbero dato a lui sarebbe mancato a loro. Il terzo invece invitò il vecchietto a sedersi con lui, pronto a dividere il suo cibo. I primi due fratelli avevano dovuto tornare a casa di corsa perché si erano feriti con la scure, mentre al terzo, per il suo buon fece un dono. Indicandogli un vecchio albero, gli disse di abbatterlo, e di prendere quel che avrebbe trovato fra le sue radici.
Nelle fiabe dove gli attanti protagonisti sono giovani poveri e ingenui, che ottengono un dono magico, come una bambola o un'oca che donano monete o uova d'oro, la narrazione si dipana intorno alla generosità degli attanti e all'avidità dei loro antagonisti. Nella nota di questa pagina a proposito della fiaba russa L'anatra dalle uova d'oro abbiamo osservato come l'opposizione fra gli ingenui generosi, che beneficiano della magia, e gli avidi disonesti, che non ne traggono alcun vantaggio o ne ricevono un danno, non sia da intendere alla lettera. Il vecchietto grigio di questa fiaba sembra conoscere l'etica evangelica espressa da Matteo. Nel giorno del Giudizio il Figlio dell'Uomo separerà definitivamente i giusti dagli ingiusti, premiando i primi e punendo i secondi per l'eternità.

Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi. (Matteo 25, 35-36)

Così il Re Celeste dice ai giusti invitandoli alla sua destra. Alla domanda dei giusti, di quando hanno fatto ciò che costituisce la ragione della loro salvezza, risponde:

In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. (Ivi, 40)

Gli ingiusti saranno alla sua sinistra e meriteranno la dannazione eterna perché non lo hanno fatto, e quando  pongono la stessa domanda dei giusti, ricevono la stessa risposta: ogni volta che non hanno soccorso uno dei suoi fratelli più piccoli, hanno respinto il figlio di Di o e Dio stesso
Gli eventi della fiaba accadono in uno spazio lontano lontano, tanto tanto tempo fa, del quale si narra che altri gli hanno narrati ad altri, fino al narratore attuale, e in questa dimensione delimitata dalle formule di apertura e di chiusura tutto accade, fino alla fine che esaurisce la storia. Dono e punizione, rischi e soluzioni, magie e incantesimi fasti e nefasti, tutto sta dentro la storia narrata, che non rimanda a mondi diversi dal proprio. Il premio e la punizione vengono assegnati agli attanti che le meritano, e il vecchietto grigio che dispensa la magia al protagonista di questa fiaba non gli propone di rimandare il suo desiderio o il suo bisogno a un regno esterno al racconto stesso, Ma l'attitudine a riconoscere nell'altro la propria stessa umanità, per quanto appaia piccolo e debole, vale come accesso all'esperienza del sacro, tanto che echeggia le parole del Vangelo.
Nelle fiabe la potenza magica che permette all'attante di raggiungere il lieto fine spesso sgorga da qualcosa di insignificante, come il Dio che separa giusti e ingiusti alla fine dei tempi può manifestarsi nei fratelli più piccoli. Il candore del fratello minore viene introdotto come una dabbenaggine, tanto che il giovane viene schernito, e chiamato il grullo. I suoi due fratelli maggiori, dotati di buon senso, aderiscono alla misura concreta di ciò che possiedono: "Ciò che do a te, manca a me. Vattene per la tua strada!" (L'oca d'oro, e-book, p. 17). A chi segue solo il senso comune, che misura, classifica, assegna un valore in danaro, appare una sciocchezza privarsi di una parte di ciò che possiede per dividerlo con chi ne ha bisogno, perché ha fame e sete, come il vecchietto grigio, che non sembra avere niente da dare in cambio. Per questo è lo sciocco, l'ingenuo, il grullo,  a rispondergli con generosità, e allora quel che dà del poco che possiede non è quel che viene a mancargli, ma quel che lo colma di ricchezza. Si tratta di compassione, da intendersi nel significato etimologico: passione con, comunanza di passione, riconoscimento della propria passione, del proprio sentire e patire, nella passione dell'altro. Si tratta di un'esperienza che arricchisce chi si priva del suo per l'altro, a patto che non lo sappia nel momento in cui la generosità lo guida a donare qualcosa, o anche tutto quello che ha. La condivisione del proprio, scarso, cibo apre alla dotazione magica dell'attante protagonista in questa fiaba come in quella di Fiore e Gambodifiore, mentre fra quelle dove la magia entra ad arricchire e rendere felice nel momento in cui l'attante protagonista dà tutto quel poco che possiede ricordiamo Bambola Popoavola, Jack e la pianta di fagioli, Lo scarafaggio, il topo e il grillo.
Il vecchietto grigio, dopo aver mangiato quel che aveva il figlio minore, gli indica un albero da abbattere, fra le cui radici troverà qualcosa di prezioso: c'è un'oca tutta d'oro! Il fratello minore diventa il legittimo proprietario  di un'oca d'oro. Quando due ragazze cercano di impadronirsi di una delle sue piume, si attaccano all'oca con la stessa forza invincibile con la quale la Bambola Popoavola si attacca al posteriore del re che l'aveva usata per pulirsi dopo un bisogno. La potenza collante dell'oca d'oro è tale che quando il giovane si mette in cammino con l'oca in braccio, senza curarsi di chi vi è attaccato, le ragazze devono camminare e correre con lui, e tutti quelli che cercano di trattenere le ragazze si attaccano a loro, e altri a questi, formando un comico corteo dietro al giovane che va di qua e di là tenendo in braccio la sua oca d'oro senza curarsi di loro. Siccome il re padre non vuole un genero come quello, cerca di eliminarlo imponendogli tre compiti impossibili, come il re di Nardiello, che aveva fatto ridere per la prima volta la principessa con lo scarafaggio, il topo e il grillo. Il giovane possessore dell'oca d'oro, ricorrendo all'aiuto del vecchietto grigio, supera tutte le prove, e alla fine sposa la principessa, e vivono tutti felici e contenti. (AG)





IngleseLa papera
Palude dei derelitti
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba



Come mai Giambattista Basile rinarrando con La papara la Bambola Popoavola di Giovan Francesco Straparola ha sostituito la bambola? La bambola di pezza che la notte aveva inondato il letto di Adamantina di monete d'oro, e di cacca disgustosamente maleodorante il letto della donna invidiosa che voleva arricchirsi, prende corpo dal'equazione danaro/oro/feci, che il bambino vive durante la fase anale. Il genitore che abbia sperimentato l'ostinazione con la quale il bambino o la bambina impongono la loro gestione del solo prodotto che pososno padroneggiare autonomamente, e la loro vera disperazione quando un clisterino li costringe a capitolare, avrebbe gli elementi basilari per comprendere i giochi di potere con i quali gli esseri umani si dominano e si sottomettono.
Per quanto le fiabe non rispondano ai limiti spaziotemporali che regolano misure e ritmi della nostra vita di veglia, accolgono con qualche difficoltà l'idea che una papara - un'oca - possa essere considerata adatta alla funzione già assolta dalla bambola di pezza. Eppure, se una bambola o una papera possono evacuare monete d'oro, entrambe possono ben attaccarsi - una con i denti, l'altra col becco - al regale posteriore, e restarci finché la loro amorevole padroncina non le convince a lasciare la presa per tornare fra le sue braccia.
A noi piace pensare che Basile, napoletano, non conoscesse la parola veneta poavola, che voleva dire bambola, e che la potesse ben associare con la favola classica della gallina auripara, risalente a Esopo e Fedro e innumerevoli volte rinarrata come exemplum: così due creature auripare, una bambola di pezza e una gallina antica, si incontrano e dal loro incontro nasce la papara. La dinamica della fiaba di Straparola viene ripresa da Basile, e la papara napoletana non arricchisce chi la cura amorevolmente deponendo uova d'oro, ma utilizzando lo stesso orifizio anale della bambola veneta. L'orifizio anale e genitale - femminile - si scambiano le parti nel dispensare oro, come possono scambiarsi le parti nelle fantasie dei bambini piccoli su come nascono i bambini. E se l'investimento erotico non transita dall'orifizio anale ai genitali, il potere sarà l'oggetto di desiderio dominante. Il piacere che provano i bambini ascoltando questa favola, soprattutto se sono ancora impegnati a difendere la gestione autonoma e arbitraria del loro prodotto anale, unico e pertanto prezioso, deriva dalla messa in parola del grande pregio che può rivestire quel che per gli adulti è oggetto di disprezzo, tanto che la parola volgare che lo designa viene usata in buona parte del mondo per denigrare una persona, un oggetto, una situazione.
La creatura magica, bambola o papera, realizza la fantasia infantile che attribuisce un valore immenso alle proprie feci, contro il disprezzo di cui i genitori le fanno oggetto. Dispone poi di una potenza tale, pur non essendo altro che una bambola di pezza o un oca che possono essere gettate nella spazzatura, che il re e tutti i suoi medici e servitori non possono impedirle di restare attaccate al regale posteriore. E questa fiaba, come quella di Straparola, continua con la stessa umile e ingenua protagonista, che in nome dell'amorevolezza con la quale l'aveva ottenuta e curata chiede che finisca il tormento che la creatura auripara infligge al re, rappresentate del massimo potere, proprio nell'area anale.
Basile racconta, come Straparola, che il re, non avendo alcun mezzo per staccare dal suo corpo la mordace creatura, aveva fatto questo bando: se un uomo fosse venuto a liberarlo gli avrebbe dato metà del suo regno, se fosse venuta una donna, l'avrebbe sposata. Il detentore del potere si libera dal morso se cede una parte del suo regno, o se accetta di dividere la sua vita con una sposa. La fiaba che racconta del potere che si struttura nella fase anale, si conclude affermando il primato della condivisione, che apre alla relazione con l'altro e a una nuova generazione. (AG)





InglesePietropazzo
Palude dei derelitti
Quadrante nord-est
Carta della fiaba



Ma che direm noi a coloro che della mia fame hanno tanta compassione che mi consigliano che io procuri del pane? Certo io non so; se non che, volendo meco pensare qual sarebbe la loro risposta se io per bisogno loro ne dimandassi, m’avviso che direbbono: - Va’ a cercarne nelle favole -. E già più ne trovarono tra le lor favole i poeti, che molti ricchi ne’ lor tesori. E assai già, dietro alle lor favole andando, fecero la loro età fiorire, dove in contrario molti nel cercar d’aver più pane che bisogno non era loro, perirono acerbi. (Boccaccio, Giornata IV, Introduzione; p. 319)

Il Pescetonno finisce nella rete di Pietropazzo, il protagonista di questa fiaba che si trova nel quadrante nord-est, e ha come ingiunzione la Palude dei derelitti. Il movimento dell’attante protagonista dipende dalla sua povertà,  che è connessa all’assenza di un padre, tale che non è in grado di procurare alla madre e a se stesso di che vivere. L’incontro col Pescetonno, di genere maschile per il simbolismo fallico del pesce, rappresenta un soccorso che viene da un mondo altro a sostenere Pietropazzo, come per colmare la sua mancanza del padre. Lo scontro col re Luciano rappresenta invece il confronto con la legge, che Pietropazzo ha infranto ingravidando magicamente la piccola principessa Luciana, unica erede al trono.

La fiaba comincia con una burla che si ripete ogni giorno, quando Pietropazzo, tornando a sera, grida alla mamma di portar fuori tutti i suoi recipienti per riempirli con la sua pesca, mentre in realtà non prende mai nemmeno un pesciolino. La scena scatena regolarmente il riso della principessina affacciata alla finestra del castello, e la rabbia di Pietropazzo.
Dopo un indefinito numero di ripetizioni, il povero attante protagonista, brutto e sgraziato oltreché pescatore inconcludente, cattura un enorme tonno, ed è finalmente felice di portare a casa quella bella preda. Ma il cibo per la prima volta procurato parla, e chiede di essere liberato, argomentando che sfamarsi una volta sola non porrà fine alla misera condizione del pescatore. Per convincere Pietropazzo a liberarlo, il Pescetonno gli promette, in cambio della libertà, una pesca sovrabbondante, e anche di esaudire qualunque suo desiderio.

Resistendo alla voglia di portarselo a casa, Pietropazzo allora lo libera, e seguendo le sue indicazioni, riempie la barca di tanti pesci che rischia di affondare.
Per la prima volta Pietropazzo dice la verità, gridando alla madre che porti fuori tutti i recipienti per contenere tanti pesci, e per la prima volta la povera donna esita, non avendo più voglia di accontentare il figlio. La speranza della madre però vince sul buon senso, e alla fine la donna prepara conche, conchette, secchie, secchiette, mastelle, mastellette, che il figlio finalmente riempie. Ma la principessa anche questa volta ride vedendo la scena, che pure è diversa dal solito, e Pietropazzo ora non si limita a inveire contro di lei, ma, tornato in riva al mare, chiama il suo aiutante magico e gli chiede che la principessa si ritrovi incinta di lui. Detto fatto, Luciana è incinta, e quando il re viene a saperlo non crede all’innocenza della figlia e la condanna a morte. Per intercessione della regina, aspetta prima la nascita del bambino, che è bellissimo, poi che il piccolo compia un anno, sperando che la voce del sangue possa fargli riconoscere l’ignoto padre.
Il re invita tutti gli uomini della città a palazzo per il compleanno del nipote, ma nessuno attira l’attenzione del bambino, che invece, a un certo punto, si dirige verso una porta, dietro la quale si trova Pietropazzo, che sembrando un mendicante si vergogna a entrare. Il re lo fa chiamare e il bambino, appena lo vede, gli butta le braccia al collo, gettando nella costernazione il regale nonno che seduta stante ordina che la principessa, Pietropazzo e il loro figlioletto siano messi in una botte e gettati in mare, dove di certo moriranno.

Questo è un motivo ricorrente, che ha il suo antecedente nella mitologia greca nella storia di Perseo, che fu generato per un intervento divino, la passione di Giove per la principessa Danae, comunque soprannaturale come la gravidanza magica di Luciana. Il re padre di Danae abbandona lei col suo bambino alle acque in una cassa di legno, cercando di evitare che si realizzi la profezia secondo la quale sarà ucciso proprio da un suo discendente.

È morto il re, viva il re. Il succedersi delle generazioni comprende l’invecchiamento e la morte degli uni come la nascita degli altri. L’ascendente cerca di uccidere il discendente tentando di trasgredire questa legge della vita, e non può che fallire. Si osserva poi che in tutte le storie i bambini abbandonati alle acque anziché annegare vengono raccolti e nutriti, fino a quando, diventati grandi, belli e forti, si mettono in cammino e puntualmente tornano proprio da dove erano stati allontanati. Il destino si compie nel mito di Perseo con la morte del re suo antenato, per mano del nipote ignaro della sua identità. Nelle fiabe al posto della morte si trova l’abdicazione del vecchio re a favore del discendente, che finalmente riconosce come suo degno successore.

Tornando alla nostra fiaba, che Giovan Francesco Straparola narrò per primo, e che il gran Basile ha rinarrato ne Lo cunto de li cunti, andiamo a vedere cosa fanno la principessina innocente, il disadattato Pietropazzo e il loro bambino, nella botte che il re aveva fornito di una cesta di pane e uno fiasco di buona vernazza e con uno barile di fichi per lo fanciullo (e.book, p. 36). Mentre Pietropazzo mangia e beve senza pensieri, la principessina si dispera, e culla il bambino, nutrendolo con qualche fico. Chiede a Pietro come possa essere indifferente alla sua sofferenza, di cui è responsabile, e al pericolo di essere da un momento all’altro sommersi dalle onde. Pietro risponde che non corrono alcun pericolo, e quando le rivela il segreto del suo aiutante magico, Luciana lo prega  di chiamarlo e di fare in modo che il Pescetonno esaudisca anche lei. In questo modo la principessa chiede al  Pescetonno di porli in salvo su una piccola isola, di trasformare Pietropazzo in un giovane bello e savio, e di costruire per loro un magnifico palazzo, con un giardino nel quale cresca un albero che dia frutti di pietre preziose.

Lasciando da parte l’albero dai frutti proibiti che presto gustarono Adamo ed Eva, ricordiamo nella mitologia greca gli alberi dai frutti d’oro del giardino delle Esperidi, e il giardino nell’isola dei Feaci, dove tutti i frutti maturavano in ogni stagione dell’anno. Come esempio di un giardino magico nella favolistica araba, pensiamo agli alberi carichi di pietre preziose di ogni colore che Aladino vede nel sotterraneo dove è sceso per prendere la lampada (vedi anche: Adalinda Gasparini, Aladino e la lampada meravigliosa. Viaggio psicoanalitico, 1993, pp. 81-97).

E così sani e salvi, Pietropazzo e Luciana vivono col loro figlio nel favoloso palazzo. Dopo qualche anno, il re e la regina, per lenire la malinconia che li accompagna da quando hanno perduto la figlia, partono con una nave per compiere un pellegrinaggio: vedendo un palazzo del quale ignoravano l’esistenza accostano la nave e scendono a terra, accolti dai suoi abitanti ricchi, belli e felici, che però non riconoscono.

Mentre ammirano il giardino, la principessa Luciana fa in modo che uno dei frutti preziosi finisca nella veste del re, e chiede a tutti i presenti di dimostrare di non aver nascosto nelle loro vesti il frutto prezioso. Il re si scioglie la veste, rimane allibito vedendo cadere il frutto prezioso, e protesta la sua innocenza. Allora la principessa dichiara di credergli nonostante l'evidenza, mentre il re non ha voluto credere all'innocenza di sua figlia. E continua, senza trattenere il pianto:

 

Signor mio, sapiate ch’io sono quella Luciana, la quale infelicemente generaste e con Pietro pazzo e col fanciullo a morte crudelmente dannaste. Io sono quella Luciana, vostra unica figliuola, la quale senza aver conosciuto uomo alcuno pregna trovaste. Quest’è il fanciullo innocentissimo senza peccato da me conceputo —: e appresentogli il fanciullo. — Quest’altro è Pietro pazzo, il quale per virtú d’un pesce chiamato tonno, sapientissimo divenuto, fabricò l’alto e superbo palazzo. Costui fu quello che, senza che voi ve n’avedeste, vi puose il pomo d’oro in seno. Costui fu quello di cui non con stretti congiungimenti, ma con incantesimi gravida divenni. E sí come voi dell’involato pomo d’oro siete innocente, cosí parimente della gravidanza io ne fui innocentissima —. (Ibid. pp. 60-62).

 

Frutto prezioso, il figlio, frutto magico, gemma: la gemma è sia la pietra preziosa che la parte della pianta attraverso la quale la vegetazione si riproduce. La nascita è un mistero, non solo perché la gravidanza magica ricordi il concepimento di una vergine, motivo centrale nei Vangeli, che si trova anche nel poema induista Mahabharata, ma perché chiamiamo mistero ciò che non possiamo controllare e padroneggiare. Il re padre non può dar credito alla figlia, quando protesta la sua innocenza, e se non lo trattenessero la regina e i suoi consiglieri la condannerebbe a morte già nel momento in cui si  manifesta la gravidanza. Per questo la perde, e la malinconia per l’arresto della generazione è la sua pena. Lo scacco del re, personificazione del potere, è lo scacco di ogni genitore, quando scopre la radicale alterità del figlio, che la vita sottrae al suo controllo e alla signoria assoluta che esercitava quando era ancora bambino. Ogni genitore ha il diritto e il dovere di dominare il figlio, ma nessuna teoria pedagogica o psicoanalitica potrà evitargli la ferita narcisistica del suo distacco, quando il suo germoglio diventa un albero e dà frutti, manifestando una forma che non coincide con quella desiderata dal genitore. È come se si rompesse uno specchio, perché la continuità fra le generazioni, per fluire, esige una discontinuità, in un gioco di contrasti vitali che la nostra coscienza può riconoscere solo se riconosce e sopporta la ferita, elaborandola attraverso la riflessione. Il re è morto, viva il re. Il re abdica, un nuovo re ascende al trono.

A differenza del re, che personificando la legge non può comprendere la magia, che è il nome di un processo che non riesce a scomporre e controllare, Pietropazzo rimette in mare il Pescetonno che finalmente potrebbe sfamare lui e sua madre dando credito a un'irrealistica promessa, e la principessina lascia da parte il senso comune e prende sul serio il discorso di lui, quando le dice del suo amico magico, abitante del mare. Così salva se stessa insieme a lui e al loro bambino nato per magia. Ma non c’è qualcosa di magico in ogni nascita, nella creatura che somiglia a due persone che vengono da famiglie diverse, e ad antenati di cui si è anche perduta la memoria?

La principessa Luciana arricchisce il padre mostrandogli come si possa apparire colpevoli pur essendo innocenti, e grazie a questo finale la vita torna a scorrere, con gli eredi al trono che ottengono quel che spetta loro, dopo una vicenda piena di rischi e di magia, come se ne trovano sempre nelle fiabe. (AG)












IngleseIl Gatto con gli stivali
Palude dei derelitti
Quadrante nord-est
Carta della fiaba


Antoine Galland era uno studioso francese che conosceva l’arabo e molte altre lingue, antiche e moderne. Fece ritorno a Parigi dopo aver passato molti anni in Medio Oriente, e fu sorpreso nel vedere che tutti impazzivano per le favole di Perrault. Lui ne aveva conosciute tante fra gli arabi, come quelle delle Mille e una notte.
Allora si fece mandare dalla Siria un manoscritto del XIV secolo,  vale a dire del tempo in cui in Italia Dante, Petrarca e Boccaccio scrivevano i loro capolavori.
Galland tradusse in francese Le mille e una notte, e il primo volume fu pubblicato nel 1704, quando io vivevo felice tra la reggia di Versailles e i salotti parigini. Furono pubblicati altri volumi fino al 1715, e il successo fu immenso. La meravigliosa raccolta araba, che Galland per primo aveva tradotto in una lingua europea, fu tradotta in molte altre lingue, e diventò il best-seller del XVII secolo.
Se ora vi state chiedendo cosa ho a che fare io con le Mille e una notte, statemi a sentire...

Kana jama kana in arabo vuol dire c’era una volta, l’ho sentito pronunciare una sera che mi sono seduta sulla finestra di Galland mentre leggeva a voce alta il manoscritto siriano che stava traducendo.
C’era una volta un povero pescatore, tanto sfortunato che non pescava quasi nulla e spesso la sua famiglia digiunava.
Una sera gli capitò di trovare nella rete un vaso di rame. Pensò di pulirlo e svuotarlo per venderlo al mercato, ma appena tolse il tappo col sigillo di Re Salomone, uscì dall’antico vaso una colonna di fumo, che in un batter d’occhio salì fino alle nuvole, per poi condensarsi e prendere la forma di un génie, come diceva Galland, un genio, praticamente un demone. Quel brutto figuro gli disse con voce tonante:
- Scegli la morte che preferisci, perché sto per ucciderti.
Il pescatore si inginocchiò e lo supplicò di non prendergli la vita, ma quel demone non ebbe pietà.
- Perché, - chiese allora il pover’uomo, - vuoi uccidere chi ti ha liberato?
- Sappi, - il demone rispose, - che nei primi cento anni della mia prigionia avevo giurato di rendere ricchissimo chiunque fosse venuto a liberarmi, ma non venne nessuno. Nei cinquecento anni che seguirono pensai che avrei mostrato al mio liberatore tutti i tesori sepolti nella terra, ma nessuno venne. Passarono altri mille anni durante i quali decisi di servire per sempre chi mi avesse fatto uscire da questo vaso di rame, soddisfacendo ogni suo desiderio. Ma nessuno venne. Allora giurai che avrei ucciso chi fosse venuto a tirarmi fuori di qua, chiunque fosse.
Sentendo queste parole il pescatore provò un terrore tale che se la fece ad-dosso. Poi però si ricordò che gli esseri umani, per quanto fragili, hanno una intelligenza superiore a qualunque al-tra creatura. Escogitò allora un trucco sopraffino, identico al mio con l’orco.
- Prima di morire, o potentissimo demone, - disse, - ti supplico di soddisfare il mio ultimo desiderio: mostrami come facevi a stare tutto in questo vaso di rame, perché non riesco proprio a crederci.
Come il mio orco il demone si sentiva invincibile, e con una risataccia  ridusse le sue dimensioni fino rientrare completamente nel vaso. Il pescatore fu lesto a rimetterci il tappo, poi disse al genio che l’avrebbe ributtato in mare, perché meditasse per altri mille e mille anni sulla sua crudeltà.
Il pescatore in seguito diventò ricchissimo, ma non posso continuare a raccontarvi la sua storia. Quel che conta è che il povero pescatore riuscì a vincere quel prepotente spiritaccio, grazie all’intelligenza e alla fantasia. (Dall'e-book La Gatta racconta, pp. 33-40. A proposito delle Mille e una notte, vedi anche: Adalinda Gasparini: Aladino sul lettino, 1988). (AG)

Di questa fiaba esiste anche l'e-kamishibai, accessibile dalla carta della fiaba.





IngleseLa Gatta con gli stivali
Palude dei derelitti
Quadrante sud-est
Carta della fiaba




La nostra Gatta con gli stivali, dopo che Straparola per primo pubblicò la sua storia, venne rinarrata da Basile, ma il finale era così triste che la gatta se ne andò.

Cammina cammina, dopo aver lasciato il mio padrone a Napoli, non mi fermai da nessuna parte se non per riprendere fiato, e dopo una sessantina d’anni arrivai a Parigi.  Ero stremata,  non  avevo più voglia di aiutare nessuno, né di andare a chiacchierare con i re. Come dice un proverbio citato da Basile, a far bene agli asini si prendono calci. Il peggio è che non avevo più voglia nemmeno di cacciare: digiunavo spesso, come capita ancora ai gatti abbandonati.
Allora capitava anche a tanti poveri francesi, mentre il loro Re Sole era ricco da non dirsi. Viveva nella Reggia di Versailles, tra feste in maschera e giochi meravigliosi.
Pensate che una volta capitai da quelle parti, e salita su un albero vidi una battaglia navale nelle vasche del parco, con bastimenti in miniatura, sui quali il Re Sole e i suoi cortigiani guerreggiavano per divertimento… A un certo punto vidi arrivare una bella carrozza, che si fermò al cancello. Ne scese un elegante signore che guardò nella mia direzione e mi chiamò:il cortese invito.
Era Charles Perrault, architetto e narratore preferito di sua maestà! Mi disse che il Re Sole amava le fiabe, e che la mia era una delle sue preferite.
- Vi prego - concluse - di farmi l’onore di essere mio ospite. Caro amico, sarà mia premura ordinare al cuoco di prepararvi i vostri piatti preferiti, inoltre vi farò confezionare un paio di morbidi stivali e un cappello piumato. Monsieur, mi accompagnerete a caccia nelle riserve reali, n’est pas? In breve tempo potrete recuperare le forze e sarete più affascinante che mai.
Su quella splendida carrozza  dimenticai i calci ricevuti a Napoli e ricominciai a credere nelle favole, ricordando un proverbio di Basile: fa’ il bene e scordatene. Ma perché Perrault mi chiamava Monsieur? Forse non curando più la mia pulizia avevo perso tutta la mia femminilità.
Maître chat!
Mi fece cenno di salire sulla sua carrozza, e per quanto fossi polverosa e male in arnese mi diedi un contegno, cosa che noi gatte e gatti sappiamo sempre fare. Insomma, feci un inchino e accettai
Grazie a Perrault, che conosceva sia Straparola che Basile, la mia fiaba aveva viaggiato più veloce di me, e senza saperlo ero diventata uno dei personaggi più famosi del mondo. Quelli che non conoscono la mia storia raccontata da Straparola nel Cinquecento e da  Basile nel Seicento, credono che mi abbia inventato Perrault, e di fatto il mio padroncino non è conosciuto né come Fortunato né come Pippo Cagliuso, ma col nome che gli ha dato il narratore preferito del Re Sole: il Marchese di Carabas, voilà!
Anche se mi dispiace che pochi ricordino che la mia fiaba italiana circolava in Europa già da un secolo e mezzo, sono grata a Charles Perrault, che mi ha fatto indossare quel bel paio di stivali, veramente confortevoli.
Quando gli feci notare che ero una gatta, una femmina, mi disse che ormai, dopo che ero entrata a far parte della sua raccolta di fiabe, Les Contes de ma Mère l'Oye, per tutti ero e sarei rimasta il Gatto con gli stivali, un maschio. Per qualche giorno non mi sentirono parlare e nemmeno miagolare, ma poi mi sono adattata, ricordando che non ero la prima a cambiare sesso nel mondo delle favole: Tiresia, il più grande indovino dell’antica Grecia, era nato maschio, poi era stato trasformato in femmina, poi era ridiventato maschio. Io ho fatto il contrario: femmina a Venezia e a Napoli, sono diventata maschio a Parigi, per tornare femmina a Firenze, in questa tabtale, pur essendo ancora conosciuta come gatto maschio in quasi tutto il mondo.
Nella favola di Perrault ero ancora un’eccellente cacciatrice, pardon, un cacciatore, anche perché con quegli splendidi stivali potevo andare dappertutto. Ormai camminavo solo sulle zampe posteriori ed ero cortese come se avessi parlato col Re Sole in persona. 
Ma la cosa più importante che mi ha dato Perrault non sono gli stivali: è la mia avventura con l’orco. Perrault doveva conoscere delle storie in cui una creatura piccola e astuta come me sconfigge un essere grande e pre-potente come l’orco. Di certo una molto simile alla mia si trova nelle Mille e una notte, la raccolta araba che fu tradotta da Antoine Galland proprio a Parigi, prima del 1715, l’anno in cui morì il Re Sole. (Da La Gatta racconta, pp. 21-30)

Di questa fiaba esistono anche la storia della fiaba (La Gatta racconta la sua storia), l'animazione, l'e-kamishibai, accessibili dalla carta della fiaba.


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IngleseGatta Cenerentola - versione delle Autrici di Fabulando
Torre della segregazione
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba


Questa versione della Gatta Cenerentola contiene la rinarrazione della fiaba, che le autrici di Fabulando hanno realizzato nell’app Gatta Cenerentola, pubblicata nell’App Store nel 2013 e tuttora disponibile.
In questa versione, le storie di Zezolla detta Gatta Cennerentola (Basile, 1634-36, presente anche in Fabulando), di Culincere (Perrault, 1697), di Cinderella (Disney, 1950) e della Cenerentola fiorentina (Imbriani, 1877) si intrecciano come nelle favole che raccontiamo da adulti si combinano diversi particolari che risalgono a diverse storie della nostra infanzia. In ognuna di queste storie è riconoscibile la vicenda della fanciulla orfana della madre che deve sottostare alle imposizioni della matrigna e delle sorellastre e che, con l’aiuto di una fata, può incontrare il principe, sfuggirgli, ed essere alla fine ritrovata grazie alla scarpetta che ha perduto, per giungere alle nozze regali.
Ma in ognuna di queste storie ci sono varianti che le rendono uniche e che in questa rinarrazione si fondono, componendo una versione originale della fiaba più famosa del mondo, che si avvale anche della meravigliosa narrazione illustrata che ne ha fatto Arthur Rackham, le immagini del quale abbiamo elaborato e inserito in ogni pagina del nostro e-book.
Per conoscere i vari elementi che hanno contribuito a strutturare la nostra storia, rimandiamo al testo di Claudia Chellini, Una fiaba tutta nuova e tutta antica. Lettura narratologica, pubblicato anche nell’app Gatta Cenerentola.

In questa sede vogliamo rilevare alcuni particolari della nostra rinnarrazione che abbiamo trovato con piacere anche nell’ultima Cenerentola cinematografica realizzata dall'inglese Kenneth Branagh e prodotta dalla Disney (US, 2015).
Un primo elemento riguarda la figura del principe. Nella nostra storia il principe ha una determinazione tale da imporre la sua scelta ai regali genitori che lo aiutano nella ricerca della sua amata. L’inglese Marian Roalfe Cox, membro della London Folklore Society, nel 1893 pubblicò un testo fondamentale per chiunque avvicini la storia di Cenerentola, nel quale raccolse trecentoquarantacinque versioni della fiaba suddividendole in cinque categorie, una delle quali porta il nome della favola oggi meglio conosciuta come Pelle d’asino (un cenno a questa fiaba si trova anche nell’ingiunzione del Castello dell'amore imposto). In questo tipo della storia di Cenerentola, l’attante filiale maschile ha un carattere volitivo e, ammalato d’amore per la fanciulla che si presenta in una sudicia veste di animale e che lui ha scorto nei suoi magnifici abiti segreti, ottiene l’aiuto dei suoi regali genitori per trovare la sua bella e farne la sua sposa.
Nel suo film Branagh mette in scena un principe con una simile statura: si tratta di un giovane che trova il proprio posto di erede al trono, confrontandosi con un padre che ama e rispetta e al quale mostra la propria fermezza nel voler costruire da sé il proprio destino, sposando la fanciulla che ha incontrato un giorno mentre andava a caccia e non la principessa a lui assegnata per doveri di Stato.

Fra gli animali che la fata trasforma insieme alla zucca, nel film ci sono due lucertole, color verde-ramarro, che diventano due valletti, animali assenti nell’animazione Disney del 1950, presenti invece nella versione della fiaba narrata da Charles Perrault, dove sono sei, come nelle illustrazioni di Arthur Rackham che dedica loro uno spazio particolare, disegnandone accuratamente la trasformazione e punteggiando la copertina e alcune pagine interne di piccoli esemplari. Noi ci siamo affezionate a questo animaletto, e nella nostra versione abbiamo raccontato di un unico valletto scegliendo un ramarro invece di una lucertola (nell’app Gatta Cenerentola, inoltre i ramarri sono un leitmotiv che si ritrova nella home page e nelle pagine interne). Dal punto di vista simbolico, la presenza di questo animale sottolinea, in Cenerentola, la sua parte connessa con la cenere, con le scorie del camino: sono suoi amici animali tradizionalmente sporchi come i topi e animali striscianti e perturbanti come i rettili. Questo punto è caratterizzante la fiaba di Cenerentola, che si muove fra due termini: il buio dello sporco e lo splendore della bellezza. Edulcorarlo significa privare la storia di uno dei due termini, impoverendo così la pregnanza complessiva della fiaba. Anche Branagh, come Arthur Rackham, e forse seguendo Rackham, dà ai ramarri-valletti un loro spazio, facendone dei personaggi simpatici, ma che mantengono il loro portato perturbante: trasformati in uomini, hanno la pelle traslucida e verdastra, guanti color giallo-verde che ricordano le zampette, i denti aguzzi da animale e ne vediamo uno acchiappare un insetto con la lingua a molla tipica dei rettili un momento prima di vedere Cenerentola arrivata alla carrozza per fuggire verso casa.

Soffermiamoci infine sulla conclusione della fiaba: nella nostra storia, si racconta che la fata, avendo visto che tutto si è risolto per il meglio, vola via lontano nel cielo. Si tratta di una citazione del suggestivo finale della fiaba del XVI secolo Bambola Popoavola (anch’essa presente in Fabulando).

La poavola, vedute le superbe nozze dell’una e l’altra sorella, e il tutto aver sortito salutifero fine, subito disparve. E che di lei n’avenisse, mai non si seppe novella alcuna. Ma giudico io che si disfantasse come nelle fantasme sempre avenir suole.

E nell'ultima animazione dell'app Gatta Cenerentola, sullo sfondo blu del cielo punteggiato di stelle, la fata vola via accompagnata dal suo accordo caratteristico e dal suo fruscio, sopra Cenerentola e il principe che si sono appena sposati.
Anche Branagh ha lasciato questo speciale spazio alla fata madrina: è sua la voce che conclude la narrazione ed è la sua sagoma che si forma dalle nubi del cielo azzurro, accompagnata dallo scintillio tintinnante della sua bacchetta che magicamente fa comparire la tradizionale scritta "THE END". (CC)

Di questa fiaba esistono anche l'app-tale (Gatta Cenerentola) e l'e-kamishibai, accessibili dalla carta della fiaba.





IngleseGatta Cenerentola - prima versione pubblicata, XVII secolo
Torre della segregazione
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba





























































































Se si scrive “Cinderella” sul motore di ricerca di Google, si hanno quasi 100.000.000 di risultati. Se si scrive “Cinderella shoes” si hanno 13.400.000 risultati, che permettono anche di comprare scarpette di Cenerentola in plexiglass, da indossare il giorno del matrimonio o per una festa in costume. Cercando “Cinderella wedding” si hanno 16.000.000 di risultati, con siti che offrono l’organizzazione di un matrimonio come quello di Cenerentola, con una carrozza a forma di zucca e bomboniere a forma di scarpetta (consultati il 28/05/15).
Fra le scarpe più straordinarie realizzate in nome di Cenerentola si trovano i sandali tempestati di diamanti presentati la notte degli Oscar del 2002, del valore di 2.000.000 di dollari (vedi http://ohtopten.com, Stuart Weitzman, Cinderella slippers; consultato il 29/05/15). Per l’uscita di Cinderella, il live action del 2015, la Disney ha proposto ai nove più grandi stilisti del mondo di creare una scarpetta di Cenerentola, e così esistono nove versioni di questa magica calzatura, che si possono acquistare con una somma che varia da poco meno di 1.000 a quasi 5.000 dollari (Nove celebri brand di calzature reinterpretano la scarpetta di cristallo di Cenerentola per la Disney; nel sito www.vogue.it; consultato il 29/05/15). Su disegno della costumista Sandy Powell, Swarovski ha realizzato la scarpetta di cristallo che nel film si vede fra le mani del principe o di chi cerca la bella fuggitiva. La protagonista del film, i cui piedi non sono certo piccoli, indossa un paio di scarpe di pelle di forma identica a quella della scarpa di cristallo, che appaiono trasparenti grazie agli effetti speciali (Cenerentola, tutti i segreti dell'abito e della scena del ballo, nel sito www.ansa.it, consultato il 29/05/15).
Altri oggetti sono usciti dalle fiabe per entrare nella realtà, come oggetti quotidiani, gadget o giocattoli, pensiamo alla lampada di Aladino, alla bacchetta magica delle fate, alla casetta di marzapane di Hänsel e Gretel o alla spada nella roccia. Se si sommassero tutti gli oggetti magici usciti da tutte le fiabe, il loro numero sarebbe inferiore a quello delle scarpette di Cenerentola.


È un simbolo, certo, un simbolo importante. L’aderenza perfetta scarpa-piede richiama quella fra dito e anello, nel fidanzamento e nel matrimonio, come la perfetta intesa erotica. La passione delle donne per le scarpe esprime il desiderio di accordare, e che sia accordata, alla parte inferiore del proprio corpo un’attenzione privilegiata. Il piede, con la sua mobilità, e con la possibilità di movimento che consente, viene a compensare la mancanza dell’organo maschile che è il corrispettivo corporeo del fallo. Il tacco alto, o altissimo, come quelli delle nove scarpette di Cenerentola create dagli stilisti nel 2015, esalta questa significazione del piede aggiungendovi un’appendice rigida e forte.
Il film di Branagh, con la doppia scarpa di Cenerentola, una di misura piccola, di cristallo, una, più grande, di pelle, che grazie agli effetti speciali vediamo trasparenti come il vetro, è l’ultima rappresentazione della complessità contraddittoria che accompagna questo motivo da Perrault in poi.
Il motivo della scarpa trovata da un sovrano, che si innamora della sconosciuta alla quale appartiene, risale all’antico Egitto, e riguarda il faraone Amasis II (VI sec. a. C.) e la cortigiana Rodopi, che diventò regina grazie alla sua preziosa scarpetta che un’aquila aveva preso e portato in alto, per poi lasciarla cadere accanto al faraone. Nell’antica fiaba cinese di Ye Xian (IX sec. d. C.) l’essenziale di Cenerentola è presente, compresa la scarpetta, che qui è un sandalo dorato, così piccolo che solo la protagonista, dotata di estremità idealmente minute, conformi all’ideale cinese, può indossarla. Ricordiamo che questo ideale cinese, così forte che i piedi delle bambine potevano essere deformati dalle fasciature volte a ridurne la misura, può essere interpretato come espressione del desiderio che le dimensioni dell’estremità fallica femminile fossero il più possibile ridotte, vale a dire rassicuranti per il pretendente che così poteva contare sulla sua superiorità.
Ma nel film di Branagh, vale a dire nell’ultima versione di Cenerentola, come nella nostra app-tale Gatta Cenerentola (2014), le dimensioni della calzatura non hanno importanza. Ci sono versioni, anche popolari, nelle quali si dice che la scarpa a certe donne andava troppo grande, ad altre troppo piccola.
Le piccole dimensioni della scarpa partono dalla versione di Perrault: Cendrillon ou la petite pantoufle de verre (1697), ma non sono una misura assoluta, come nell’antica fiaba cinese. Il bando dice che il principe sposerà la fanciulla il cui piede sarà quello giusto per la pantofola (il épouserait celle dont le pied serait bien juste à la pantoufle), e ciò che sappiamo è solo che il piede delle sorellastre era troppo grande. Cenerentola allora chiese di fare la prova, e il messo del re la fece sedere, e avvicinando la scarpetta al suo piccolo piede, vide che vi entrava senza sforzo, perfetta come se fosse di cera (Il fit asseoir Cendrillon, et approchant la pantoufle de son petit pied, il vit qu'elle y entrait sans peine, et qu'elle y était juste comme de cire). Un piedino morbido come di cera combina l’ideale cinese che riduce a ogni costo l’appendice fallica della donna – i feticisti non hanno dubbi su questa interpretazione del piede – e rassicura sul fatto che la sposa prescelta non tenterà in alcun modo di competere col futuro marito.


I Fratelli Grimm (1812) chiamarono Aschenputtel la loro Cenerentola, fecero tesoro sia di Perrault che della versione secentesca da noi proposta in Fabulando, e rinarrarono, arricchendola, la prova della scarpetta. Quando il principe arriva alla casa di Cenerentola, le due sorellastre di Ashenputtel a turno prendono la scarpetta tutta d’oro e vanno a provarla con la loro madre. Quando la prima non riesce a calzarla, la madre le consiglia di tagliarsi l’alluce: Tagliati il dito: quando sarai regina non avrai più bisogno di andare a piedi (Hau die Zehe ab: wenn du Königin bist, so brauchst du nicht mehr zu Fuß zu gehen). La figlia maggiore segue il suo consiglio, ma il sangue che cola dalla scarpetta rivela al principe l’imbroglio. È il turno della seconda, che come la prima non riesce a calzarla, e segue il consiglio della madre: Tagliati un pezzo di calcagno: quando sarai regina non avrai bisogno di andare a piedi (Hau ein Stück von der Ferse ab: wann du Königin bist, brauchst du nicht mehr zu Fuß gehen). L’inganno viene scoperto allo stesso modo, e il principe insiste per vedere l’altra figlia, nonostante gli dicano che è brutta e sporca: Cenerentola viene e calza a pennello la scarpetta d’oro.
Secondo Bettelheim il sangue che il principe vede colare dalla scarpetta rappresenta il sangue mestruale, e il fatto che il piede di Cenerentola non sanguini significherebbe che la fanciulla non è ancora mestruata, e pertanto la sua verginità è certa. L’interpretazione di Bettelheim rimanda all’orrore per il sangue mestruale, materia venefica per eccellenza, in opposizione al fluido spermatico, che sarebbe la materia corporea nobile per eccellenza. Da parte nostra, seguendo il simbolismo fallico legato al piede di cui abbiamo detto sopra, pensiamo che il gioco intorno al piede/pene, ovvero alla dotazione fallica della donna, si perda nel momento in cui c’è nella fiaba un taglio reale, del tallone o dell’alluce. La matrigna di Cenerentola esorta le sue figlie a castrarsi, dicendo loro che diventando regine potranno anche aver difficoltà a camminare, come le povere bambine cinesi con i piedi deformati perché non crescessero. Si può rinunciare alla propria autonomia – camminare con i propri piedi – per diventare regine: questa rinuncia, per la quale la donna rinuncia alle proprie attitudini falliche attribuendo il fallo al marito e ai figli maschi, è uno dei modi di sposarsi, ma la storia di Cenerentola racconta qualcosa di molto diverso.


Ricordiamo ora il gesto col quale, in ogni film, a partire da quello di Disney del 1950, una mano maschile calza il piede di Cenerentola. Si mette in scena un maschile, che sia lo stesso pretendente o un suo messo, che si inginocchia per far combaciare alla perfezione il piede – l’estremità fallica – della donna con il suo contenitore – simbolo del genitale femminile e dotato di una bellezza e di un pregio tali che può avere un prezzo che arriva a due milioni di dollari. Il pretendente riconosce il gioco della protagonista, che vuole disporre sia del contenitore che del contenuto, la sceglie proprio con questo atto, legittimando il desiderio femminile di non essere catturata dal maschile, di poter sfuggire alla sua presa.
Riconosciamo Cenerentola e le sue antenate da questa perfetta corrispondenza fra scarpa e piede, presente fin dall’Egitto dei faraoni e dalla Cina del IX secolo. Il riconoscimento della donna operato attraverso la prova della scarpetta rappresenta un’accettazione della sua completezza, quindi un desiderio maschile che non cerca una donna come essere mancante, come se la presenza di lui fosse possibile solo grazie alla mancanza di lei.

Andiamo ora alla fiaba di Basile, prototipo delle versioni moderne di Cenerentola, e vediamo che a monte del personaggio si trova un particolare che, rimanendo in diverse versioni popolari, è scomparso dalle versioni oggi diffuse. La protagonista è orfana di madre, il padre la ama senza riserve, ma ha una matrigna che non la accontenta come lei vorrebbe. La sua maestra di cucito invece è sempre gentile e affettuosa con lei, e le suggerisce di liberarsi della matrigna, per poi convincere il padre a sposare lei, così la piccola potrà avere una madre di suo gusto. Seguendo i consigli della maestra, la principessina fa cadere il coperchio di una cassapanca sul collo della matrigna, e dopo il suo funerale convince il padre a risposarsi con chi vuole lei. Così la protagonista non vuole riconoscere la propria ambivalenza, come non tollera la perdita della madre ideale dell'infanzia. Questa madre perfetta muore appena la figlia cresce, per lasciare il posto a una madre imperfetta, che non sa o non vuole accontentare la figlia, che per questo rivolge contro di lei un’aggressività senza limiti. La fiaba di Basile letteralizza questa aggressività raccontando il matricidio, al quale seguono le nozze del principe padre con la maestra di cucito. Il trattamento ricevuto dalla seconda matrigna fu perfettamente soddisfacente per una settimana, dopo la quale lasciò il posto a una vessazione ben superiore alla precedente. Chi pretende l’ideale non amando altro che la sua perfezione, diviene preda del suo opposto: la bestia, il mostro, il degrado, l’umiliazione. La ex-maestra di cucito porta a casa le sue sei figlie – che saranno ridotte a due successivamente – che tolgono tutto alla protagonista, alienandole anche l’affetto del padre. Dal salone alla cucina, dal baldacchino al focolare, dallo scettro allo spiedo, la principessina che voleva una madre su misura e non esitava a farla fuori se non la faceva felice, perde anche il suo nome, e da allora, sporca della fuliggine e della cenere del focolare, si chiama Gatta Cennerentola, dice Basile, Cenerentola, Cendrillon, Cinderella, diciamo noi ancora oggi. Il matricidio di Cenerentola è stato comprensibilmente rimosso dalle versioni correnti, ma il suo nome mantiene il colore e la materia della penitenza, la stessa che la liturgia ricorda nel mercoledì delle ceneri, che precede la quaresima, il tempo della rinuncia che finisce nella gloria della resurrezione.
Anche la calzatura posta da Basile ai piedi della sua Gatta Cennerentola è cambiata, ma il suo senso resta intatto. Era di gran moda ai suoi tempi, a Napoli, lo chianiello, una soprascarpa altissima che aumentava di un palmo e mezzo la statura di chi lo indossava, come dice il re innamorato parlando al chianiello che è scivolato via dal piede della bella sconosciuta. 

Già fustevo cippo de ’no ianco pede, mo site tagliole de ’no nigro core; pe vui era auta ’no parmo e miezo de chiù chi tiranneia ’sta vita, e pe vui cresce autrotanto de docezza ’sta vita, mentre ve guardo e ve possedo (e-book, p. 58). 

La prima calzatura di Cenerentola non aveva nulla a che fare con le scarpette o i sandali che ora immaginiamo ai suoi piedi. Né lo chianiello era particolarmente piccolo: nella fiaba si dice semplicemente che nessun piede poté indossarlo, finché non entrò nella reggia la sola che fino a quel momento non vi era stata portata: come il ferro corre alla calamita, così lo chianiello volò al piede di Cenerentola, aderendovi alla perfezione.


Sei decenni dopo la pubblicazione de Lo cunto de li cunti Charles Perrault riscrisse questa fiaba, intitolandola: Cendrillon ou la petite pantoufle de verre. Al grande ballo dove il principe – che in Basile era il re – sceglierà la sua sposa, Cendrillon arriva in pantofole? La fata che l’ha abbigliata come una regina le ha lasciato indosso le scarpe da casa? No, certo, perché sono di vetro. Pantofole di vetro, glass slippers in inglese. Si è pensato, a proposito del materiale, a un errore ortografico di Perrault, che intendesse far indossare a Cenerentola delle pantofole di vaio, o petit-gris, vair in francese, che suona come verre. Andare al ballo con pantofole di vaio, pelliccia molto preziosa, poteva essere ancora plausibile, ma con pantofole di vetro… Sulla questione si sono pronunciati personaggi del calibro di Honoré de Balzac, optando per la pelliccia, anche se questa razionalizzazione lasciava aperta la questione delle pantofole, in nessun caso adatte a un ballo di gala (gala ball). Non mi risulta che qualcuno abbia pensato che Perrault possa aver usato una traduzione disponibile al suo tempo per il napoletano chianiello, che, al di là dell’uso particolare di Basile, significa proprio ciabatta, pianella, pantofola. Altri, come Anatole France, hanno ricordato che se una zucca può diventare una carrozza Cenerentola può ben danzare con delle scarpette di vetro: trasparenti come l’acqua di sorgente, come il cristallo di rocca e come il diamante (vedi anche: Wikipedia, Controverse sur la composition des pantoufles de Cendrillon; consultato il 14/05/15).
La mitologia delle scarpette di Cenerentola, per le quali ultimamente, come abbiamo ricordato sopra, si sono attivati i nove maggiori stilisti del mondo, prende avvio da questa bizzarria di Perrault: il vetro è un materiale che non consente di camminare, tanto meno di danzare, e le pantofole sono scarpe da casa, che Cenerentola indossa quando finalmente lascia la sua oscurità per splendere di fronte al principe. Mentre Basile portò Cenerentola nella passeggiata a incantare il re in incognita, Perrault la portò al ballo, assicurandoci che con le pantofole di vetro fece un ingresso trionfale, e poi …ballò con tanta grazia che tutti l’ammirarono ancora di più (Elle dança avec tant de grace qu’on l’admira encore davantage).

Perrault introduce un altro particolare, che molti ormai considerano parte irrinunciabile della favola, vale a dire che gli abiti magici della protagonista, la carrozza dorata e il suo equipaggio allo scoccare della mezzanotte si sarebbero ritrasformati in logori stracci, zucca, topi e ramarri. Nella versione di Basile Cenerentola ha coltivato il magico dattero che le ha mandato la fata con i magici attrezzi d’oro, e quando è cresciuta una palma all’altezza di una donna, ne esce una fata che le chiede cosa vuole. La Gatta Cennerentola vuole andare alla passeggiata senza che lo sappiano le sue sorelle, e la fata, dopo aver fatto comparire abiti, gioielli, cavalcatura portati da uno stuolo di sarte, gioiellieri, parrucchieri, truccatori, le insegna una formula magica per spogliarsi al ritorno, che, con una minima variazione le servirà a rivestirsi quando vorrà. Non ci sono vincoli di orario, né limiti al numero di volte che ricorrendo alla palma da dattero potrà vestirsi e spogliarsi magicamente:

Dattolo mio ’naurato,
co la zappetella d’oro t’aggio zappato,
co lo secchietiello d’oro t’aggio adacquato
co la tovaglia de seta t’aggio asciuttato,
spoglia a te e vieste a me! / Spoglia a me e vieste a te!
(Ibid., p. 38)

La fata di Perrault, che impone il limite della mezzanotte, corrisponde a una Cenerentola più passiva, ma non per questo meno affascinante, anche perché il trionfante lieto fine è comune a tutte le versioni. Rispetto a Basile una cosa importante si perde, vale a dire la particolare sensibilità del re, che invita a pranzo tutte le donne della città, …e nobele e ’gnobele, e ricche e pezziente, e vecchie e figliole, e belle e brutte (ibid., p. 60). Prova a ciascuna di loro lo chianiello, ma non trovando la sua amata, ripete l’invito a tutte le donne per l’indomani, e di nuovo raccomanda che tutte, ma proprio tutte, vengano alla reggia.
A quel punto il principe padre di Cenerentola dice che ha sì un’altra figlia, che però è così desgraziata e da poco (p. 64) che non è il caso di farla sedere alla tavola del re. Disse lo re: «Chesta sia ’n capo de lista, ca l’aggio da caro». E così il giorno dopo, insieme alle sei sorellastre, entrò Cenerentola: la quale, subeto che fu vista da lo re, l’ebbe ’na ’nfanzia de chella che desiderava; tuttavota semmolaie. (gli dié l'impressione di quella che desiderava; e nondimeno dissimulò. (Ibid., pp. 66-67)
Poco più tardi, mentre lo riprovava a tutte le donne, lo chianiello gli sfuggì di mano e volò al piede della Gatta Cennerentola. Il re la mise sotto un baldacchino, la incoronò e ordinò a tutte le donne di inchinarsi davanti a colei che ora era la regina.


Al gioco di marionette degli attanti fiabeschi, il genio di Basile conferisce note di umanità che fanno delle sue fiabe il più grande capolavoro del genere fiabesco europeo. Ma se Perrault non avesse dato a Cenerentola le impossibili e vere pantofole di vetro per danzare, Walt Disney non avrebbe animare il suo magnifico ballo, quando tutti gli invitati come aveva raccontato Perrault, si fanno da parte, e solo il principe e Cenerentola esistono, rispecchiandosi l’una nell’altro. Si riconoscono e si innamorano con la stessa facile reciprocità con la quale la scarpetta, che tra poco Cenerentola perderà sulla scalinata, alla fine calzerà il piede di lei. Tutto accade con una facilità che corrisponde alla rapidità con la quale la protagonista perde la madre, l’amore del padre e tutta la sua dignità principesca. Le fiabe sono maestre di trasformazioni, raccontano come sia impadroneggiabile il mutare delle condizioni, e come assecondare questo movimento sia la sola cosa che permette di attraversarle per crescere e ottenere un finale felice. (A proposito del finale felice, vedi anche: Adalinda Gasparini, Amore di fiaba, 1994)


Nei film Disney, sia il primo, del 1950, sia l’ultimo, del 2015, il ballo è uno solo, mentre Perrault lo ripete, per raccontare come Cenerentola la seconda volta sia stata sul punto di dimenticare la raccomandazione della fata, rischiando di trasformarsi davanti al principe in una povera ragazza coperta di stracci, scortata da topi e ramarri. La sua fuga è precipitosa, e per questo perde una scarpetta, che subito il principe raccoglie. Nella versione di Basile, la terza volta che la Gatta Cennerentola lascia la passeggiata in carrozza, non volendo far scoprire chi sia, a differenza delle altre due volte rischia di non farcela, e a quel punto la carrozza corre così forte che quasi vola. In quel momento cade lo chianiello che abbiamo visto nelle mani del re. Il volo, la leggerezza, la grazia nella danza, la fuga velocissima, appartengono strutturalmente a Cenerentola.
Anche Aschenputtel, la Cenerentola dei Fratelli Grimm ha una prodigiosa leggerezza. Dopo essersi recata al ballo, che si ripete per tre sere, Ashenputtel torna a casa, senza alcun vincolo d’orario, e il principe vuole accompagnarla, ma lei gli si sottrae: la prima sera con un balzo rientra in casa dalla colombaia, la seconda sera si arrampica su un pero con la velocità di uno scoiattolo e dall’albero entra in casa. La terza sera il principe escogita un modo per non perderla: cosparge di pece la scala del palazzo, e suo malgrado Ashenputtel lascia dietro di sé una scarpetta d’oro.

C’è un’immagine di Arthur Rackham che potrebbe intitolarsi La fuggitiva, nella quale Cenerentola fugge dal ballo verso casa vestita di stracci, e sta per poggiare a terra un piede scalzo, mentre l'altro piede è levato in alto, e calza ancora una scarpetta col tacco (vedi l'immagine di copertina de La Gatta Cenerentola - e-kamishibai). L’altra, lo sappiamo, è ormai nelle mani del principe innamorato. Come può correre quasi volando, veloce e leggera, con un piede calzato e uno no? E poi, come mai le eleganti scarpe, che facevano parte del vestito magicamente fornito dalla fata, non sono scomparse a mezzanotte?
Rackham ha illustrato la Cenerentola di Perrault, ma essendo un grande artista ne ha fornita una sua versione. La fata, per esempio, appare come una strega o una befana, introducendo un elemento perturbante che manca in Perrault e in Disney (1950) (vedi La Gatta Cenerentola - e-book). Lo ha recuperato Branagh, che introduce la fata madrina negli abiti laidi di una mendicante, che solo dopo essere stata accolta da Cenerentola si trasforma nella splendida fata, tutta luce e oro (vedi anche: La Gatta Cenerentola - Versione delle Autrici di Fabulando)

Ma torniamo al doppio paradosso della pantoufle de verre.
Le scarpe di Cenerentola create dai nove maggiori stilisti del mondo hanno un tacco altissimo. Non sono certo pantofole, ma come la calzatura della Cenerentola secentesca hanno un tacco altissimo. Cenerentola volteggia leggera nella sala da ballo, e nel salone da ballo preparato per lei e per il principe da Walt Disney tutti gli altri invitati si fermano per lasciare spazio a loro, che volteggiano in un walzer. Così anche in Branagh, dove il meraviglioso abito azzurro di Cenerentola dà la sensazione di una magica leggerezza ed è stato realizzato con 240 metri di tessuto, sul quale sono stati applicati 10.000 cristalli Swarovski. La leggerezza di questo abito reale non è meno paradossale delle pantofole di vetro.
Ci sembra che il tratto che caratterizza Cenerentola sia la compresenza di possibile e impossibile. Dalla colpa - prendere il posto della madre, guidare la vita del padre, eliminare fisicamente la figura materna che non accontenta la figlia – al lutto – la cenere, l’isolamento, l’invisibilità. E da questo, in un batter d’occhio, passare in piena luce, e risplendere di luce propria. Dalla pretesa di una centralità assoluta alla disillusione sulla possibilità di ottenerla, anzi, al posto della realizzazione del desiderio onnipotente, il suo opposto, una perdita totale, che riguarda persino il nome.
Walt Disney ha costruito un ponte fra la fiaba e la realtà col suo film del 1950, perché il film dà una forma a ciò che la parola evoca, una forma che si avvicina alla realtà quotidiana. Su questo ponte lo chianiello, divenuto petit pantoufle de verre, è uscito dal regno del fantastico per entrare nei negozi, negli atelier di alta moda e nei siti internet.
Che il vetro introdotto da Perrault sia casuale o volontario, diventa un elemento essenziale della fiaba, perché lascia il piede come nudo, eppure vestito di una materia solida, e non scompare insieme al vestito da regina, ai gioielli, ai lacchè e ai cavalli. La potenza di Cenerentola, e il fascino delle scarpette paradossali che indossa e perde, che la rappresentano bene, è il suo essere nuda e vestita – nel piede – abbigliata come una regina, e coperta di stracci, splendente come un piccolo sole e oscura come la fuliggine del focolare. Volteggia leggiadra in un vestito che pare fatto di nuvola e di cielo, che però ha richiesto quaranta chilometri di cuciture per confezionare centinaia di metri di tessuto, muove sicura i piedi vestiti di un materiale, il vetro, che si romperebbe al primo passo, va al ballo e fugge, è presente e assente. Ciò che distingue Cenerentola da altre attanti fiabesche, altrettanto affascinanti e come lei circondate di simboli, è la compresenza in lei, e soprattutto nella sua calzatura, di possibile e impossibile. Attraverso la sua fuga, con o senza la condizione posta dalla fata madrina, Cenerentola manifesta la sua determinazione a sottrarsi alla presa maschile, la sua capacità di accendere il desiderio e lasciarlo sospeso, secondo un gioco femminile che niente e nessuno può dominare né regolare. Il regale innamorato vuole farla sua regina proprio perché si innamora di questo gioco, e non si sposerà se non con la donna che manifesta il suo desiderio di non essere catturata. Tutte, proprio tutte le donne della città hanno cercato inutilmente di spacciarsi per lei, cosicché Cenerentola realizza il desiderio di sconfiggere tutte le rivali, la matrigna e le sorellastre non meno che tutte le altre donne.
L’amore per Cenerentola e per le calzature ispirate alla sua storia, che lasciano nudo il piede da Perrault in poi, non è solo espressione del desiderio femminile di vivere in armonia le proprie contraddizioni, prima fra tutte il desiderio di essere presa e il desiderio di sfuggire a qualunque presa. È la realizzazione immaginaria dell'unione con un nobile innamorato che sceglie la donna proprio perché non rinuncia a questo desiderio, mentre lo stereotipo tuttora dominante vorrebbe che lei desiderasse solo la realizzazione dei desideri maschili, del padre, dello sposo, dei figli.
Mettendo in gioco questo desiderio, ogni donna è la sola donna, e se lascia dietro di sé una scarpetta, il suo pretendente deve sapere, comprendendo la sua unicità, che gli basterà per trovarla.


La leggerezza della danza e la fragilità del vetro o del cristallo, la sua trasparenza, ma, soprattutto, la loro possibile impossibilità, permettono di allestire uno spazio nel quale, per la durata del racconto, del film, della fantasia, il desiderio femminile trionfa, e il desiderio maschile, anziché temerlo o pretendere di dominarlo, ne riconosce il valore. (AG)


(Vedi anche: Adalinda Gasparini, La luna nella cenere. Analisi del sogno di Cenerentola, Pelle d'asino, Cordelia, 1999)






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Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba



Fra le tante immagini che escono dalle fiabe per abitare il mondo, anche separate dalla loro storia, c'è Prezzemolina (Petrosinella per Basile, Rapunzel per i Grimm e per Disney) che ha capelli biondi splendenti come l'oro, e lunghi, tanto lunghi che l'orca li usa per salire fino alla sola finestrella della sua torre. La storia comincia con la madre che è incinta dell'attante protagonista, e cede alla voglia di prezzemolo. La superstizione delle voglie durante la gravidanza ha una lunga storia, e il danno che verrebbe dalle brame smodate della futura mamma appartiene alla convinzione che i danni al bambino prima della nascita dipendessero dalla sfrenata immaginazione delle gestante. Ma il prezzemolo appartiene all'orca di questa fiaba, e prendendolo più volte di nascosto la donna contrae un debito con lei. L'ingiunzione della segregazione apre la fiaba attraverso il patto fra la madre e l'orca, figura materna minacciosa e dotata di poteri magici, che ucciderebbe la donna se non le promettesse il frutto della sua gravidanza. L'orca esige la bambina quando ha compiuto sette anni, e costruisce per tenerla con sé la torre senza porte.

La donna vecchia edifica la torre, che, simbolo di potenza fallica, si eleva verso l'alto, e tiene per sé la bambina. Grazie al vigore della giovinezza della sua prigioniera, i meravigliosi capelli, la vecchia può salire in alto, formando con lei una coppia separata dal resto del mondo. Ma nelle fiabe non c'è modo di impedire che la vita fluisca, e la maturità di Prezzemolina evoca il principe amante e amato, che si incanta per la bellezza dei capelli e del volto di lei. Il fascino e la potenza della chioma più lunga del mondo delle fiabe, finora utilizzati solo dall'orca per ascendere e unire la sua vecchiaia alla giovinezza, servono al principe che sale ed entra dalla piccola apertura, per progettare la fuga. Prezzemolina non ha passato invano il suo tempo con l'orca: conosce il sonnifero col quale potrà addormentarla, e ascoltando i discorsi dell'orca con una vicina scopre che ci sono tre ghiande con le quali la sua fuga potrà riuscire. Il principe porta una scala di corda, e dopo aver preso le tre ghiande i due giovani si danno alla fuga. L'orca li insegue, ma ogni volta che sta per raggiungerli una ghianda fa apparire tre animali. I primi due la fermano, il terzo la divora, e così i due giovani giungono sani e salvi nel regno di lui, dove si sposano per vivere felici e contenti.

Il motivo di un'orca o di un'altra creatura misteriosa e inquietante che si appropria di una bambina non è raro, e la fiaba racconta di come crescendo l'attante protagonista dalla sua prigione conquisti un principe e possa abbandonare la minacciosa madre adottiva. Come l'orco in altre fiabe (La fiaba dell'orco), la creatura del mondo sotterraneo, che costringe un genitore a darle una sua figlia, si può rivelare una sorprendente educatrice, capace di insegnare la gratitudine alla fanciulla che ha tenuto con sé (vedi anche, ne Lo cunto de li cunti di Basile: Trattenemiento ottavo de la jornata primma, La facce de crapa)

Dalla parte dell'attante materno questa fiaba pone una futura madre che non riuscendo a resistere alla sua voglia dà la figlia in balia dell'orca e l'orca stessa, che così possiede la sua giovinezza, dalla parte dell'attante filiale mette una fanciulla bellissima, come tutte le attanti protagoniste, e la dota di capelli talmente lunghi che rendono accessibile la cima della torre dove è cresciuta. Sarà la stessa orca a fornirle i mezzi per sconfiggerla, anche se involontariamente: le tre ghiande sono l'eredità magica destinate alla sua figlia adottiva, grazie alla quale può liberarsi. Come era apparsa sulla scena delle fiaba prima della sua nascita, l'orca scompare per consentirle di vivere felice col principe ereditario. (AG)



Vedi anche, in questo file, Un'antica voglia di prezzemolo.




IngleseLa Bella addormentata nel bosco
Veliero della maledizione
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba



"La Bella Addormentata nel Bosco" insegna che un lungo periodo di quiescenza, di contemplazione e d'introspezione può produrre e spesso produce i massimi risultati
. (Bettelheim, p. 218). Così Bruno Bettelheim interpreta il significato del sonno centenario e ne deduce che il bambino o la bambina ascoltando questa fiaba possono capire che attendere a lungo prima di incontrare sessualmente l'altro e generare non equivale a subire un danno. Secondo la sua interpretazione il trauma che induce il sonno dell'attante protagonista è l'arrivo delle mestruazioni, che equivarrebbero alla maledizione lanciata dalla tredicesima fata nella versione di Perrault. Quanto all'oggetto appuntito che la punge, il fuso nella versione di Perrault, una conocchia in quella dei Grimm, una resta di lino nella versione di Basile, Bettelheim lo legge senza esitazioni come simbolo fallico:

A questo punto la storia abbonda di simbolismo freudiano. Nell'avvicinarsi al luogo fatidico, la ragazza sale per una scala a chiocciola; nei sogni queste scale rappresentano in modo tipico delle esperienze sessuali. In cima a questa scala essa trova una porticina con una chiave infilata nella toppa della serratura. Girata la chiave, la porta "si apre di scatto,” e la fanciulla entra in una stanzetta dove una vecchia è intenta a filare. Nei sogni una stanzetta chiusa a chiave rappresenta gli organi sessuali femminili; spesso l'atto di girare una chiave in una serratura simboleggia il rapporto sessuale.

Quando la vecchia che fila, la ragazza le chiede: "Cos'è questa cosa che salta qua e là in modo così bizzarro?" Non ci vuole molta immaginazione per capire le possibili connotazioni sessuali della conocchia, ma non appena la ragazza la tocca si punge un dito, e cade addormentata (Bettelheim, p. 224).

Nella mitologia, sia classica, sia medievale, la filatrice era Cloto, che estraeva il filo della vita, mentre la sorella Lachesi lo avvolgeva sul fuso determinandone la durata. La terza, Atropo lo tagliava, e il suo taglio corrispondeva alla morte. L'incontro della Bella Addormentata con la filatrice è il suo incontro con il mistero della nascita e della morte che si compie nella donna, che può mettere al mondo un bambino correndo un rischio che riguarda sia il bambino che la sua stessa persona. Il senso del tempo che deve passare, lunghissimo, un secolo, oppure indeterminato, come in Basile, incommensurabile, corrisponde all’impazienza di crescere, vale a dire di prendere il posto della madre, impadronendosi dei suoi beni, della sua seduttività e del possesso del padre amato. Lo stesso giorno in cui diventa una l'attante protagonista femminile accede al mistero della vita e della morte, e questo incontro precoce le impone di aspettare nel sonno che il giusto tempo sia trascorso. Sia nella storia di Basile che in quella di Charles Perrault, che fa parte di questa raccolta, il risveglio della protagonista femminile non coincide col lieto fine. Una figura materna persecutrice tenta di eliminare i suoi bambini e lei stessa, magari bruciandola sul rogo, come accadeva con le streghe e le donne colpevoli di eresia. I conti fra la discendente e l'ascendente non si possono chiudere col risveglio e l'unione col principe o col re. Questa fiaba riguarda il conflitto della figlia con la madre, del desiderio della figlia di prenderne il posto troppo presto, del desiderio della figura materna, la suocera, la regina madre del suo sposo, di vendicarsi contro la giovane bella e innocente per la sua vecchiaia. Nella versione che tutti ricordano è una fata, più vecchia delle altre e dimenticata, che vuole la morte della Bella Addormentata, e a niente vale il decreto paterno, che proibisce nel regno la filatura sperando di proteggere la principessa dalla sua precoce ascesa alla stanza dei segreti femminili. Quanto al fuso o alla conocchia, nel contesto tutto femminile in cui la fiaba presenta questi oggetti pare poco probabile che essi rappresentino il fallo maschile. Se poi pensiamo alla resta di lino, che nella versione di Basile Sole, Luna e Italia e nella più antica storia di Troilo e Zellandine, raccontata nel Roman de Perceforest, induce lo stesso lunghissimo sonno, è difficile vedervi un simbolo fallico. Si tratta piuttosto di espressioni del potere femminile - quello rappresentato dalle Parche, che non erano soggette neppure a Zeus - che hanno nel fuso o nella resta di lino il loro simbolismo, come penetrazione pungente e mortifera della dimensione tragica necessaria alla crescita.

La parte della storia che segue il risveglio della Bella, soppressa dai Fratelli Grimm e assente in Disney come nelle versioni correnti, conferma che l'area del conflitto è fra madre e figlia. Del resto la maledizione della tredicesima fata, vendicativa perché vecchia e trascurata, segnala lo stesso tema anche nelle versioni in superficie meno cruente e più romantiche. Nella fiaba secentesca e nel romanzo Perceforest il risveglio non avviene per il bacio che riceve la protagonista durante il sonno, e anzi continua a dormire dopo che il suo visitatore l'ha posseduta e fecondata, e anche dopo il parto. È uno dei bambini venuti alla luce durante il sonno incantato che succhiandole un dito invece del capezzolo fa uscire la resta di lino o di canapa che aveva provocato il sonno. Il pieno risveglio erotico della donna può non avvenire col primo rapporto sessuale e nemmeno con molti rapporti. La gravidanza e il parto, esperienze fondamentali nella vita della donna, non appartengono però alla sfera erotica.

L'amore per il figlio può svegliare la sua passione per la vita e il piacere legato al suo corpo, come un incontro passionale anche limitato nel tempo. Solo allora la donna si apre all'altro perdendo la propria verginità psichica, anche molto tempo dopo che ha perso quella fisica, e il suo desiderio si sveglia nel corpo come nella mente. Ma perché questo accada occorre che si dia un corpo a corpo con la figura materna, che da una parte è lesa dal desiderio della figlia di prevalere su lei, dall'altra gioca la sua partita cercando di impedire alla figlia di svegliarsi alla passione che la rende donna. (AG)



Nella fortuna della Bella di questa fiaba, che dopo cent'anni si sveglia per le scosse del principe innamorato che se la sta portando a palazzo con tutta la bara (Rosaspina, Fratelli Grimm, 1812)), o per il suo bacio (Sleeping Beauty, Disney, 1959), o per uno dei gemelli che cercando il seno succhia via la lisca dal suo dito, dopo il parto seguito e il fecondo rapporto col re, durante i quali Talia aveva continuato a dormire (Sole, Luna e Talia, Basile 1634), con la grazia intatta del suo quindicesimo o sedicesimo compleanno, c'è qualcosa che ricorda il miracolo dei corpi intatti delle sante cristiani. Corpi interi e parti dei corpi di santi e sante sono venerati nelle chiese di tutto il mondo, come il corpo di papa Giovanni XXIII, trovato intatto dopo quasi otto lustri dalla  morte.
Il miracolo religioso dei corpi intatti migra dalla religione alle piccole fiabe, altrettanto potenti?
Se leggiamo la versione di Perrault, sembra di sì.

Il entre dans une chambre toute dorée, et il voit sur un lit, dont les rideaux estoient ouverts de tous costez, le plus beau spectacle qu’il eut jamais veu: une princesse qui paroissoit avoir quinze ou seize ans, et dont l’éclat resplendissant avoit quelque chose de lumineux et de divin.
Turbato eppure pieno di coraggio il giovin principe scostò le cortine: gli apparve il più bello spettacolo che avesse visto mai, una principessa che mostrava dai quindici ai sedici anni, e nel cui aspetto sfolgoreggiante c'era qualche cosa di luminoso e di divino.
(Perrault pp. 68-70) (Collodi, p 71 e-book IT)

Di questa fiaba esiste anche l'e-kamishibai, accessibile dalla carta della fiaba.

(AG, 2 aprile 2023)





IngleseSole, Luna e Talia
Veliero della maledizione
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba



Sole, Luna e Talia
è la prima versione pubblicata al mondo della celebre fiaba della Bella Addormentata. La scrisse Giambattista Basile nel Seicento inserendola nella sua raccolta Lo cunto de li cunti, raccontando che alla nascita della piccola Italia, il padre chiama i sapienti e gli indovini perché predicano il suo destino: tutti concludono che la bambina correrà un pericolo mortale a causa di una lisca di lino. Il padre tenta allora di rimuovere questo cattivo destino, bandendo il lino dal suo palazzo.
Ma, alla soglia dell’età adulta, Talia vede passare per strada una vecchia col fuso e, affascinata, le viene un gran desiderio di provare a filare, tanto che fa salire la vecchia in casa,

e, presa la rocca in mano, cominciò a tendere il filo, ma una lisca di lino disgraziatamente le si infilò sotto l'unghia e cadde a terra morta. (e-book, p. 11)

Come tutti i padri delle Belle Addormentate, anche il padre di Talia cerca di evitare l’avverarsi dell’infausta profezia che pende sul capo della figlia e anche lui fallisce: fuggire il destino, nelle fiabe, porta immancabilmente a incontrarlo.
Possiamo leggere di un sonno fatale del tutto simile a quello raccontato da Basile nel Roman de Perceforest (XIV-XV sec.), un lunghissima opera in prosa che narra la storia di Inghilterra a partire da un mitico sbarco di Alessandro Magno sull’isola. Fra le molte storie, troviamo quella di Zellandina che un giorno, filando con le sue damigelle, inspiegabilmente cade addormentata. Sarà la zia, dopo il suo risveglio, a rivelarle che tre dee avevano presieduto alla sua venuta al mondo: Lucina, Venere e Temi che nel romanzo rappresentano rispettivamente la protettrice delle partorienti, l’amore e la generatività, e infine il destino. Dopo la sua nascita, le tre dee si erano sedute a una tavola superbamente imbandita apposta per loro e Temi, la dea del destino, si era ritrovata priva del coltello, che, senza che nessuno se ne accorgesse, era caduto per terra. Infastidita per questo fatto la dea, invece di una benedizione, aveva pronunciato una maledizione:

... dato che io sono quella che non ha avuto il coltello, le dò questo destino, che dal primo filo che tirerà dalla sua conocchia le entrerà nel dito una scheggia in modo tale che si addormenterà di colpo e non si sveglierà fino a quando non le sarà succhiata fuori. (Franci-Zago, p. 52)

Ma la zia racconta a Zellandina anche che Venere si impegna a usare le proprie arti per far sì che la fanciulla sia svegliata, mitigando così la terribile sorte assegnatole da Temi.
La maledizione della dea del destino dovuta a una casualità, presente nel romanzo francese, in Basile diventa un’impenetrabile cattiva sorte scritta nelle stelle, mentre, dopo di lui, Charles Perrault recupererà la storia della dea infastidita: nella Belle au bois dormant infatti si racconta di una fata dimenticata alla quale, quando si presenta al battesimo della bambina, non tocca il

magnifico astuccio d’oro massiccio, che conteneva un cucchiaio, una forchetta e un coltello d’oro finissimo, tutti guarniti di diamanti e rubini. (e-book, pp. 9-11)

Sul significato della fata di Perrault o del destino scritto nelle stelle di Basile rimandiamo alla nota di lettura della fiaba La Bella Addormentata nel bosco, ricordiamo qui che il sonno fatale della fanciulla è causato da oggetti tipici dei lavori femminili e che simbolicamente rimandano alle Parche, le dee che filavano il filo della vita umana, determinandone l’inizio, la durata e la fine. La fiaba della Bella Addormentata, in questo senso, racconta dell’incontro con la dimensione profonda della potenza femminile in cui si intrecciano vita e morte.   

Ma riprendiamo il filo della storia di Sole, Luna e Talia.
Mentre dorme come morta, un re, durante una battuta di caccia, si trova a passare dal palazzo in cui giace la fanciulla dormiente. Incuriosito, il re entra, gira per le stanze deserte, finché non vede Italia, bellissima. Sulle prime la chiama e la scuote per svegliarla, ma poi, accesosi di passione per lei, coglie il frutto del suo amore. Nove mesi dopo, Italia, sempre dormendo, partorisce due bellissimi bambini, Sole e Luna, che, cercando il seno della madre, trovano il suo dito. Così, le succhiano via la lisca di lino e lei riapre gli occhi: l’esperienza della maternità consentita dall’incontro con il maschile porta Talia a risvegliarsi.
Ma la fiaba non finisce qui: il cattivo destino si ripresenta ferocemente e Talia rischia di nuovo di morire.
Come il Rajah che sveglia Surya Bai, infatti, il re che sveglia Talia ha già una moglie che intuisce il tradimento del marito. E come la fanciulla indiana non ha percezione del pericolo, così Talia non si fa domande: dopo un certo tempo dalla nascita dei suoi figli il re torna da lei, le racconta di come sono andate le cose quando l’ha trovata addormentata e, dice Basile, «fecero un’amicizia e un’alleanza grandi» (e-book, p. 19). Quando il re dopo qualche giorno se ne va, Talia non batte ciglio. È come se la storia ci dicesse che Talia non trova niente di strano nel fatto che il re la prenda e l’abbandoni a suo piacimento. E quando giunge da lei un servo a prendere i bambini dicendole che il re li vuole con sé a palazzo, lei di nuovo non si fa domande e glieli lascia portare via. Il servo in realtà è mandato dalla regina, che ordina al cuoco di uccidere Sole e Luna e cucinarli per cena, ma il cuoco in segreto scambia i bambini con due capretti. Poco tempo dopo la regina manda il servo da Italia per far venire lei stessa al castello e lei, tutta felice di poter finalmente rivedere il suo amore, parte all’istante. Ancora una volta non si fa nessuna domanda e finisce diritta nelle grinfie della regina.
Di nuovo Talia si trova a confrontarsi con un potere femminile potenzialmente mortale: come la lisca di lino le aveva causato un sonno simile alla morte, così adesso la regina vuole ucciderla. Aiutanti fondamentali in entrambe le situazione sono gli attanti maschili: nella prima parte della storia il re, grazie al quale Talia partorisce i due figli che la svegliano, nella seconda parte il cuoco, che salva la vita ai bambini e a lei stessa, e nuovamente il re che, arrivando nel momento in cui la regina sta per gettare Talia nel fuoco, salva la fanciulla e punisce la cattiva. (CC)



IngleseSfurtuna
Veliero della maledizione
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba



Sfurtuna è una fiaba che cattura l’attenzione e il cuore dell’ascoltatore per la storia struggente, i personaggi dai vivi colori e la vitalità linguistica della versione siciliana raccolta da Giuseppe Pitré. Nella Carta fiabesca della successione, Sfurtuna è presente nel quadrante sud est: est in quanto l’attante protagonista è femminile, sud perché la questione che deve affrontare è insita nel suo rapporto con la figura genitoriale materna, rappresentata nella storia dalla mendicante che la indica come la causa della mala sorte della famiglia e dalla madre che la caccia di casa. E la fanciulla ha davvero una mala Sorte che la segue ovunque vada, come una maledizione che manda in rovina ogni cosa che fa. In questo senso l’ingiunzione alla quale appartiene la fiaba è il Veliero della maledizione.
Ora, però, quando si sente completamente perduta, ecco che Sfurtuna incontra la Gnà Francisca che non la tratta da ospite estraneo, dandole un piatto di minestra e lasciandola sola, ma le offre di lavorare con lei, e cioè di lavare, stirare, inamidare i vestiti del Riuzzu. Le due donne lavorano insieme, e ogni settimana la Gnà Francisca porta i panni al Riuzzu che le dà in cambio il denaro con il quale la donna cucina del cibo e compra oggetti tipici femminili, abiti, pettini, creme di bellezza, da regalare alla Sorte di Sfurtuna. In questo modo la fiaba racconta di come, grazie alla mediazione di una figura materna donatrice, la fanciulla possa prendersi cura del maschile e di come da questa cura possa derivarne una ricchezza che, grazie ancora una volta all’azione della figura materna, può essere trasformata per consentire alla giovane di rapportarsi alla propria sorte facendone, da nemica che era, un’alleata. È la Sorte infatti che dona a Sfurtuna l’oggetto che le consente di incontrare finalmente il Riuzzu e sposarlo.

Soffermiamoci per un momento su questo oggetto: si tratta di un palmo di gallone, un pezzo di passamaneria, un tessuto grande quando il palmo di una mano. Come può pesare più dell’oro? È magia, pensiamo mentre ci gustiamo la storia. E poi non ci pensiamo più: Sfurtuna entra bellissima nella sala del trono, fa la sua riverenza, racconta la sua storia e il Riuzzu ripaga, letteralmente, i danni della cattiva sorte della fanciulla. Poi i due si sposano e Sfurtuna ritrova sua madre. Al palmo di gallone non ci pensiamo più. Un po’ come Sfurtuna che, non conoscendone il valore, lo butta in fondo al canterano. Eppure, la magia di quell’oggetto è estremamente pregnante. Pensiamo al Riuzzu: può misurare ogni cosa, il valore del lavoro che viene svolto per lui e il valore di ciò che è stato rovinato, e non può misurare il valore di un semplice palmo di gallone? Sappiamo che in realtà non è così semplice. Sappiamo che quello è il dono che la Sorte fa a Sfurtuna e la profondità del suo significato sta nella profondità del rapporto che la fanciulla ha con la propria sorte, con quella parte di sé che ha il potere di indirizzare la sua vita, una parte evidentemente legata alla sua identità femminile: non solo la Sorte è un attante femminile nella storia, ma i doni che Sfurtuna le porta sono abiti e belletti. Il palmo di gallone quindi è intimamente connesso all’identità femminile della fanciulla. E, sembra dire la fiaba, un oggetto del genere non si può quantificare o misurare: il suo valore risiede in qualcosa d’altro, impalpabile come un tessuto leggero, prezioso come l’ornamento che manca ad un abito da sposa. (CC)




IngleseSurya Bai
Torre della segregazione
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba



Una madre, una povera lattaia, al ritorno dal mercato si addormenta stanchissima sul ciglio della strada. Ha con sé sua figlia di appena un anno che, lasciata sola, viene rapita da due aquile che la portano su un albero altissimo nel loro nido chiuso da sette porte di ferro, e le danno il nome di Surya Bai, Signora Sole. Lassù la bambina è allevata amorevolmente dalle aquile che la ricoprono di vestiti bellissimi e gioielli meravigliosi, ma non scende mai dall’albero, né sa cosa ci sia fuori dal nido. L’inizio di questa fiaba indiana ha un andamento simile alla fiaba di Prezzemolina, nella quale la madre, cedendo ad una voglia irresistibile, lascia che la strega si porti via sua figlia e la faccia vivere in una torre altissima che ha un’unica finestrella. Come Prezzemolina, attante protagonista di una delle cinquanta fiabe de Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, anche Surya Bai cresce quindi nella condizione di segregata, a causa di un cedimento della madre e, come quella di Prezzemolina, la storia di Surya Bai appartiene all’ingiunzione della Torre della segregazione, l’unica ingiunzione che si trova solo nel Quadrante Sud-Ovest, quello in cui le attanti protagoniste sono femminili e le ingiunzioni materne.
Lo sviluppo narrativo della storia indiana, però, introduce elementi diversi dalla storia di Basile e dalle altre versioni raccolte nei secoli successivi (ne citiamo una per tutte: Rapunzel, oggi molto conosciuta, grazie all’animazione della Disney del 2010, che ha rinarrato la storia in una variante contemporanea ). Surya Bai esce infatti dal suo nido fortificato da sola, per un bisogno legato al cibo. Quando le aquile partono per andare a cercarle un anello principesco da mettere al mignolo, Surya Bai rimane sola con una cagnolina e una gattina, la quale, dopo qualche giorno, ruba del cibo dalla dispensa. Surya Bai la punisce per questo, e la gatta, per vendicarsi, corre a spegnere il fuoco. Così Surya Bai, senza più pietanze e senza il fuoco per prepararle, non può mangiare, e decide di andare a cercare il fuoco. La fanciulla quindi esce dalla sua prigione senza alcun aiuto e senza aver conosciuto nessun altro se non figure genitoriali. E in un’altra figura genitoriale si imbatte: in un climax ascendente, dopo una madre che non è riuscita a proteggerla e due educatori che l’hanno tenuta rinchiusa, la fanciulla incontra ora una vecchia Raksha, un terribile demone che vuole mangiarla. Appena la vede, infatti, la vecchia le chiede di fare dei lavori per lei, perché aspetta il ritorno di suo figlio, anche lui un Raksha, che può uccidere Surya Bai in modo che lei possa cucinarla. La fanciulla non si rende conto di dove è capitata, svolge tutti i compiti assegnati, ma alla fine chiede il tizzone che la vecchia le ha promesso. Non potendo negarglielo, ma non essendo ancora tornato suo figlio, la Raksha le chiede di lasciar cadere dei chicchi di grano durante la via del ritorno per formare un sentiero fra le due case. La fanciulla, senza nulla temere, esegue anche questo compito e torna al suo nido sull’albero. Non conoscendo altro che la propria segregazione, al contrario di Prezzemolina che incontra un principe e, innamorata, desidera fuggire dalla torre, Surya Bai non può che tornare sull’albero altissimo, senza nemmeno pensare di scappare.
Il figlio della vecchia Raksha intanto torna a casa e, saputo l’accaduto, percorre correndo la strada di chicchi di grano con l’intento di uccidere Surya Bai. Arrivato al nido delle aquile, tentando di entrare, percuote la porta esterna così forte da rompersi una delle sue unghie imbevute di veleno. Ma Surya Bai non sente niente, perché dorme oltre le sette porte. Chi ascolta questa storia a questo punto trae un sospiro di sollievo: la fanciulla è al sicuro e il demone non può raggiungerla, tanto che alla fine rinuncia e se ne va. Ma, come abbiamo detto, Surya Bai non ha percezione dei pericoli che corre e, al mattino, apre le porte del nido senza alcuna cautela e, trafitta dall’unghia avvelenata del Raksha, cade a terra morta. Nemmeno le sette porte di ferro del nido delle aquile hanno potuto proteggere Surya Bai, neanche i due educatori che ha trovato hanno potuto tenerla al sicuro.
Ma questa non è la fine della fiaba e neanche del cammino di Surya Bai. Poco tempo dopo, infatti, un Rajah, durante la caccia, si ferma sotto l’albero altissimo e, incuriosito dal nido delle aquile, manda i suoi servitori per capire di che si tratta. Quando scopre che là si trova una splendida fanciulla, la fa trasportare fino a terra e, ammaliato dalla sua bellezza, le sfiora la mano e sente che c’è qualcosa che le si è conficcato nel palmo. E così, estraendo l’unghia del Raksha, il Rajah sveglia Surya Bai. Un risveglio, questo, del tutto simile a quello che accade alla protagonista di Biancaneve e i sette nani, de La scatola di cristallo e delle molte altre versioni diffuse in tutto il mondo (per le fiabe d’Italia vedi Nel bosco con Biancaneve, nel sito di Claudia Chellini Percorsi di pensiero, per altre versioni vedi il sito SurLa Lune ). In queste storie infatti la fanciulla si risveglia dal suo sonno fatale grazie al fatto che la madre del principe, toccandola, scioglie l’incantesimo dell’oggetto magico che l’ha fatta cedere morta. Nella fiaba indiana non è però una figura materna che la riporta in vita, ma il Rajah. In questo senso possiamo accostare a questo episodio quello del finale di Biancaneve e i sette nani dei Grimm, nel quale uno dei servitori del principe, seccato per dover trasportare la bara di cristallo ogni volta che il principe si allontana, tira su Biancaneve e le tira una manata sulla schiena facendole uscire il boccone avvelenato e risvegliandola. Certo, il gesto narrato dai Grimm non ha niente della delicatezza di quello del Rajah, ma in entrambe le storie l’attante maschile riesce a riportare in vita una fanciulla caduta morta a causa di una figura materna persecutoria. Quello che però la fiaba indiana ci racconta è che ciò non risolve la questione. Surya Bai, infatti, accetta di sposare il Rajah, che però ha una prima moglie (la prima Rani), ferocemente gelosa di Surya Bai che, a dispetto di quanto le è accaduto, non ha ancora imparato a riconoscere il pericolo. A nulla valgono gli avvertimenti della sua governante che la mette in guardia:

[...] le diceva spesso: “Mia amata signora, non dovresti dare troppa confidenza alla prima Rani, perché lei non ti vuole bene, e ha il potere di farti del male. Uno di questi giorni potrebbe avvelenarti o recarti danno in qualche altro modo.” Ma Surya Bai le rispondeva così: “Sciocchezze! Di che si dovrebbe aver paura? Perché non potremmo vivere insieme felici come due sorelle?” (e-book, p. 43 )
 
Così, Surya Bai cade preda della prima moglie, che un giorno la annega dentro la vasca del cortile del palazzo. Il Rajah non sa nulla di tutto ciò e non può saperne nulla, perché si tratta di un corpo a corpo tutto al femminile, tra madre e figlia. Anche la prima moglie infatti ha fantasmaticamente i tratti di una figura materna: è la donna che la fanciulla trova già presente nella casa e nella vita del Rajah. E ricordiamo che Surya Bai è chiamata “la piccola Surya Bai”, come dire, la piccola di casa.
Sospendiamo la narrazione e riprendiamo il filo della nostra riflessione. Abbiamo detto che la prima parte della fiaba indiana è analoga alla fiaba di Prezzemolina, ma se ne distanzia perché durante la propria prigionia Surya Bai non incontra il maschile, che è decisivo per Prezzemolina. Cosa significa? È una mera questione di fortuna? Pensiamo alla storia indiana: la fanciulla può uscire dalla propria prigione, ma il mondo che trova fuori non le interessa, anzi è pericoloso: è ancora tutta compresa in uno stato infantile in cui l’unico amore, l’unico bene è nella relazione genitoriale, rappresentato nella storia dal nido al quale Surya Bai ritorna. Quando Prezzemolina incontra il principe, invece, il tempo della reclusione protetta si è già compiuto e il suo innamoramento mette in scena proprio il fatto che ciò che è fuori dalla torre le appare così desiderabile da riuscire a sottrarre gli oggetti alla strega per fuggire. Certo, anche la strega mette in atto una rappresaglia inseguendo Prezzemolina e il principe, ma ormai sappiamo che la fanciulla ce la farà. Non essendosi ancora compiuto questo tempo per Surya Bai, capiamo perché la giovane indiana prima torna nel luogo in cui si sente protetta e poi soccombe all’emissario della vecchia Raksha. E capiamo anche perché il risveglio del Rajah non è risolutore: Surya Bai non è ancora pronta per il mondo esterno e ciò che trova è un altro luogo fatale, come la casa del terribile demone. Così, muore annegata. Ma, come la fata della fiabe de I tre cedri, la fanciulla rinasce, più volte, a nuova vita. Nel punto in cui è annegata Surya Bai, infatti, spunta un girasole e il Rajah, disperato per la scomparsa della sua amata, quando lo vede rimane incantato, perché gli ricorda Surya Bai. Allora la prima moglie lo fa tagliare e bruciare. Ma dalla sue ceneri, nella jungla, rinasce uno splendido albero di mango sul quale spunta un fiore che dà origine ad un frutto che cresce

sempre più rosa e sempre più grande, fino a che diventò a dir poco magnifico, sia per le sue dimensioni che per sua la forma, tanto che la gente arrivava da vicino e da lontano solo per ammirarlo.
Ma nessuno osava coglierlo, perché doveva essere lasciato al Rajah. (e-book, p. 57 )

Un giorno la povera lattaia madre di Surya Bai, tornando dal mercato, si ferma stanchissima sotto l’albero di mango e si addormenta. Ecco che il mango cade in uno dei suoi vasi e la donna decide di portarlo via, di nascosto per non essere accusata di averlo rubato al Rajah. Una volta arrivata a casa lo nasconde dietro agli altri bidoni e racconta l’accaduto al marito e ai suoi sette figli, chiedendo loro di andarlo a prendere per poterlo mangiare insieme. Ma dentro al vaso i giovani non trovano il mango, trovano invece una donna piccina piccina, abbigliata come una principessa. La lattaia decide allora di tenerla come una figlia e la donna cresce velocemente fino ad assumere la statura di un’adulta, sempre amabile e gentile, ma triste e silenziosa. La lattaia decide di non chiederle niente e Surya Bai non racconta a nessuno la sua storia: dopo essere rinata presso la madre, ora ritrovata nella sua funzione donatrice, finalmente la fanciulla ha imparato a proteggersi. Un giorno il Rajah, passando a cavallo, vede Surya Bai al pozzo ad attingere l’acqua e la riconosce, ma la fanciulla spaventata corre a chiudersi dentro casa. Il Rajah la insegue, ma, arrivato davanti alla porta, trova la lattaia che non solo gli dice che quella è sua figlia e che non gliela darà certo al suo comando, ma arriva a minacciarlo con un bastone. Il Rajah allora torna a palazzo e, per sciogliere ogni dubbio, va a trovare la governante di Surya Bai che aveva messo in prigione, perché la prima moglie l’aveva accusata della scomparsa della ragazza. La governante gli racconta tutto e il Rajah le chiede di diventare amica della lattaia per scoprire come stanno le cose. Finalmente anche la seconda figura materna donatrice è libera di agire e si allea con l’altra, la madre di Surya Bai: adesso sappiamo che la fanciulla potrà ritrovare il suo amore e vivere, stavolta, felice e contenta. (CC)



IngleseRe Porco
Veliero della maledizione
Quadrante sud-est
Carta della fiaba





























































Questa, come La bella e la bestia che può appartenere allo stesso tipo, è la fiaba della bellezza che diventa feconda solo unendosi al suo opposto, deforme o animale. Gli antichi greci lo sapevano, visto che il marito della bellissima dea dell’amore Afrodite era lo storpio dio fabbro Efesto. In termini psicologici, la fiaba racconta della separazione fra questa bellezza ideale – rappresentata dalla regina sterile, che riceve per magia la gravidanza e una bellezza perfetta e inviolabile – e la condizione animale del porco, che ama la sporcizia, e che nel linguaggio comune designa chi mangia o fa sesso smodatamente.
La maledizione passa attraverso la madre, che da sterile diventa gravida, bellissima e inviolabile: femminilità perfetta che però deve dare alla luce un figlio suino. L'attante protagonista maschile dovrà a sua volta ottenere l’amore di una fanciulla per poter avere la sua forma umana. Si inscrive quindi nel quadrante sud-est.

Un gruppo di insegnanti di terza e quarta elementare della Romagna, seguendo le mie indicazioni, hanno raccontato questa fiaba ai loro alunni, che a loro volta hanno rinarrato o disegnato quel che volevano del Re Porco (vedi anche, per il lavoro nella scuola: Adalinda Gasparini, Re porco e i bambini narratori,1997, [la versione narrata nel lavoro in argomento è Il Re Porco di Vittorio Imbriani]L’orologio e la gemma, ovvero la cotica clamorosa, 1999; Favole a scuola all'ombra della psicoanalisi, 2003; Fiaba, psicoanalisi e apprendimento, 2003). Ripercorriamo questa fiaba con le espressioni dei bambini, qui riportate senza modifiche o correzioni, sperando che la loro immediatezza ne illustri la ricchezza nel migliore dei modi.

Una bambina disegna la scena iniziale, con la regina e una sola fata, entrambe magrissime. Ma sull'abito della regina ci sono tanti fiori quanti sulla Primavera di Botticelli, e la fata ha grandi ali. Così è scritto nella didascalia:
 
E' il momento che mi è piaciuto di più perché mi sembra impossibile che la fata possa leggere nel futuro.

I bambini distinguono perfettamente il mondo della favola e quello della realtà, e in questo caso il piacere della magia che permette alla fata di anticipare gli snodi della storia è espresso insieme alla consapevolezza della sua impossibilità.
Il tema dell’accoglienza della parte animale comincia dai genitori: quando la regina dà alla luce un porcellino il re padre prima pensa di buttarlo in mare perché non ne venga danno alla regina, ma poi, pensando che per quanto brutto è sempre figlio suo, decide di farlo allevare come si deve. Questo è il primo senso dell'amore, il solo che quieta: che i bambini sappiano di essere amati dai genitori anzitutto perché sono i loro bambini, non perché si mostrano adeguati a un'aspettativa più o meno sensata. Perfino nascendo con le zanne e la cotica (la pelle del porco) si può essere amati:

La principessa fa i complimenti a suo figlio anche se non è poi così perfetto:
- Sei carino! lo sai?
- Grazie!

Un altro bambino disegna il re che accarezza suo figlio, accanto al quale c’è un cartello con la scritta MAIALE. C’è il fumetto con le parole del padre:

“Ciao ciao bello amore del papà”

Una bambina disegna il porcello che tornando tutto sporco a palazzo va dalla madre che siede sul trono sorridente ed elegante, e scrive:

Il porco saltava in braccio alla sua mamma e con il suo grugnetto la baciava.

Un bambino scrive del porcello che va dalla regina madre a chiederle una sposa, senza dimenticare l’inadeguatezza del principe, che entrando nel palazzo:

...perse tutto il letame dietro di sé.

Con quella specie di disgustosa incontinenza il principe animale difficilmente riuscirebbe a trovar moglie, e la sua regale madre non è affatto incoraggiante:

...la regina rispose che il porco era stupido e che nessuno volesse sposarlo perché era sudicio sporco e puzzolente.

Alla non accettazione delle prime due spose, che nascondono un pugnale sotto il cuscino per farlo fuori, corrisponde la violenza del porco, che le trafigge con le zanne. La maggioranza dei bambini maschi, sia delle elementari che della scuola media inferiore, rappresenta la scena dell’uccisione con le spose che giacciono sul lettone a pancia in su, prima o dopo l'atto violento, con ferite sanguinanti che per la loro ubicazione, il petto o l'area genitale, non lasciano dubbi, come non lasciano dubbi le braccia aperte e il volto in qualche caso sorridente. Il porco, grosso e ghignante, o minuscolo e spaurito, guarda la sposa che sta per trafiggere o che ha appena trafitto brandendo un pugnale, una spada, un oggetto che non lascia dubbi sul suo significato simbolico.
In uno di questi disegni il porco, colorato di un bel rosa acceso, si avvicina al letto matrimoniale,  mentre la sposa col suo pugnale nascosto spera di fermarlo:

GRU! GRU! GRU!
ADESSO LO MMAZZO! EH, EH!!!

In un altro disegno la sposa dice al porco che si avvicina al letto:

sei troppo pusolente.

È solo l'accoglienza della parte animale, raccontano i bambini come gli antichi narratori, a permettere la trasformazione della violenza in un abbraccio umanizzante. La terza moglie, che non porta il pugnale per uccidere la bestia, può anche non essere proprio tranquilla, come racconta una bambina di terza elementare:

Alla prima notte lei aveva paura ma quando arrivò si scrollò di dosso la pelle e venne fuori un bellissimo fanciulo.

Un bambino scrive:

Ma però quando il porco andava a letto Rosa bianca lo copriva.

E un altro:

Quando vide una fanciulla così ma così bella sporco e puzzolente prese la rincorsa e le girò intorno lei la fanciulla si chinò e lo grattava e la regina li disse con la fanciulla ma non lo metti da parte e le rispose di no, lo baciò e lo accarezzò. La notte la fanciulla lo tenne forte, la notte seguente si tolse la pelle da porco e vienì fuori un giovane bellissimo e vissero insieme felici e contenti.

Un bambino disegna la stanza matrimoniale, fornita di comodini e armadio quattro stagioni, con la sposa già a letto, che lo accoglie:

Amore mio sdraiati vicino a me.

E lui, che è proprio un porcello, per quanto incoronato, si alza sulle zampe posteriori e dice:

Puu! Puu! mia dolcezza.

La bambina che parla ora coglie la relazione tra ciò che è repellente e ciò che è bellissimo, ed esprime il suo apprezzamento per la fiaba senza dimenticare la realtà:

Io avrei voluto essere Rosabianca perché ha voluto amare il porco anche se era sporco e puzzulente, ma alla fine ha avuto il meglio.
A me ha colpito molto quando c'erano le fate perché fanno gli incantesimi, perché nel mondo vero la magia non esiste e a me piacerebbe ancora un mondo dove ci fossero le fate a fare gli incantesimi.

L’incredibile miracolo dell'incontro, e l'umanizzazione che ne consegue, avviene con magica facilità, come raccontano alcuni bambini:

...e così il Porco si levò le pelli lerce e diventò un bellissimo principe
... alla notte, all'ora dell'ultimo sonno, Principe Porco si toglieva la cotica
... la sposa Rosabianca rimase sorpresa dalla belezza del Re Porco e infilandosi sotto le coperte la Regina Rosabianca lo abbracciò con amore

La fiaba racconta che per un certo tempo Rosabianca tenne per sé il segreto della metamorfosi notturna del porco in principe, ma poi volle che lo sapessero anche il re e la regina, che di notte fecero visita alla giovane coppia. Nel disegno di un altro bambino si vedono i regali genitori entrare furtivi come ladri, con due grosse pile che illuminano il letto dove dormono il loro figlio e Rosabianca. All’appendiabiti vediamo jeans, camicie, manti guarniti di ermellino e due corone. La fiaba cinquecentesca racconta delle torce che accesero i regali genitori, e il bambino ha disegnato le sole torce che conosce.
La sostanza non cambia se varia un po' il nome della protagonista, cosa che capita regolarmente nelle fiabe, e la grazia espressiva non soffre se la sintassi e l'ortografia non sono perfette:

Rosa bella disse con la Regina e il Re che Re porco di notte si togliesse la pelle sporta di letame e se la togliesse per andare a letto. Il Re e la Regina con il lumino e andarono a vedere e videro che la pelle di letame sul pavimento.

Il re e la regina al lume delle torce, o delle pile, trovano la pelle porcina, o cotica, sul pavimento, e dopo averla fatta distruggere abdicano in favore del loro splendido discendente. Il principe era ormai bello, e, come ha scritto un bambino, virturioso. Una bambina ha raccontato così la felicità dell’alternanza delle generazioni:

...al mattino dopo il re fece sedere sul trono il Principe che nominò Re Porco davanti alla folla clamorosa.

(AG)





IngleseRosaspina
Patibolo della condanna a morte
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba



Rosaspina, narrata dai Fratelli Grimm fin dalla prima edizione delle Fiabe del focolare nel 1812, è la versione oggi più conosciuta della fiaba della Bella Addormentata. Poiché l’ingiunzione dalla quale origina la storia è la scagliata dalla vecchia fata, che è una figura genitoriale materna, Rosaspina, nella Carta fiabesca della successione si trova, insieme alle altre storie dello stesso tipo, nel quadrante Sud-Ovest, tra le fiabe dell’ingiunzione del Veliero della maledizione.

Prima che la rinarrassero i Grimm, la fiaba della Bella addormentata era già presente nelle opere di due grandi narratori: Giambattista Basile, che nel Seicento inventò il genere fiaba, e Charles Perrault, che circa cinquant’anni dopo rese le fiabe la forma narrativa più amata alla corte del Re Sole.
La storia di Rosaspina è analoga a quelle di Sole, Luna e Talia di Basile e de La belle au bois dormant di Perrault: una maledizione iniziale, l’oggetto appuntito (collegato alle arti femminili della filatura) che fa cadere la fanciulla in un sonno fatale e un giovane di stirpe regale che penetra la vegetazione che protegge il castello fino a raggiungere la bella che giace addormentata.
Da qui la storia tedesca diverge dalle altre due.
Talia infatti si sveglia nove mesi dopo l’incontro con l’amato ed è il figlio che, cercando il suo seno, trova il suo dito e le succhia via la lisca di lino che l’aveva fatta cadere come morta; la bella di Perrault si sveglia invece perché sono passati cento anni e aprendo gli occhi trova il principe che la rimira. In entrambi i casi l’incontro con il protagonista maschile non conclude la storia: la minaccia di morte insita nella maledizione iniziale torna, infatti, sotto un’altra e ancora più pericolosa forma. E fino all’ultimo non siamo sicuri che la storia avrà un lieto fine.
Rosaspina invece è svegliata dal principe che

fu tanto colpito dalla sua bellezza che si chinò a baciarla, e come Rosaspina si svegliò, il re e la regina e tutta la corte e i cavalli e i cani e i piccioni sui tetti e le mosche sui muri si svegliarono, il fuoco tremolò e tornò a divampare, le carni completarono la cottura, il cuoco dette uno schiaffo al garzone e la cameriera finì di spennare il pollo.
Allora il principe e Rosaspina si sposarono, e vissero per sempre felici e contenti. (e-book, p. 45)

Leggendo in parallelo Rosaspina e La belle au bois dormant ci si rende conto che, come scrive Calvino nelle ricchissime note delle sue Fiabe italiane, «la Rosaspina del Grimm deriva dal Perrault» (p. 1146). Ma risulta evidente anche che i Grimm concludono la storia a metà della narrazione.
La storia della Bella addormentata, infatti, si intreccia nei Grimm con quella di un personaggio presente in tutta la mitologia nordica, come fanciulla guerriera o valchiria, chiamata Sigrdrífa in norreno e più conosciuta con il nome tedesco di Brunilde.
Nell’Edda poetica, raccolta di poemi in norreno, tratti dal manoscritto medioevale islandese Codex Regius del XIII secolo, si racconta che Sigrdrífa/Brunilde viene severamente punita dal dio Óðinn (Odino, Wotan in tedesco) per aver difeso un guerriero a lui inviso.

Óðinn per vendicarsi di ciò la punse con la sua lancia del sonno e disse che non avrebbe più portato vittoria in combattimento e che si sarebbe sposata - “ ma io gli risposi che ero legata da un giuramento per il quale non avrei mai sposato un uomo che provi paura.” (Sigrdrífumál - Il Discorso di Sigrdrífa, in Norrœnn Forn Siðr - Antica Via Norrena)

Brunilde quindi non è maledetta da una figura materna (la fata dimenticata), ma è punita da una figura paterna (Odino, potente dio chiamato anche Padre degli Dei) che sanziona un comportamento deviante rispetto alle regole da lui imposte. Lo sviluppo narrativo del mito procede coerentemente da questo inizio. La punizione di Odino non si esaurisce nel sonno fatato: il dio, infatti, impone alla vergine guerriera di sposarsi, cioè di rinunciare alla sua libertà per sottomettersi all’ordine patriarcale, e il suo sonno in un castello inaccessibile si configura come la prova che l’eroe deve affrontare per ottenerla.
Si tratta di una storia ben diversa da quella di Rosaspina in cui, come abbiamo detto, il sonno simile alla morte è causato da una figura materna, mentre l’unica attività del padre è quella di bruciare tutti gli arcolai nell’inutile tentativo di evitare l’avverarsi della maledizione.
La vicenda della fiaba narra di una questione al femminile, mentre il mito racconta delle conseguenze di un’azione che infrange l’ordine patriarcale. L’una origina da un’ingiunzione materna, l’altro da una paterna. Utilizzando la mappa disegnata nella Carta fiabesca della successione, potremmo dire che l’una si trova a sud e l’altro a nord.
È vero che mito e fiaba sono due tipi di narrazioni diverse, che si formano in momenti storici diversi e articolano questioni diverse, ma è anche vero che alcuni motivi che troviamo nelle fiabe li troviamo anche nel mito: il sonno simile alla morte ne è un esempio. Ma, come abbiamo accennato confrontando Panepinto con il Re Porco fiorentino, i motivi sono polisemici e i loro significati si chiariscono nel contesto della storia in cui si trovano.
La storia di Brunilde, vergine guerriera punita dal padre per aver disatteso un suo ordine, come abbiamo detto ha un altro andamento da quella di Rosaspina destinata a imbattersi in quell’intreccio di vita e morte che attiene al mistero del femminile e che le fiaba rappresenta come la maledizione della fata (per ulteriori note di lettura sul tema della maledizione vedi La Bella Addormentata).

Sappiamo che le Fiabe del focolare hanno avuto molte edizioni, la prima è del 1812 e l’ultima del 1857. Sappiamo che, fra gli obiettivi che i Grimm avevano nel comporre la loro raccolta, c’era anche quello patriottico di mostrare lo spirito della nazione tedesca in un momento storico in cui ancora la Germania non era stata unificata. Ma sappiamo anche che i due studiosi conoscevano Straparola, Basile e Perrault che rappresentano alcune delle loro fonti principali. Come abbiano pensato che Brunilde e Rosaspina si somigliassero invece non lo sappiamo. Dalle loro note possiamo vedere solo che questa associazione c’è stata.
Crediamo che la fiaba originata da questa commistione risulti un po’ impoverita rispetto alla versione napoletana e a quella francese non solo  perché esclude la seconda parte della storia, ma anche e soprattutto perché sovrappone la figura del principe a quella dell’eroe del mito (Sigurðr nella versione norrena, Sigfrido in quella tedesca).
In quest’ultimo all’ingiunzione di una figura paterna che impone il sonno come una prova corrisponde coerentemente l’azione liberatrice di un personaggio maschile.
Nelle versioni della Bella Addormentata precedenti i Grimm, invece, la maledizione materna viene spezzata attraverso attività profondamente connesse proprio con la maternità, non più subita ma agita, l’azione di un figlio o l’attesa di un tempo stabilito, mentre l’attante maschile ha il fondamentale ruolo di aiutante, di mediatore, ma non di risolutore. Almeno nella prima parte della storia.
Combinando le due storie e trattandole come se fossero la stessa storia, i Grimm cambiano radicalmente il ruolo dell’attante maschile e gli conferiscono il potere di sciogliere un nodo tutto interno alla sfera del femminile. In questo modo il significato profondo dell’incontro della fanciulla con il destino, con le Parche, viene rimosso dai narratori come lo era stato dai regali genitori di Rosaspina.
E come nella fiaba la vecchia fata si presenta scagliando la famosa maledizione, così nelle narrazioni contemporanee torna ancora più potente e distruttiva, diventando lei stessa la protagonista della storia.
Il remake della Disney dell’animazione La Bella Addormentata nel bosco (Geronimi-Larson-Reitherman-Clark, US, 1959) ne è un esempio paradigmatico: il film si intitola Maleficent (Stromberg, US, 2014), che è il nome che Disney aveva dato nel ’59 alla fata dimenticata, e racconta la vicenda della «più forte delle fate», generosa protettrice del mondo delle creature magiche, mortifera e distruttrice quando viene tradita. La sua figura domina l’intera storia, non soltanto perché ne è la protagonista, ma perché il suo potere è assoluto.
Nessuno può sconfiggerla: non può farlo il padre della Bella Addormentata, Stefano, che tenta due volte di ucciderla senza riuscirci, e non può farlo il principe che bacia Aurora, la fanciulla senza svegliarla. Solo Malefica può spezzare la maledizione che lei stessa ha scagliato, con un tenero bacio materno sulla fronte di Aurora. Nel film, infatti, non si narra solo della trasformazione di Malefica da giovanissima fata buona a terribile persecutrice a causa del tradimento dell’uomo che ama, ma anche di come la fata segua da vicino la crescita della bambina che ha maledetto e di come questo riaccenda in lei il sentimento dell’amore che porta al lieto fine della vicenda. La storia, quindi, è giocata nella sfera del femminile, come lo è nelle fiabe di Basile e di Perrault. Ma con una variante fondamentale, perché nel film, a differenza di quanto accade nelle fiabe, la persecutrice è onnipotente mentre i personaggi maschili impotenti.

In Rosaspina viene rimosso il potere misterioso del femminile che fa cadere come morta e poi risveglia la fanciulla che si affaccia all’età adulta, in Maleficent questo potere torna temibile e distruttivo in una storia che si conclude con una rinnovata alleanza femminile fra Malefica ormai tornata buona e Aurora incoronata regina del mondo magico dalla fata in una scena idilliaca che prevede la presenza di un unico personaggio maschile, il principe, un giovanissimo principe che con il suo bacio non ha saputo risvegliare la Bella Addormentata. (CC)

Per approfondimenti su Maleficent e altre narrazioni fiabesche contemporanee vedi Maleficent & Co. Le dilaganti trasposizioni cinematografiche e televisive delle più famose storie fiabesche, in LIBER, 105/2015.)

Vedi anche l'e-kamishibai di Rosaspina accessibile dalla carta della fiaba.



IngleseBiancaneve e i sette nani
Patibolo della condanna a morte
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba



Quando i Fratelli Grimm pubblicarono per la prima volta le loro fiabe popolari, nel 1812, Biancaneve si rifugiava dai sette nani per sfuggire alla madre, non alla matrigna. Nelle edizioni successive resero un po' meno esplicita la rappresentazione della violenza mortale nel rapporto fra madre e figlia trasformando la futura Grimilde  in matrigna. La separazione fra madre buona, che fa vivere, e madre cattiva, che fa morire, risponde alla necessità di combattere in una direzione e trovare rifugio nella direzione opposta. L'aggressività ricorrente fra suocere e nuore alleggerisce i conflitti fra madri e figlie. Ma esiste un luogo della mente nel quale questa separazione non è ancora avvenuta, nell'infanzia o nell'età adulta, ricco di minacce come di promesse, come la casa della baba-yaga nelle fiabe russe o la dimora delle fate nella storia del Gatto Mammone.

La parte più fluida e vitale di ogni rapporto non ha un colore solo, né colori armonicamente accostati. È una tavolozza disordinata dalla quale il pittore, il soggetto, può ricavare qualunque colore, in tutte le sue sfumature, per dipingere un capolavoro, e allo stesso tempo può confonderli malamente ricavandone una miscela nerastra, una massa indistinta, una confusa congeries, per dirla con Apuleio. La strategia pedagogica che ha idealizzato l'infanzia come età dell'innocenza, ha pietosamente eufemizzato le fiabe antiche e popolari velando la profonda violenza che la loro superficie significava. Ma una bambina può vivere in totale solitudine la percezione della minaccia materna, cercando di mitigarla con fobie e rituali ossessivi, come il pavor nocturnus provocato dalla statuette di plastica fosforescente della Madonna di Lourdes, contenenti acqua benedetta, che negli anni Cinquanta e Sessanta si trovavano sui comodini delle bambine. A chi una bambina può dire che ha paura della Madonna? Può dire alla mamma che ha paura di lei? Può dirlo a se stessa?

C'era una volta, non ora, in un tempo abbastanza lontano perché non se ne abbiano testimoni diretti, una regina che aveva desiderato una figlia, e il suo desiderio era stato esaudito. Ma quando la bambina dai capelli neri come l'ebano, bianca come la neve e rossa come il sangue era cresciuta, la sua bellezza aveva terrorizzato la madre, perché avrebbe messo fine al suo primato. Da una parte la nuova generazione sa che prenderà il posto della vecchia, come la vecchia generazione sa che lascerà il posto e tutto quello che ha alla giovane generazione. D'altra parte questa legge naturale, per la quale la figlia si fa più bella mano a mano che la bellezza della madre sfiorisce, appare inaccettabile, e il solo modo di scongiurare la propria decadenza è per la madre coincidere con la figlia (è quel che accade in Pelle d'asino) che è un modo di eliminare la figlia come altro da sé, come essere con una vita autonoma. Al posto di un'inevitabile successione temporale si pone una successione causale: non è la figlia che succede alla madre per l'irreversibilità del tempo, ma la figlia che uccide la madre. Uccidere la figlia è allora il metodo per non sfiorire, per non morire.

Lo specchio dal quale la regina madre e matrigna di Biancaneve si fa guidare rimanda al tema del narcisismo, che irrigidisce l'essere in una forma che permane e vive nella misura in cui non viene neppure sfiorata dall'altro. È un dramma che in misura accettabile o inaccettabile riguarda ogni coppia madre-figlia, che la fiaba mette in gioco con una sapienza millenaria, in un tempo e in un luogo lontani, tanto lontani che né il narratore né l'ascoltatore o il lettore sono costretti a riconoscere il proprio conflitto, la propria distruttività, se non possono o non vogliono. La morte della regina-madre, che precipiti in un burrone inseguita dai sette nani, o che sia costretta a danzare fino a morirne con un paio di scarpe di ferro rovente, non è una crudele punizione, ma il destino inevitabile per ogni madre: di non sopravvivere alla figlia. E d'altra parte nessun genitore che sia appena un po' sano di mente desidera vivere la morte dei propri figli.

Nessuna indicazione pedagogica può essere tratta dalla fiaba, se non si vuole banalizzarla o impoverirne il senso. Qualunque tentativo di fermare il tempo, di impedire la successione, fallisce, è una legge naturale allo stesso tempo accettabile e inaccettabile, che nella fiaba, come nella vita, prevale. Se c'è una morale nella favola, è nel racconto stesso, da intendere nella sua essenziale semplicità: la vecchia generazione scompare mentre la nuova generazione ascende al trono senza che qualcuno possa impedirlo. La figlia è troppo vicina alla madre, e la madre alla figlia, perché possano evitare di toccarsi: il loro corpo a corpo amoroso e conflittuale è essenziale perché la vita fluisca, ma è altrettanto essenziale che possano sciogliere il nodo che le unisce.

Infine una notazione sulla prima versione dei Fratelli Grimm, che abbiamo scelto per Fabulando, nella quale la regina madre di Biancaneve non è uno stereotipo diabolico della cattiveria assassina come Grimilde nel film di Walt Disney, che ha semplificato la seconda versione della raccolta tedesca. Ogni volta che lo specchio le dice che non è più lei la più bella, la regina è in qualche modo sconvolta dalla rivelazione:

A queste parole la regina diventò livida d'invidia...
La regina rabbrividì a queste parole...
La regina provò una collera così paurosa che tutto il sangue le gonfiò il cuore...
Quando risentì queste parole la regina rabbrividì, e scossa dalla collera gridò...
A queste parole la regina rimase inorridita, ed ebbe tanta paura, una paura tale che non riuscì a dire nemmeno una parola...

 
Questo terrore riguarda la madre che non vuole invecchiare come la figlia che vuole prendere il suo posto, perché la madre vorrebbe arrestare il flusso temporale, mentre la figlia vorrebbe accelerarlo. Di solito entrambe vedono la distruttività dell'altra e ignorano la propria, tanto che a qualunque età ci si identifica con Biancaneve, mentre la madre assassina è la propria immancabile persecutrice. (Per approfondimenti e altre versioni della fiaba, vedi il sito di Claudia Chellini, Percorsi di pensiero, Nel bosco con Biancaneve) (AG)

Di questa fiaba esiste anche l'e-kamishibai, accessibile dalla carta della fiaba.

Per le origini, i significati e le implicazioni dell'unione dei colori bianco (come neve, marmo, latte, ricotta) e rosso (sangue), accompagnati a volte dal nero (come il piumaggio del corvo, come l'ebano) vedi una Comparazione delle fiabe seguenti:
La principessa di Vallepelosa, storia cornice del Cunto de li cunti;
Il Corvo
(Cunto de li cunti);
I tre cedri  (Cunto de li cunti);
Biancaneve e i sette nani (Fratelli Grimm 1812);
La culumbena bianca, storia popolare raccolta in Romagna;
La fola di Bianca come neve rossa come sangue, storia popolare raccolta in Emilia,
Le ultime due fiabe, come la Comparazione, si trovano nel sito di Adalinda Gasparini Psicoanalisi e favole.






IngleseLa scatola di cristallo
Patibolo della condanna a morte
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba



Tra le fiabe dell’ingiunzione del Patibolo della condanna a morte troviamo La scatola di cristallo, una variante della più famosa fiaba di Biancaneve. La storia, infatti, narra di Ermellina, una fanciulla vessata da una matrigna che la espone continuamente al pericolo di morte. L’ingiunzione dunque è materna e l’attante protagonista femminile: la storia si trova infatti nel quadrante sud ovest.

Un giorno un’aquila si presenta da Ermellina per portarla via di lì e condurla dove vivono tre fate che la accolgono nella loro casa, si prendono cura di lei e la avvertono di non aprire a nessuno quando loro sono lontane. La storia prosegue con un andamento dello stesso tipo della Biancaneve dei fratelli Grimm. Ma l’incontro con il principe, che in questo caso è un re, non è la conclusione della fiaba: come accade nelle moltissime versioni narrate nei dialetti d’Italia e nelle lingue d’Europa (vedi nel sito di Claudia Chellini, Percorsi di pensiero, Nel bosco con Biancaneve), il re vede la fanciulla e se ne innamora e, così com’è nella bara di cristallo, la porta nel suo castello, la colloca nella sua camera e non se ne allontana mai. Quando deve partire per la guerra, affida la fanciulla a sua madre imponendole di prendersene cura, pena la morte. La regina però se ne dimentica, fino al giorno in cui riceve la lettera del figlio che sta tornando vincitore. Ordina allora alle sue cameriere di ripulire dalla polvere la fanciulla che giace nella bara, e loro prendono una spugna per lavarle il viso, ma alcune gocce cadono sul vestito e lo macchiano. La regina decide quindi di togliere a Ermellina quell’abito e fargliene indossare uno nuovo.

Così fu stabilito : vanno le camerière alla càmera e cominciarono a sfibbiarli il vestito. Al momento che li levano la prima mànica, quella aprì li òcchi. Quelle pòvere camerière fecero un salto per aria, e tutte spaventate ’un sapevano che si fare più, si trovavano confuse. Una delle più coraggiose dice : — „Dònna sono io e dònna è questa : mangiare, non mi mangerà...“ Per farlo brève il discorso, questa li levò il vestito ; quando li fu levato il vestito di indòsso cominciò a scéndere dalla scàtola, e camminare, e guardava indov’ èra. Le camerière si buttarano in ginocchioni a lei e li chiedevano per grazia di saper dire chi èra. E lei, poverina, li fece tutto il racconto (e-book, pp. 64-66).

Ermellina così torna in vita e può finalmente sposare il suo re.

La vivacità e la freschezza che caratterizzano questa fiaba sono senza dubbio in gran parte dovute alla vivacità del dialetto senese e alla capacità che ha nel raccontare la narratrice popolare dalla quale la raccolse nel 1875 Giuseppe Pitrè, uno dei più grandi studiosi italiani di tradizioni popolari che visse fra la metà dell’Ottocento e la Prima guerra Mondiale. Raccolse e commentò innumerevoli manifestazioni della cultura popolare siciliana e italiana e, fra le moltissime sue opere, fondò e diresse, insieme a Salvatore Salomone-Marino, l’«Archivio per lo studio delle tradizioni popolari» (1882-1906), una rivista che accoglieva tutti i tipi di manifestazioni del folklore delle varie zone d’Italia e d’Europa: fiabe, miti e leggende, credenze e superstizioni, usi, costumi e pratiche, proverbi, canti e poesie, giochi, passatempi e indovinelli. Vi contribuirono intellettuali italiani e stranieri e in breve la rivista divenne un punto di riferimento europeo per gli studi di folklore. Il valore del lavoro di Pitrè, sorretto dalla passione e dal rigore filologico, emerge con chiarezza, se anche considerando che gli anni in cui operò sono quelli immediatamente successivi all’unità d’Italia, quando il tema dell’identità nazionale era al centro del dibattito culturale e delle decisioni politiche: raccogliere e pubblicare le testimonianze delle tradizioni di un certo territorio significava allora farle uscire dai loro confini geografici, metterle in relazione con gli usi, le narrazioni, i canti di altri luoghi. Era un modo per stabilire un rapporto fra storia locale e storia nazionale; un rapporto nel quale ciascuna delle due si arricchiva del contributo dell’altra. L’attività di Pitrè e degli altri studiosi italiani di tradizioni popolari tentava di favorire la circolazione della conoscenza e il riconoscimento reciproco da parte di chi viveva in zone geografiche anche molto lontane. Il loro tentativo fu quello di far emergere le peculiarità e le similitudini dei “popoli d’Italia”, la loro opera batteva le vie di un concetto di identità come integrazione delle parti, un’identità articolata e non uniformata, nella quale grazie all’incontro fecondo delle tradizioni locali potesse costruirsi una dimensione nazionale come nuovo spazio di confronto e di espressione.

Sappiamo che la storia ha preso un’altra via, che le grandi scelte politiche e culturali non hanno seguito la pista della valorizzazione delle differenze, ma l’opera di Giuseppe Pitrè rimane un tesoro inesauribile, non solo perché possiamo trovare fra le sue innumerevoli pagine testi altrimenti introvabili, ma soprattutto perché è testimonianza di un approccio alla cultura improntato al rigore filologico, all’amore per la propria terra e alla libertà intellettuale. (Vedi anche, nel sito di Claudia Chellini, Percorsi di pensiero, L’amore per la Sicilia e lo studio delle tradizioni popolari in Giuseppe Pitrè) (CC)





































































IngleseL'Augel Belverde
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante sud-ovest
Carta della fiaba


Insieme ad Hänsel e Gretel la fiaba dell’Augel Belverde non si è fatta collocare in uno dei quattro quadranti, perché la condanna a morte viene agita da attanti parentali maschili e femminili contro discendenti maschili e femminili. Come nella fiaba dei Fratelli Grimm è necessaria l’azione congiunta dei discendenti maschili e femminili per giungere alla liberazione e al lieto fine. Qui inoltre la condanna colpisce sia i discendenti che la loro madre. La versione cinquecentesca che abbiamo scelto per Fabulando è la prima e resta il modello essenziale di questa storia, che dal suo apparire ha avuto una immensa diffusione in Europa, e che all’inizio del Settecento è stata raccontata da un maronita di Aleppo al primo traduttore delle Mille e una notte, Antoine Galland, che la inserì nella raccolta dopo aver esaurito il manoscritto arabo della raccolta dove Shahrazad racconta tante storie, e la pose come ultima storia, prima dello scioglimento della storia cornice. Ma sospendiamo questo argomento per riassumere la fiaba, fornendone la trama strutturalmente comune a tutte le versioni.

Tre sorelle di umile condizione sociale si vantano di realizzare in una misura prodigiosa i desideri dei tre personaggi che vrorrebbero sposare. Nell'Augel Belverde, la prima versione di questa fiaba, cinquecentesca, la sorella maggiore promette che se la sposerà il maestro di casa del re disseterà tutta la corte con un solo bicchiere di vino, la seconda che se la sposerà il cameriere personale del re con un solo fuso del suo filo vestirà di camicie finissime tutta la corte. In altre versioni una delle due promette che se la sposerà il cuoco del re farà un pranzo sontuoso per tutta la corte, l’altra che se la sposerà lo stalliere, curerà la scuderia in modo che nessuno abbia mai visto cavalli tanto belli. La terza, che come sempre è la più bella, dice che se il re la sposerà, darà alla luce tre gemelli meravigliosi, due maschi e una femmina, con i capelli d’oro e una stella in fronte. Il re lo sente o lo viene a sapere, e fa sposare le sorelle maggiori ai suoi servitori, mentre lui sposa la minore. La giovane regina dà effettivamente alla luce i bambini che aveva promesso, ma il re ha dovuto lasciarla per recarsi in un paese lontano, e prima di partire l’ha affidata alla propria madre. La regina madre, che odia la nuora di umili origini, con le sorelle invidiose spesso sue complici, sostituisce i bambini con tre cagnoletti, e fa credere al re che la regina abbia messo al mondo non i tre eredi meravigliosi che ha promesso, ma tre animali. In un cantare cinquecentesco la suocera, dopo aver sostituito i bambini, accusa la povera regina di aver tradito il re con un cane (Stella e Mattabruna, in Cantari novellistici dal Tre al Cinquecento. A cura di Elisabetta Benucci, Roberta Manetti e Franco Zabagli. Introduzione di Domenico De Robertis. 2 Tomi; pp. 1018. Roma: Salerno Editrice 2002.  XXVIII Cantare, Tomo II, pp. 839-862). In certi casi il re non vorrebbe punire la sua sposa, in altri casi vorrebbe ucciderla: si ricordi che la medicina cinquecentesca attribuiva alla cattiva natura della donna qualunque anomalia del neonato (vedi anche: Favole e scienza). In ogni caso la povera regina innocente, Chiaretta nella versione di Straparola, che la definisce pazientissima, viene rinchiusa in un sotterraneo che comunica con l’esterno attraverso una grata posta sul pavimento della cucina, dalla quale le vengono gettati solo rifiuti. In altre versioni il re fa costruire uno stambugio nel cuore della città e ordina che tutti quelli che passano là davanti devono sputare in faccia alla regina o darle uno schiaffo.

La regina madre e le sorelle invidiose avevano messo i principini neonati in una cassettina e l’avevano abbandonata alle acque di un fiume, pensando che sarebbero annegati, invece un mugnaio, in altre versioni un pescatore, un pirata, un eremita o il giardiniere del re, li salva e insieme a sua moglie li adotta. I tre bambini crescono magnificamente e provvedono ad arricchire chi li ha salvati grazie ai loro capelli, dai quali cadono oro perle e pietre preziose. Una volta cresciuti, venendo a sapere che coloro che li hanno cresciuti non sono i loro veri genitori, e partono alla loro ricerca, per arrivare proprio nella città della loro origine, dove vivono in un bel palazzo. Quando il re li vede pensa che così avrebbero dovuto essere i suo i figli e li invita a palazzo, ma la regina madre e le cognate invidiose appena lo sanno capiscono chi sono e tramano per eliminarli prima che il re scopra di essere stato ingannato.
La vecchia che li ha abbandonati promette di eliminarli, e va a parlare con la bellissima fanciulla, dicendole che il suo giardino è bello, ma sarebbe molto più bello se ci fossero il pomo che canta, l’acqua che balla e l’Augel Belverde. L’acqua che balla rimanda all’aqua viva degli alchimisti, vale a dire il mercurio o argento vivo, principio vitale. Il pomo che canta rimanda al frutto proibito difficile da conquistare, mentre l’Augel Belverde potrebbe derivare da un mito diffuso in tutto l’Oriente, che racconta di Simurgh, un uccello molto grande e dotato di poteri magici, che dona la pioggia e i semi, vive migliaia di anni e si rigenera come la fenice. Il suo corrispettivo nelle Mille e una notte è l’uccello Ruck, o Rock, tanto grande e forte che può trasportare un elefante, e che spesso consente a un eroe di coprire distanze immense. Questa creatura immensamente potente, che diventa l’aiutante decisivo dell’eroe, potrebbe aver ispirato Toruk Makto, la creatura alata che nel film Avatar appare nel momento dell’estremo bisogno per aiutare il popolo dei Na’vi (Avatar, James Cameron, US 2009).

Nella fiaba di Straparola nessun significato mistico viene evocato per l’uccellino, ma qualcosa di sapienziale, oltreché magico, gli resta: “L’ugel bel verde, figliuola mia … dí e notte ragiona, e dice cose maravigliose. Se tu lo avesti in tua balía, felice e beata ti potresti chiamare.” (e-book, p. 52)
La principessina pensando a quanto le manca diventa malinconica, e i suoi fratelli gliene chiedono la ragione. Conoscendo il suo desiderio, con entusiasmo o facendosi pregare, a seconda delle versioni, partono uno dopo l’altro per procurarle ciò che desidera. Riescono a prendere il pomo che canta e l’acqua che balla, poi vedono un albero altissimo, circondato da statue di marmo: "E sopra di questo albero l’ugel bel verde saltando di ramo in ramo si trastullava, proferendo parole che non umane ma divine parevano." (Ibid., p. 58) Ma appena toccano le statue i fratelli si pietrificano, fermandosi in muta e immobile compagnia con tutti coloro che hanno tentato e fallito l’impresa.

Non vedendoli tornare, la fanciulla, piangendo la loro morte:

…determinò tra sé stessa di provare sua ventura; ed ascesa sopra un gagliardo cavallo, in viaggio si pose: e tanto cavalcò, che aggiunse al luogo dove l’ugel bel verde sopra un ramo d’un fronzuto albero dolcemente parlando dimorava. Ed entrata nel verde prato, subito conobbe i palafreni delli fratelli che di erbuzze si pascevano; e girando gli occhi or quinci or quindi, vide li fratelli conversi in due statue che la loro effigie tenevano: di che tutta stupefatta rimase. E scesa giú del cavallo ed avicinatasi a l’albero, stese la mano, ed a l’ugel bel verde puose le mani adosso. (Ibid., p. 58-60).

Subito l’uccellino meraviglioso la prega di ridargli la libertà, ma lei risponde che non lo farà prima che lui le abbia insegnato come riportare in vita i suoi fratelli. Così, grazie alle indicazioni dell’Augel Belverde, stacca la piuma rossa che si trova sotto una sua ala e la passa sugli occhi e la bocca delle statue: così tornano in vita non solo i fratelli, ma anche tutti i nobili cavalieri che avevano subito la stessa sorte, che per ringraziarla fanno corteo a lei e ai suoi fratelli sulla via del ritorno. L’uccellino chiede nuovamente di essere rimesso in libertà, ma la fanciulla risponde che non lo farà finché lui non li avrà aiutati a scoprire i loro genitori.

Il re che aveva aspettato invano i suoi cari giovani, li rivede e li invita di nuovo a desinare. Li fa sedere alla sua tavola, dove, alla fine del pranzo, vengono posti i tre oggetti magici, che stupiscono la corte con le loro virtù, e l’uccellino verde rivela al re che quelli sono i suoi tre figli, partoriti dalla regina innocente. Le crudeli sorelle della giovane regina e la regina madre vengono giustiziate, mentre viene liberata la regina innocente, ancora bellissima nonostante tutti gli anni che ha trascorso nella sua umiliante prigione.

In tutte le versioni dell’Augel Belverde il desiderio delle tre sorelle è realizzare i desideri impossibili di coloro che vorrebbero sposare, siano quelli dello stalliere, del cameriere, del cuoco, del maestro di casa, o del re stesso. Ma le due sorelle maggiori, ottenendo i mariti che desideravano, e mantenendo quanto avevano promesso, diventano invidiose della sorella minore, perché lei ora è la regina, mentre loro sono sposate con due servitori del re. Quanto alla minore, che diventa regina perché promette al re di dargli una splendida discendenza, subisce senza potersi difendere la loro invidia e quella della suocera. Si deve osservare inoltre che il re, dovendo partire per la guerra, non dà alcuna protezione alla sua sposa, lasciandola in balìa della madre. I tre gemelli meravigliosi, dotati di prerogative magiche, vengono condannati a morte dalle tre rivali, mentre la loro madre viene umiliata e sottoposta a incredibili sofferenze. Le tre sorelle mettono la loro potenza a servizio dei futuri mariti, possiamo quindi dire che non esprimono un desiderio personale. La vecchia regina agisce contro la giovane regina per mantenere la sua potenza, che esercita facendo in modo che il re suo figlio abbandoni la sua sposa e la spogli di ogni dignità.

Fra i tre principi, che hanno i capelli d’oro, una collana d’oro e una stella in fronte, il gioco del desiderio è ben diverso. La principessa, che pure ha un magnifico palazzo e un giardino meraviglioso, diventa malinconica per il desiderio dei tre oggetti meravigliosi, e i suoi fratelli, a differenza del re loro padre, riconoscono il desiderio femminile al punto di rischiare e quasi perdere la vita per accontentare la sorella. Ma nemmeno l’amore incondizionato di due coraggiosi fratelli basta a soddisfare questo desiderio, e a questo punto la fanciulla stessa intraprende il cammino per realizzarlo. Solo quando lei, il soggetto del desiderio, agisce affrontando l’impresa di persona, la storia si volge verso la soluzione.

L’Augel Belverde potrebbe avere una parentela, come abbiamo detto, con l’alato uccello sapienziale delle narrazioni orientali, ma a noi basta osservare che è proprio lui, in quanto oggetto del desiderio, a determinare l’agnizione, dopo la quale il re finalmente riconosce i suoi figli, scopre l’innocenza della loro madre e la crudeltà delle sue sorelle e della vecchia regina.

Stiamo lavorando a una delle sezioni speciali di Fabulando, che potrebbe intitolarsi “Il desiderio umiliante. Griselda ovvero l’Augel Belverde”. Anticipiamo qui qualche riflessione.
Griselda, protagonista della centesima novella del Decameron, era una bella fanciulla di umili origini, mentre il protagonista maschile era un potente marchese che non si decideva a prender moglie. Un giorno il nobile signore accompagnato dalla sua corte andò nella povera casa di Griselda e disse a suo padre:
 
- Io son venuto a sposar la Griselda, ma prima da lei voglio sapere alcuna cosa in tua presenzia; - e domandolla se ella sempre, togliendola egli per moglie, s’ingegnerebbe di compiacergli e di niuna cosa che egli dicesse o facesse non turbarsi, e s’ella sarebbe obbediente, e simili altre cose assai, delle quali ella a tutte rispose del sì (Decameron; pp. 870).

Il marchese di Saluzzo chiese e ottiene da Griselda l’impegno solenne a soddisfare il desiderio del marito – di non contraddirlo mai, e di non mostrarsi mai contrariata o triste per le sue azioni. La novella conclusiva del Decameron, che precede di un paio di secoli L’Augel Belverde di Straparola, non comprende alcun atto magico, ma una incredibile attitudine dei due protagonisti a far subire e a subire crudeltà, in una misura improbabile quanto l'apparizione di una fata. Si racconta quindi che Griselda ebbe due figli dal suo sposo, che glieli toglse, dicendole che essendo figli di una donna di umili origini come lei, dovevano morire. Come tornano alla fine i tre gemelli de L’Augel Belverde, così tornano i due giovani, che il loro padre non aveva ucciso, facendoli crescere in un’altra città. Sia il padre che la madre vivono senza i figli, e Griselda viene umiliata dal marchese che la manda via solo con una camicia per coprirsi, facendole credere che ora si sposerà con una nobile giovane.
Alla fine, come ne L’Augel Belverde, il marchese rende a Griselda i figli e la dignità che ha meritato con la sua incredibile pazienza, ma la novella prevede un commento. Il suo narratore non si accontenta del lieto fine, e richiama sia l’ideale cortese per il quale l’altezza dell’animo non dipende dalla posizione sociale, sia il desiderio che Griselda desiderasse e avesse qualcosa per se stessa, in modo che al marchese toccasse, invece del dominio assoluto esercitato con tanta crudeltà, un bel paio di corna. Ricordiamo che sia la giovane regina de L’Augel Belverde, in tutte le versioni della fiaba, sia Griselda, sono private dei figli che hanno dato alla luce, e umiliate come se il frutto del loro seno non fosse degno del loro potente padre: nella fiaba l’attante protagonista è accusata di aver messo al mondo dei cani, nella novella i figli le vengono tolti come se dovessero essere uccisi perché l’origine umile di lei li rende indegni di ereditare i beni e i titoli del padre. In attesa di pubblicare il Grand tour di Griselda ovvero l'Augel Belverde, chiudiamo questa nota con le parole di Dioneo, il narratore della novella, le ultime parole dell’ultima novella del Decameron, che vanno intese in un senso più ampio di quanto potrebbe sembrare a una lettura superficiale:

Che si potrà dir qui, se non che anche nelle povere case piovono dal cielo de’ divini spiriti, come nelle reali di quegli che sarien più degni di guardar porci che d’avere soprauomini signoria? Chi avrebbe, altri che Griselda, potuto col viso, non solamente asciutto ma lieto, sofferire le rigide e mai più non udite prove da Gualtieri fatte? Al quale non sarebbe forse stato male investito d’essersi abbattuto a una, che quando fuor di casa l’avesse in camicia cacciata, s’avesse sì ad un altro fatto scuotere il pelliccione, che riuscita ne fosse una bella roba. (Ibid. p. 879).
(AG)

In Fabulando sono presenti altre versioni di questa fiaba: Princesse Belle Étoile di M.me d'Aulnoy, L'uccello Bulbul Hezar di Antoine Galland, Le figlie dell'erbivendolo, fiaba siciliana raccolta da Giuseppe Pitrè, Il canto e il sòno della Sara Sibilla, fiaba toscana raccolta da Gherardo Nerucci.





InglesePrincesse Belle Étoile
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante sud-nord-est-ovest
Carta della fiaba



Possiamo leggere ora una fiaba elaborata dopo Perrault secondo il gusto dei tempi del Re Sole e ampliata fino a diventare un piccolo romanzo di formazione. Ma le aggiunte narrative non arricchiscono il senso né il ritmo della fiaba, che ha nelle sue versioni popolari, di cui Fabulando propone la versione toscana Il canto e 'l sono della Sara Sibilla e la siciliana Le figlie dell'erbivendolo, la stessa pregnanza dell'Augel Belverde, la prima versione letteraria di questa storia. Le versioni delle fiabe narrate da un autore, o un'autrice, come in questo caso, che vuole, svilupparle, per così dire, o arricchire, presentano un aumento di personaggi, di connotazioni psicologiche dei personaggi, o di episodi. I bambini abbandonati in questa versione diventano quattro, e solo una delle due sorelle è invidiosa e trama tutti gli inganni in combutta con la madre del re. L’altra muore dando alla luce un bambino, il quarto, appunto, che crescerà allevato insieme ai tre figli del re e della regina da un pirata pentito. La crudeltà delle umiliazioni inferte alla regina innocente è attenuata, e la sua origine non è più umile: è una nobile priva di ricchezze. L’aggiunta del quarto bambino permette alla narratrice, Madame D'Aulnoy, di arricchire il lieto fine con le nozze fra la figlia del re e il figlio della sorella buona della regina, che fino a un certo punto si credeva suo fratello.
Ci pare in ogni caso che l’equilibrio narrativo delle fiabe sia la loro vera magia, simile a una impadroneggiabile grazia, a una benedizione che scende sulla catena dei narratori, in gran parte ignoti, che la rinarrano per secoli sotto diversi cieli. Pregnante, feconda come l’umile protagonista di queste fiabe, può essere costretta in una forma particolare o arricchita con un nuovo personaggio. Ma la tradizione continua lasciando da parte le varianti autoriali che, per quanto abbiano un senso o possano affascinare, non aggiungono nulla all'equilibrio narrativo della storia. (AG)





IngleseL'Oiseau Bulbul Hezar
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante sud-nord-est-ovest
Carta della fiaba



Questa fiaba, una delle tante varianti dell'Augel Belverde, è un vero gioiello, per chi ami seguire le migrazioni e gli scambi favolosi fra culture diverse. Come l'Augel Belverde si trova nel quadrante sud-nord-est-ovest, e la sua ingiunzione è il Patibolo della condanna a morte.

Certe fiabe si somigliano tra loro come fratelli e sorelle, e i loro caratteri, derivando dai loro genitori - le versioni che le hanno precedute, più vicine nel tempo e nello spazio - sono però impossibili da attribuire con certezza all’uno o all’altro, potendo venire da loro simili più lontani e dimenticati.
Un Sultano, camminando nella notte in incognita per le vie della sua città, sentì tre sorelle che promettevano difare cose meravigliose se avessero sposato il panettiere, il capo cuoco e proprio lui, il sovrano. il Sultano diede alle due sorelle maggiori i mariti che avevano desiderato, e sposò la terza, la più bella, che aveva detto:

Pour moi, je souhaiterois d'estre l'épouse du Sultan; je lui donnerois un prince qui auroit des cheveux d'or d'un costé, et d'argent de l'autre, dont les larmes seroi[en]t des perles et qui ne riroit pas une fois sans faire éclore les boutons de roses. E io, se diventassi la sposa del Sultano, gli darei un principe con i capelli da una parte d'oro e dall'altra d'argento, le cui lacrime sarebbero perle, e sulla sua bocca, ad ogni sorriso, apparirebbe un bocciolo di rosa.

(L'Oiseau Bulbul Hezare-book, p. 8)

La sposa del Sultano diede alla luce i tre meravigliosi bambini che aveva promesso, non in un unico parto come ne L'Augel Belverde, ma un anno dopo l'altro. Le sorelle invidiose, qui nel ruolo altrove svolto dalla vecchia regina madre, cercarono di eliminarli abbandonandoli alle acque e sostituendo loro prima un cagnolino, poi un gattino, e infine un pezzo di legno. Dopo la terza nascita il Sultano punì la povera sposa imprigionandola alle porte della città e ordinando che tutti quelli che passavano le sputassero in faccia.
Come in tutte le storie di questo tipo, i tre principi meravigliosi vennero salvati, in questa storia dal giardiniere del sultano, che li crebbe con ogni cura.
Le sorelle invidiose non perseguitarono i principi una volta cresciuti, e il desiderio dei tre oggetti magici venne da un motivo orientale: una vecchia devota visitò il palazzo dei tre principi, e pur trovandolo bellissimo disse alla principessa che le mancavano tre oggetti meravigliosi: l'albero che canta, l'acqua d'oro che non smette mai di zampillare, e l'uccello Bulbul Hezar. Il motivo della vecchia devota, che suggerisce alla principessa cosa le manca nel suo magnifico palazzo, è nell'episodio finale della storia di Aladino e la lampada meravigliosa, spesso mancante nelle versioni più diffuse. (Vedi anche, a questo proposito, Adalinda Gasparini 1993, in particolare il capitolo sesto, Da servo a padrone, da padrone a servo: l'uovo del Rukh, pp. 165-184)
Come nelle altre versioni di questa storia, i fratelli partirono senza esitare per far felice la sorella, ma alla fine si trasformano in statue. La principessa a sua volta partì per cercarli, conquistò il magico Bulbul Hezar e riportò in vita i suoi fratelli. Grazie al magico uccello avvenne, come in tutte le versioni, la finale agnizione con la liberazione della Sultana calunniata, la punizione delle sorelle invidiose e un magnifico corteo regale con ali di folla acclamanti.

La storia fu narrata a Parigi da Hannà, arabo cristiano maronita di Aleppo, al primo traduttore europeo delle Mille e una notte, Antoine Galland, che cercava altre storie per la sua raccolta, avendo esaurito il manoscritto siriano del XIV secolo, con un immenso successo di pubblico. Il titolo che Galland diede a questa storia è Histoire des deux sœurs jalouses de leur cadette. L'uccellino parlante, che renderà possibile l'agnizione e il lieto fine, si chiama qui Bulbul Hezar, ed è impossibile dire se il nucleo sia venuto dall’Oriente, o se sia arrivato in Siria dall’Europa. Il veneziano Straparola, che potrebbe aver vissuto a lungo in Oriente con un incarico della Serenissima repubblica di Venezia, potrebbe aver rielaborato un motivo orientale. Ma il maronita Hannà doveva considerare la fiaba dell'uccello Bulbul Hezar come appartenente alla tradizione del suo paese, e Antoine Galland non esitò a pubblicarla a conclusione delle sue Mille e una notte. Ricordiamo che al maronita, di cui conosciamo l'esistenza dal diario di Antoine Galland, si devono alcune fra le storie più famose incluse nella raccolta araba a partire da Antoine Galland, nessuna delle quali figura nei manoscritti delle Mille e una notte precedenti la prima traduzione francese. Fra queste, Aladino e la lampada meravigliosa, Alì Babà e i quaranta ladroni, Il cavallo d'ebano (vedi, a questo proposito, Adalinda Gasparini 1993, in particolare Appendice al capitolo quarto. Una storia della storia di Aladino: Kabikàj - Fiaba originaria e sogno originario. Un contributo psicoanalitico al problema filologico, pp. 81-97).

Fabulando offre l'e-book de L'Oiseau Bulbul Hezar, con due versioni, entrambe solo in lingua originale: quella che Galland scrisse sul suo diario avendola sentita dal maronita di Aleppo, e quella che pubblicò a conclusione delle sue Mille et une nuits. Il lettore, anche non specialista, potrà osservare come lavorava l'arabista viaggiatore e traduttore che introdusse in Europa la grande raccolta araba, che avrebbe influenzato profondamente l'immaginario europeo, e che, a sua volta, avrebbe stimolato le prime edizioni arabe della raccolta, apparse dall'inizio del XIX secolo (per una breve storia delle versioni delle Mille e una notte, vedi Adalinda Gasparini 2003b). (AG)




Le figlie dell'erbivendolo
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante sud-nord-est-ovest
Carta della fiaba



Non esiste forma narrativa più democratica delle fiabe, che abitano con la stessa grazia nei templi della cultura come nelle aie contadine. Né esistono racconti che più delle fiabe possano essere amate con lo stesso slancio spontaneo da bambini e adulti di religioni o ideologie diverse e in guerra fra loro. Dalla corte del Re Sole e dal finale delle Mille e una notte basta un passo per andare nella Sicilia di fine Ottocento, ad ascoltare con Giuseppe Pitré la stessa storia da una narratrice analfabeta. Possiamo quindi riprendere il racconto dall’impresa della fanciulla, legata ai fratelli tanto che ciascuno dei tre è disposto a rischiare la vita per gli altri. Questo legame amoroso fra maschi e femmine resiste a tutte le prove, e per questo la nuova generazione può sciogliere le trame invidiose che hanno fatto la disgrazia della loro madre innocente.
Nelle fiabe, ogni volta che un re non protegge con la sua presenza la sposa, questa cade in balìa delle antagoniste. Qui come in tutte le altre versioni, quando il re vede i tre giovani pensa che somigliano ai figli che la sposa gli aveva promesso, e li invita nel suo palazzo. Ma le sorelle invidiose capiscono chi sono, e con le loro trame li allontanano, credendo di eliminarli per sempre.
Essendo una versione popolare de L'Augel Belverde, si rimanda alla nota relativa a questa fiaba, nonché alle altre tre varianti proposte da Fabulando: Il canto e 'l sono della Sara Sibilla, L'Oiseau Bulbul Hezar, e Princesse Belle Étoile.  (AG)




IngleseIl canto e 'l sono della Sara Sibilla
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante sud-nord-est-ovest
Carta della fiaba



La prima delle due preziose versioni popolari dell'Augel Belverde è toscana e la creatura alata e parlante, in ogni versione dotata di sapienza divinatoria, si trasforma nel canto e ’l sòno della Sara Sibilla, difficile da avere quanto l’uccellino e altrettanto magico. È come sempre la sorella a farselo dare prendendo per i capelli la Sara Sibilla, ..un’ombra smensa, co’ capelli lunghi ciondoloni per le spalle. Sara potrebbe stare per sacra, e le sibille erano sacre nella mitologia antica. Questa figura, che è un frammento della cultura latina nel racconto popolare, dà accesso a una verità difficile da far emergere, come nel mondo classico divinava e rendeva possibile l’accesso al regno dei morti. Ma cos’è questa cosa nominata come ’l canto e il sòno col quale la fanciulla riporta in vita i fratelli pietrificati, libera la madre dalla sua lunga pena e ritrova i genitori? Un arnese, spiega la narratrice analfabeta al professor Gherardo Nerucci che la ascoltava e scriveva, ma com’era fatto nun si sa. Quel che ci dice è che l’impresa finale e risolutiva è far emergere una parola vera, che dissipa in un batter d’occhio la menzogna dell’invidia che aveva diretto gli eventi al posto del re assente e della madre priva di difesa. Parola, lo ricordiamo, ha la stessa origine di parabola, di fabula e di fiaba. (AG)







IngleseSivka-Burka
Labirinto dell'impegno impossibile
Quadrante nord-est
Carta della fiaba




Quando abbiamo letto questa fiaba russa la nostra raccolta di fiabe era già ricca con i suoi sessantasei racconti. Inserire una nuova fiaba è un lavoro complesso, del quale la preparazione degli e-book, italiano e inglese, è solo una parte. Ma la rappresentazione poetica dell'eros maschile che si trova in questa fiaba è insuperabile, e volevamo che Fabulando lo avesse insieme agli altri suoi gioielli.
Il piccolo Ivan, disprezzato dai fratelli maggiori come Cenerentola dalle sorelle, sostituisce i fratelli che non hanno voglia di passare una notte sulla tomba del padre a portargli il cibo che ha chiesto di ricevere per tre giorni dopo la sua sepoltura. Non rivela al padre l'assenza dei fratelli, e solo la terza notte, quando sta a lui onorare il padre morto, gli si presenta. Il padre in questa sua ultima apparizione nel mondo terreno sceglie di dotare magicamente il figlio minore, rivelandogli dove trovare e come chiamare Sivka-Burka, il cavallo magico. Il piccolo Ivan sta sempre accanto alla stufa come Cenerentola sta accanto al camino, Chi considera troppo diversi un padre che viene dall'aldilà e la Fata Colomba di Basile, può ricordare che nella versione di Cenerentola dei Grimm, Aschenputtel chiede al padre un rametto di nocciolo, e piantandolo sulla tomba della madre fa crescere un alberello, sul quale compare un uccellino bianco che le fornisce abiti e scarpette meravigliose, proprio come la fata del dattero della versione secentesca. Non abbiamo in Fabulando, una delle versioni popolari nelle quali è direttamente la madre morta, che riappare come una pecora o una vitella, o anche come una betulla o un altro albero, a proteggere dalla crudeltà delle sorelle o delle sorellastre la sua figlia più piccola, per poi dotarla delle vesti con le quali si presenterà al figlio del re e lo farà innamorare.
Le fiabe non comprendono un aldilà, per quanto sia frequente e quasi regolare l'apparizione di creature ultramondane nell'aldiqua. Quando la fiaba comincia l'orizzonte è sempre solo umano, e torna solo umano alla fine. La fiaba comprende l'invisibile, ma non lo struttura come un mondo parallelo, a differenza del mito, sia nel politeismo che nel monoteismo. Solo scegliendo di essere ottusi possiamo non accorgerci dell'ignoto che ci circonda, non solo prima della nostra nascita e dopo la nostra morte. La fiaba racconta come si manifesta, come gli attanti protagonisti, sia maschi, sia femmine, diano il benvenuto alle creature ultramondane, quando sono propizie, come le contengano quando sono ostili, e come intreccino la loro esperienza quando si manifestano, e quando scompaiono, come delle fantasime sempre avenir suole. Le ultime parole, in corsivo, sono quelle scritte da Giovan Francesco Straparola nella sua fiaba della Bambola Popoavola. E quando Ivan salirà con la sua principessa sul tron della Russio, Sivka-Burka non sarà nelle stalle dello zar, ma nell'invisibile dal quale un fischio può bastare e non bastare a farlo apparire. (AG, 15/02/22)





IngleseCecino
Patibolo della condanna a morte
Quadrante sud-est
Carta della fiaba






Questa fiaba, come tante altre, comincia con la mancanza di eredi. Qui alla disperazione della donna segue un perturbante numero di figliolini, e la neo-mamma, nel brusco passaggio dalla mancanza alla sovrabbondanza non esita ad adottare misure drastiche di limitazione delle nascite. Tenta quindi di eliminare tutti i bambini nati dalla sua pentola: la metafora alimentare potrebbe rappresentare una confusione fra nutrimento e fecondità, segnalando un vuoto luttuoso che non sarà colmato dal figlio, perché è legato a qualcosa di arcaico nella sfera del materno. L'astuzia dell'unico sopravvissuto consiste nell'attendere che la madre pianga credendo di non avere più nemmeno un piccolino, e di non uscire dal buco della serratura finché non si è fatto promettere che lo risparmierà.

Le dimensioni del bambino-cecino evocano la fragilità del figlio, che è di fatto in balìa dei genitori, che sono i suoi padroni assoluti. L'intelligenza e il desiderio di venire alla luce e vivere del bambino costituiscono la sua forza, e l'astuzia del piccolo da sempre vince sulla forza del grande: come quella di David con Golia, o di Ulisse col ciclope Polifemo. La metafora alimentare sovrapposta a quella della nascita è frequente nelle fantasie dei bambini molto piccoli sul mistero della generazione, e ha un lontano corrispettivo mitico nel mito greco di Cronos/Tempo, il dio padre che incorpora i figli appena la madre li partorisce (VIII sec. a. C.). Il mito greco, già narrato da Esiodo nella Teogonia, interpretabile come un divoramento da parte del padre che non tollera la presenza di figli rivali, può essere inteso come un'incorporazione, una seconda nascita dal corpo paterno. Il nostro Cecino tabarchino si nasconde nel buco della chiave, luogo di apertura e chiusura che può indicare la possibilità di una seconda nascita, mediata questa volta dalla parola.

Nella versione narrata da Italo Calvino (Cecino e il bue) il bambino piccino piccino non esce dal suo nascondiglio, per non finire come i suoi fratellini sotto la paletta scacciamosche, finché il padre, tornato dal lavoro, non dice quanto vorrebbe che almeno un bambino fosse sopravvissuto. Per venire alla luce e vivere il desiderio materno non è sufficiente, sia perché biologicamente deve esserci un padre fecondatore, sia perché è il padre a legittimare il figlio limitando la potenza materna e inserendolo nel mondo della legge. La nascita magica e la minuscola statura impongono al protagonista altre prove, in entrambe le versioni legate alla fusione fra ventre come luogo della gestazione e ventre come luogo del divoramento: è una mucca a incorporare il bambino insieme al cibo. Nella nostra versione tornerà alla luce grazie al padre, mentre nella versione di Calvino sarà l’astuzia del bambino a permettergli di vivere. Questa seconda nascita, che segue alla nascita naturale, potrebbe rappresentare l'umanizzazione: se per la prima il desiderio materno può bastare, per la seconda è necessaria la presenza del padre.

L’ingiunzione agita dalla madre è il Patibolo della condanna a morte, e l’attante protagonista  è maschile, la fiaba quindi si iscrive nel quadrante sud-est. (AG)



IngleseLa cerva fatata
Patibolo della condanna a morte
Quadrante sud-est
Carta della fiaba


Perché l'errore che si nutre nel midollo 
delle ossa di ogni uomo e di ogni donna
brama quel che non può avere:
non l'amore di tutti,
ma d'essere il solo amato.
W. H. Auden, 1 settembre 1939




















































































































































































































Questa fiaba ha un doppio protagonista maschile, come Il corvo e La ricotta bianca, e il movimento che porta alla successione, vale a dire alla separazione dei due fratelli e alla loro ascesa al trono, è generato dal tentativo della regina madre di uccidere uno dei due gemelli magici, preceduto dalla nascita magica dei due attanti protagonisti da due madri diverse.
La cerva fatata è una delle tre storie, tratte da Lo cunto de li cunti di Giambattista Basile, rinarrate da Matteo Garrone ne Il racconto dei racconti - Tale of Tales (Italia/Francia 2015). Si tratta di un film molto bello, che per noi che amiamo e studiamo le fiabe, il loro senso, le loro vicende attraverso i secoli, è particolarmente attraente per come rinarra le tre storie che ha scelto.
Diciamo anzitutto che nel film come insieme narrativo, articolato in tre rinarrazioni, riconosciamo il tema da noi scelto, la successione delle generazioni:
- nella fiaba tratta da La cerva fatata il re e la regina sterili muoiono perché nasca e possa continuare a vivere il loro erede;
- nella fiaba tratta da La vecchia scorticata (vedi nel sito Biblioteca della letteratura italiana, Basile, 1, X) il re cacciatore di prede femminili e venatorie, che ha in orrore la vecchiaia, per due volte crede di conquistare una giovane bellissima, mentre ha accanto a sé una vecchia; alla fine della storia è solo e senza eredi ;
- nella fiaba tratta da La pulce (vedi nel sito Psiconalisi e favole Lo polece), il re che non vuole separarsi dalla figlia, come non vuole separarsi dalla pulce che alleva con grande amore, rischia di provocare la morte della sua unica erede.
(vedi anche Chellini & Gasparini, È morto il re, viva la regina! La nuova fiaba antica di Matteo Garrone, nel sito Fairitaly.)
Delle tre fiabe scelte da Matteo Garrone per la sua rinarrazione Fabulando contiene La cerva fatata, proponiamo quindi un confronto fra la fiaba di Basile e la sua versione filmica. Lo scopo di questa comparazione, come dell'altra che si trova in questa pagina, fra Il corvo e La ricotta bianca, è di far emergere alcune varianti, per apprezzare la particolarità di entrambe le narrazioni. Lontane per spazio, tempo e mezzo espressivo, le due varianti hanno la stessa ricchezza narrativa.


LA CERVA FATATA - CONFRONTO ANALITICO FRA LE VERSIONI DI BASILE E GARRONE

1. LA COPPIA REGALE È STERILE
Basile
Garrone
Il re di Longa Pergola ha tentato di tutto per avere un erede, inutilmente. Nulla riesce a far ridere la regina di Selvascura che non pensa ad altro che alla voglia di essere incinta.
La regina non ride mai: questo particolare non è presente ne La cerva fatata, ma si trova nella storia cornice de Lo Cunto de li cunti (vedi nel sito Biblioteca della letteratura italiana) e ne Lo scarafaggio, il topo e il grillo, dove l'attante femminile è una principessa melanconica. Nella raccolta di Basile e nelle fiabe in genere questa malinconia implica la mancanza delle nozze, mentre in Garrone riguarda la mancanza della fecondità. In entrambi i casi l'avvicendamento delle generazioni è impossibile.
Confrontando le due versioni, si osserva che mentre in Basile il desiderio di un erede è presentato dal re, in Garrone è espresso dalla regina. Quando la compagnia dei saltimbanchi si esibisce nella reggia, il re e tutti i cortigiani ridono e si divertono, mentre la regina resta impassibile. Quando poi vede che una delle attrici è incinta, la regina infuriata interrompe la festa correndo nelle sue stanze.

2. UN MAGO O UN NEGROMANTE SVELA COME LA REGINA POTRÀ AVERE UN FIGLIO
Basile
Garrone
Arriva al castello un mago che assicura il re che sua moglie gli darà un erede se mangerà il cuore di un drago marino cucinato da una vergine.
Arriva un negromante che, prima di svelare come può nascere un erede, dice che occorre un atto di coraggio, perché nascita e morte sono connesse: per avere una nuova vita occorre il sacrificio di un'altra vita. Chiede se il re e la regina sono pronti a correre questo rischio, e alla loro risposta affermativa svela che la regina avrà un figlio appena avrà mangiato il cuore di un drago marino, cucinato da una vergine.
Mentre il mago opera entro i confini della vita, il negromante varca i confini tra la vita e la morte. Ne Lo cunto de li cunti una figura analoga al negromante di Garrone si trova nella fiaba Il corvo, che abbiamo già ricordato per un'altra analogia con La cerva fatata: la presenza di una coppia di fratelli. Il fratello minore è un principe che per salvare il fratello re è stato trasformato in una statua di marmo. Accade che il re pianga e veneri questa statua, quando arriva un vecchio che gli chiede quanto darebbe per far tornare in vita il fratello. Il re sarebbe pronto a rinunciare a tutto il suo regno, ma "Non è cosa chesta", leprecaie lo viecchio, "che 'nce voglia premio de recchezze ma trattannose de vita co autrotanto de vita se deve pagare" (e-book, p. 88). Queste parole fanno riferimento a una legge analoga a quella enunciata dal negromante del film, il cui discorso equipara la nascita al ritorno in vita di qualcuno che è morto.
Il negromante pratica la magia nera, evocando i morti, e alterando le leggi della natura, mentre il mago pratica la magia bianca, agendo in armonia con la natura stessa. Il mago di Basile e il negromante di Garrone indicano lo stesso rimedio per la sterilità della coppia regale, ma in una prospettiva diversa. Se il desiderio di un erede è naturale e legittimo, e infatti nelle fiabe le nascite magiche sono più frequenti di quelle normali, l'intervento di un negromante e l'enunciazione di una legge che riguarda il regno dei morti cambiano il senso dell'intervento magico, con conseguenze tragiche.

3. CUORE DI DRAGO MARINO
Basile
Garrone
Il re invia alla ricerca del drago marino cento pescatori, che dopo averlo catturato "lo portaro a lo re, lo quale lo dette a cocinare a na bella dammecella." (e-book, p. 18)

Il re in persona scende nelle acque delle gole vulcaniche dell'Alcantara, irrigidito da uno scafandro.  Vede il drago addormentato e lo colpisce a morte con la sua lancia. Il drago a sua volta scaraventa sul fondo il re, che resiste al primo assalto, per poi essere colpito a morte dalla coda del drago. Prima di chiudere gli occhi il re tocca il cuore pulsante del drago, che continuerà a battere finché non sarà cotto.
La regina vestita di nero viene a prendere il cuore, e se lo porta via senza degnare di uno sguardo il corpo del sovrano.
Osserviamo, per inciso, che il drago marino del film sembra ispirato dal drago Fafner disegnato da Arthur Rackham per illustrare L'anello del nibelungo di Wagner (Siegfried & The Twilight of the Gods).
La differenza fondamentale fra Basile e Garrone è che nel film il re va di persona a caccia del drago marino e sacrifica la sua vita per realizzare il desiderio della regina. Non conosciamo fiabe nelle quali una gravidanza magica implichi la morte del padre. Questo particolare rende la regina una figura fallica, che sembra non desiderare altro che la realizzazione della sua potenza, senza mostrare alcun rimpianto per la morte del re suo sposo. Se il re, rappresentante della legge, limite necessario all'azione e al desiderio di ciascuno, deve morire, è la legge stessa ad eclissarsi, lasciando il campo a una figura materna onnipotente. Questa regina onnipotente ricorda altre regine di fiaba, come la regina madre di Biancaneve, che non tollera di perdere il suo primato assoluto ed esclusivo. Si tratta sempre di un primato femminile che deve escludere sia la legge del padre, sia qualunque donna che minacci questo potere.
I colori delle vesti sontuose della regina costituiscono un filo di senso da non trascurare. Fino a questo punto la regina è sempre vestita di nero. Come Grimilde ha capelli e occhi neri, si discosta quindi dallo stereotipo delle attanti femminili positive, che hanno i capelli biondi come l'oro, tranne la significativa eccezione proprio di Biancaneve. La sua espressione rigida e severa può ricordare una celebre principessa che non voleva né ridere né sposarsi: Turandot, che nel teatro d'opera ha spesso acconciature fatte di punte metalliche non diverse da quelle della regina del film.

4. DUE O PIÙ GRAVIDANZE E PARTI MAGICI
Basile
Garrone
La bella damigella mette al fuoco il cuore e appena si sprigiona il fumo della cottura diventa gravida, e insieme a lei si ingravidano i mobili del palazzo, che in pochi giorni figliano: il letto matrimoniale fa un lettino, il forziere un piccolo scrigno, le sedie fanno delle seggioline, il tavolo un tavolino e il vaso da notte un vasino piccolo smaltato che era una bellezza a vedersi.
La regina si trova incinta appena assaggia il cuore di drago.
La regina e la d
amigella partoriscono contemporaneamente ...no bello mascolone ped una 
(e-book, p. 20), impossibili da distinguere uno dall'altro.
Una sguattera vergine molto umile prende il cuore pulsante e lo getta in pentola. Rimane incinta sentendo il fumo della cottura.
La regina si pone di fronte al cuore di drago, che pur avendo smesso di pulsare appare crudo, insanguinando la sua bocca. Lo mangia a lungo, staccandone pezzi con le mani, con disgusto e determinazione. In questa inquadratura sono accentuati i colori della fiaba: sono neri i capelli della regina e il suo abito, bianca è la sala nella quale mangia per restare incinta, bianchi i mobili, il pavimento. Rosso è il cuore, rosso il sangue.
La regina e la serva partoriscono contemporaneamente, e nascono due bambini identici.

Basile ci invita a ridere della magica potenza del cuore di drago marino, quando fa fecondare dai vapori della sua cottura non solo la damigella ma anche i mobili di casa, elencati a partire dal grande letto fino al piccolo vaso da notte che partorisce un delizioso vasino dipinto. Nel film di Garrone questo particolare comico è escluso, mentre sono accentuati gli aspetti drammatici e cruenti della vicenda. Il cuore gigantesco e pulsante estratto dal corpaccione dell'animale viene cotto, ma giunge nel piatto della regina rosso come se fosse ancora crudo, tanto che le macchia la bocca di sangue. Sembra inoltre che la regina debba mangiarlo tutto, mentre in Basile lo assaggia appena.
In questo pasto cannibalico, senza posate, la regina è ancora vestita di nero, ed è circondata da un bianco assoluto, mentre rosso sangue è il cuore fecondatore.

5. I DUE MAGICI GEMELLI ALBINI
Basile
Garrone
"Li quale se crescettero 'nziemme co tanto ammore che non se sapevano spartere punto fra loro; ed era cossí sbisciolato lo bene che se portavano che la regina commenzaie ad averene quarche 'nmidia, pocca lo figlio mostrava chiú affezzione a lo figlio de na vaiassa soia c'a se stessa, e non sapeva de che muodo levarese sto spruoccolo da l'uocchie." (Ibid., p. 22)
Nella versione di Basile il principe si chiama Fonzo, il suo gemello Canneloro.

"Diciassette anni dopo" annuncia l'unica didascalia del film, e vediamo il labirinto di Donnafugata, con la regina vestita di nero e di rosso, che sotto il sole insegue suo figlio, il principe Elias, senza riuscire a prenderlo. Lo chiama giocosa, supplice, delusa, mentre il principe incontra Jonas, il figlio della serva, e fugge felicemente con lui per andare a immergersi nelle stesse acque dove viveva il drago. I due giovani, gemelli nonostante abbiano due madri diverse, si amano profondamente, e niente li fa felici come incontrarsi.
La regina prova fastidio e repulsione per l'intensità del loro rapporto, e vieta al principe Elias di frequentare Jonas, dicendo che un principe erede al trono non può trattare alla pari il figlio di una serva.

In entrambe le versioni la regina è gelosa dell'affetto di suo figlio per il figlio della sua serva, ma nel film si rende esplicito un tratto che caratterizza la sua onnipotenza. Col divieto che pone al figlio tenta di affermare una distanza fra i due bambini che non esiste dato il loro aspetto, e il fatto di essere stati generati grazie al sacrificio dello stesso re e al potere fecondatore del cuore del drago. L'esistenza di un gemello del figlio incrina irrimediabilmente la sua esclusiva potenza.
Abbiamo osservato, a proposito de Il corvo, che i colori dei quali si innamora il re che non voleva sposarsi sono gli stessi dei quali si innamora la regina che nei 
Grimm desidera un figlio bianco come la neve, rosso come il sangue e nero come l'ebano. La potenza della combinazione fra questi tre colori - rosso come vita, nero come morte, bianco come innocenza - ci spinge a ipotizzare che i  Grimm l'abbiano tratta da Il corvo, e che dalla stessa fiaba li abbia tratti Matteo Garrone per la regina che mangia il cuore di drago marino. L'analogia si impone anche se non c'è stata una scelta deliberata da parte dei  Grimm o di Garrone: nella sceneggiatura del film  questa regina ha preso i colori della sposa ideale de Il corvo, dal quale, come abbiamo osservato sopra, vengono anche le parole sulla vita che si può ottenere solo sacrificando una vita,  pronunciate in entrambi i casi da un vecchio mago, che nel film di Garrone ha l'aspetto di un negromante.
Un vivente deve sacrificarsi perché torni in vita qualcuno dal regno dei morti, e ne Il corvo la regola si applica infatti al fratello minore del re, che è diventato una statua di pietra. Il re dovrà sacrificare i suoi bambini neonati per riportarlo in vita. Pensando alla mitologia greca possiamo ricordare, ad esempio, Alcesti che muore per salvare dalla morte lo sposo Admeto.
Le nascite magiche nelle fiabe non implicano la morte di uno dei genitori, ma sovvertono un ordine naturale, e portano con sé una maledizione, o un destino pieno di rischi, anche mortali, che il frutto della gravidanza magica deve affrontare come se dovesse conquistare un diritto alla vita che non è dato completamente dalla gravidanza magica.


6. LA REGINA TENTA DI UCCIDERE IL GEMELLO DI SUO FIGLIO, CHE DECIDE DI PARTIRE
Basile
Garrone
Mentre i due gemelli si preparano alla caccia, il principe Fonzo si allontana ed entra la regina, che trovando Canneloro da solo lo colpisce con una pallottola rovente. Il giovane viene ferito alla testa, ma la regina deve rinunciare al suo propostto perché arriva il principe. Canneloro non dice nulla, nasconde la ferita alla testa con un cappello, e il giorno dopo parte senza dare spiegazioni. Prima di partire fa sgorgare una fontana col pugnale e fa nascere un ramo di mirto: se l'acqua sgorgherà copiosa e chiara e se la pianta crescerà rigogliosa, il principe saprà che lui sta bene, se la pianta appassirà e la fonte si intorbiderà vorrà dire che è in pericolo, se la pianta e la fonte seccheranno, saprà che è morto. 

Mentre la regina si prepara ad andare a dormire entra da lei Jonas, fingendosi il principe Elias. La regina dapprima non se ne accorge, poi comprende. Spia i due giovani, mentre Elias dice a Jonas che presto sarà re, e allora potrà anche dividere con lui il trono, e migliorare la condizione di sua madre, perché come re potrà decidere quel che vuole.
La regina aspetta Jonas nel percorso sotterraneo che il giovane usa per andare a visitare il principe, che è la macelleria del castello, dal cui basso soffitto pendono animali squartati o spennati di ogni genere. Fra questi la regina con un'arma da taglio colpisce alla testa il giovane, che però riesce a sfuggirle.
La mattina dopo Jonas parte, e non risponde alla richiesta di spiegazioni di Elias. Fa sgorgare una sorgente vicino alla reggia e gli dice che finché l'acqua sarà chiara lui saprà che starà bene, mentre se la fonte si intorbiderà o se seccherà vorrà dire che è in pericolo o che è morto.
Quando il figlio della serva nel racconto di Garrone entra nella sua camera, la regina dapprima lo scambia per suo figlio, e solo guardandogli le mani, probabilmente segnate dal lavoro, sospetta o si convince che si tratti del figlio della sua sguattera. Questo scatena la sua furia omicida: la sua unicità, la sua supremazia regale, il carattere straordinario della sua maternità vengono meno se lei stessa ha difficoltà a distinguere suo figlio dal figlio della serva, e per essere unica nella maternità magica deve uccidere Jonas. La nascita non viene dall'incontro fecondo fra un uomo e una donna, ma dal desiderio della regina che non rimpiange il sacrificio estremo del re e che è pronta a dare la sua stessa vita pur di "sentire una vita dentro di sé". Avere un figlio rappresenta la massima, e la sola, espressione di potenza femminile, per la quale la regina è pronta a sacrificare altre vite, senza limiti. Il bianco della purezza assoluta rimanda all'ideale, che allontana dalla vita, il nero alla morte, il rosso al sangue: la regina non conosce altri colori, è un personaggio potente e tragico che deve morire perché il figlio possa crescere. Il lieto fine delle fiabe dove si trova una regina madre dotata di una potenza senza limiti esige la loro morte, e la storia rinarrata da Garrone non fa eccezione.

7. IL PRINCIPE CORRE IN AIUTO DEL SUO GEMELLO
Basile
Garrone
Canneloro partecipa a un torneo e vince la mano della figlia del re, che si chiama Fenizia. Il re lo prega di non andare a caccia nel bosco, perché c'è un orco che può assumere diverse forme e che potrebbe ucciderlo, ma Canneloro non ha paura e non ascolta il suo consiglio. Vede una bella cerva e la insegue, fino a perdersi nel bosco, dove l'orco scatena una terribile tempesta. Canneloro si ripara in una grotta, dove accende un bel fuoco per asciugarsi. La cerva si avvicina e gli chiede di lasciarla entrare a scaldarsi, e Canneloro acconsente. La cerva però chiede e ottiene, dicendo che ha paura che lui la uccida, che il giovane leghi i suoi cani e il cavallo, e che metta da parte la spada. Appena Canneloro è disarmato la cerva si trasforma in orco, lo afferra, lo getta in una fossa e chiude l'imboccatura.
Quando Fonzo, che guarda ogni giorno la fonte, vede l'acqua intorbidata, parte senza congedarsi dalla madre. Giunge nel regno dove Fenizia lo abbraccia come suo sposo. Comprendendo che di là è passato il suo gemello, il principe Fonzo passa la notte con Fenizia, ma mette una spada fra sé e lei. Appena fa giorno va a caccia dove si è recato Canneloro.
Il principe Elias parte appena vede l'acqua torbida nella fonte, e quando arriva in un certo paese gli si fanno incontro persone del popolo che lo salutano felicitandosi per il suo ritorno, e soprattutto è felice la sua giovane sposa, Fenizia. Comprendendo che lo scambiano per Jonas, il principe si finge smemorato e si informa sul gemello, per poi partire verso la foresta dove era andato a caccia.
Il motivo della cerva che si fa inseguire dal principe per poi riverlarsi un orco o una strega che lo imprigionano per divorarlo o lo costringono a nozze indesiderabili rimanda al mito greco. Mentre Artemide, dea vergine della caccia, si bagna nuda, il nobile Atteone, che secondo una tradizione mitica si vanta di essere un insuperabile cacciatore, la vede. La dea allora lo trasforma in un cervo, e aizza contro di lui i suoi stessi cani, che lo sbranano.
Nel cuore del bosco, regno della natura, la dea che non desidera le nozze viene vista nella sua nudità. La rottura violenta dell'equilibrio per il quale questo femminile divino deve restare invisibile al maschile esige la morte di colui che ha scoperto il segreto. Il predatore maschile cacciatore, Atteone, si trasforma in preda e viene sbranato dai suoi stessi cani, restando vittima della sua eccessiva passione per la caccia. Molte fiabe, fra queste proprio Il corvo, iniziano con un re che non pensando ad altro che a cacciare, rifiuta le nozze e trascura gli affari del regno. Ricordiamo il marchese di Saluzzo, protagonista della novella di Griselda, la centesima del Decameron: il quale, essendo senza moglie e senza figliuoli, in niuna altra cosa il suo tempo spendeva che in uccellare e in cacciare, né di prender moglie né d’aver figliuoli alcun pensiere avea. Alla novella conclusiva del Decameron facciamo cenno in questa pagina, a proposito della fiaba dell'Augel belverde. La smodata passione per la caccia caratterizza anche il re protagonista del poema persiano Gli otto paradisi (XIII-XV sec.), tradotto e rinarrato a Venezia nel sec. XVI da Cristoforo Armeno, che secondo un'ipotesi debole ma affascinante potrebbe esser un secondo pseudonimo dello stesso autore de Le piacevoli notti, Giovan Francesco Straparola. L'opera fu un best-seller europeo, e dal nome del regno dei tre protagonisti,
Peregrinaggio dei tre giovani figliuoli del re di Serendippo, sir Horace Walpole coniò il fortunato termine serendipity. Associazioni, semplici libere associazioni, ma lo spirito del racconto viaggia veloce, e non lascia itinerari certi, ma qualcosa che presto si dissolve, come la scia della nave greca tracciava una rotta che presto si confondeva col mare. Questa scia era il pòros, il sentiero, la rotta, che, una volta trovata, scompariva. Così sono forse tutte le interpretazioni, certo quelle psicoanalitiche, manifestazioni di un pòros, un sentiero, una soluzione, una ricchezza e una risorsa, destinata però a scomparire appena trovata. Pòros era per gli antichi greci il padre di Eros, bendato, sempre capace di trovare la via del cuore, sempre mutevole. Ciò che non muta non ammette trasformazione, e nelle fiabe è la trasformazione a regnare sovrana nel procedere della narrazione.

8. IL PRINCIPE  SALVA IL SUO GEMELLO DALLA CREATURA CTONIA CHE STA PER UCCIDERLO

Basile
Garrone
Il principe giunge alla grotta dell'orco, e vedendo le armi del suo gemello comprende che dev'essere scomparso in quel luogo. Giunge la cerva che gli parla chiedendo anche a lui di lasciarla entrare rinunciando ai suoi animali e alle sue armi, ma il principe invece di acconsentire la fa sbranare. Poi, sentendo dei lamenti, apre la fossa e libera il suo gemello Canneloro, insieme agli altri esseri umani che l'orco aveva imprigionato per poi mangiarseli.
Quando i due gemelli fanno ritorno da Fenizia, la principessa dapprima non riesce a capire quale sia il suo sposo, lo riconosce solo quando il marito le mostra la ferita che ha sulla fronte, prima nascosta dal cappello.
Canneloro, che ha conquistato un trono in un'altra città, manda a chiamare sua madre, damigella della regina, perché partecipi alla sua buona fortuna. Fonzo, ormai re, si trattiene presso il regno di Canneloro e Fenizia per un mese, per poi tornare al suo regno.
Il figlio della serva è ferito a una gamba e compare un mostro color sabbia che potrebbe trafiggerlo. Per quanto sia alato come un pipistrello, la creatura sotterranea nel film di Garrone ricorda un ragno.
Nel frattempo la regina è andata a trovare il vecchio mago, al quale chiede come salvare suo figlio. Il mago risponde alla regina che lei ha voluto separare quel che è inseparabile, e le dice che ogni desiderio violento può essere soddisfatto solo con la violenza. La regina gli dice che lei è pronta a pagare il prezzo necessario per salvare il figlio.
Il principe scopre dove è precipitato il suo gemello e arrivando alle sue spalle lo trascina verso la luce. mentre il principe Elias cinge Jonas da dietro e lo trascina fuori. Il mostro non rinuncia a incalzarli, e il principe, ormai vicino alla luce, impugna un'arma contro il mostro e lo trafigge. Riporta il suo gemello da Fenizia e mentre se ne va senza voltarsi vediamo che il figlio della serva viene accolto con un abbraccio dalla sposa.
Si torna al mostro ucciso nel sotterraneo vicino alla luce, e vediamo che si trasforma in una figura umana: è la regina, nuda, che è morta per salvare il figlio, e insieme a lui il suo gemello.
Il principe albino torna nell'ultima scena del film, all'incoronazione della principessa della storia della pulce, che lo guarda e sorride.
Né Fonzo/Elias, né Canneloro/Jonah hanno affrontato la regina madre, che si presenta  loro come mostro sotterraneo: pipistrello-ragno in Garrone, orco in forma di cerva in Basile. La passione per la caccia, per la preda da catturare, è metafora dell'attitudine predatoria che il maschio esercita contro la femmina.
Osserviamo ora che nella fiaba di Basile la regina, dopo il primo tentativo di uccidere Canneloro, non compare più nella storia, come il re esce di scena dopo la fecondazione magica. Il tema della fiaba come del film è la possessività materna, che non lascia spazio al padre e tiene il figlio come parte della sua potenza. Nella fiaba di Basile Canneloro fugge dopo che la regina lo ha quasi ucciso, e Fonzo corre in suo aiuto appena vede che l'acqua delle fonte è torbida. Nessuno dei due affronta la regina madre, tanto potente da apparire invincibile. Dopo aver scoperto l'abbandono del figlio, la regina madre di Garrone chiede al negromante come realizzare il suo desiderio, e il negromante le risponde che un desiderio violento può essere soddisfatto con la violenza. La regina si dichiara pronta a seguire le sue indicazioni a qualunque costo, come aveva fatto per ottenere la gravidanza magica. In questa scena la regina non indossa più uno dei suoi sontuosi abiti neri o rossi e neri, ma una camicia da notte, e quando si allontana con il negromante, inquietante e allampanato, la sua camicia bianca ricorda un fantasma, che prelude alla sua morte.

Come l'orco che divora i cavalieri che si sono lasciati sedurre da lui quando prende la forma di una bellissima cerva, la regina/pipistrello rappresenta una dimensione arcaica estranea alla legge umana. Nella fiaba di Basile la cerva chiede Canneloro di legare il cavallo, i cani e la spada per farla entrare a scaldarsi, e Canneloro cade nel tranello: senza le sue armi, la sua potenza maschile, il giovane è irrimediabilmente preda dell'orco. Il principe Fonzo non cade preda dell'orco perché a differenza di Canneloro non depone le sue armi e i suoi cani, che aizza contro la cerva/orco, facendolo a pezzi. Abbiamo ricordato sopra il mito di Artemide e Atteone, che la fiaba riprende e capovolge, perché è il valente cacciatore, Fonzo, a far sbranare da una muta di cani la creatura selvaggia. L'orco divorante rappresenta un ordine primordiale lontano dalla legge e dalla città, impossibile da sconfiggere per chi rinuncia alle proprie armi e all'astuzia.
Il personaggio della regina madre nel film di Garrone ha uno spessore psicologico superiore a quello degli altri personaggi. Nelle fiabe gli attanti non hanno spessore, sono semplici, quasi schematici, come marionette: è proprio questo a conferire loro un carattere universale, illimitatamente adattabile, e sempre ricco di fascino. Nel film di Garrone tutti i personaggi mantengono questo carattere, pur con le differenze che dipendono dal diverso mezzo espressivo e dalle varianti introdotte nel film rispetto al racconto secentesco. Fa eccezione, come dicevamo, la regina madre, personaggio complesso e perfino tragico nella sua ossessione, che la porta a volere un figlio ad ogni costo come vittoria sulla morte. Nel primo incontro col negromante la regina dice che è pronta a morire pur di sentire la vita dentro di sé. Ricorre nuovamente al negromante per eliminare Jonah, per amore del quale Elias si è allontanato da lei, e la cui stessa esistenza minaccia la sua assoluta supremazia. E per questo, non essendo riuscita a trattenere accanto a sé il figlio Elias, cerca di uccidere il suo gemello magico, credendo che se lui morisse Elias amerebbe lei sola. Quando, trasformata in mostro grazie al negromante, potrebbe realizzare con la violenza il suo desiderio violento, sembra esitare per un istante, perché Jonah è fra le braccia di Elias, che lei vuole salvare. Grazie alla sua esitazione Elias uccide il mostro, ed elimina per sempre la madre.
Garrone varia la fiaba di Basile senza indebolire la tenuta della narrazione né il suo senso profondo, tranne che per un particolare. Come abbiamo ricordato sopra, Basile racconta che dopo aver lasciato il luogo delle origini, dove la regina madre lo avrebbe ucciso, Canneloro vince un torneo conquistando una principessa e divenendo erede al trono. Dopo essere caduto in balia dell'orco, e dopo essere stato salvato dal suo gemello magico, Canneloro torna con Fonzo dalla sua principessa, che dapprima non riesce a capire quale dei due sia il suo sposo. Basile ribadisce quindi la perfetta somiglianza fra i due giovani, che la principessa potrà distinguere solo dalla cicatrice della ferita inferta a Canneloro dalla regina. Figli di una regina e di una damigella, i due gemelli magici hanno come padre la coppia costituita dal re uccisore del drago marino e dal drago stesso, che ha fecondato le due donne col suo cuore. Entrambi ascendono coerentemente a un trono, separandosi, ma restando uniti nella dignità regale che corrisponde alla loro origine paterna.
Garrone invece ci racconta che Jonah ha trovato casa in un povero paese, nel quale ha sposato una donna che si chiama Fenizia, come la principessa che Canneloro sposa nella fiaba di Basile, ma che nel film è povera come la sguattera della regina. Questa differenza nel destino del figlio della serva non tiene conto della comune origine paterna dei due giovani, che dovrebbe conferire a entrambi, come racconta Basile, un destino regale.



Fra le protagoniste delle tre fiabe rinarrate da Garrone solo la regina è una madre, e a lei è dedicato uno spazio maggiore nel film. Quando vaga nel labirinto assolato e bianco di Donnafugata chiamando il figlio Elias che fugge da lei per incontrare Jonah, la sua potenza si incrina, e nonostante tutti i suoi tentativi, anche violenti, è destinata a dissolversi. Si può dire che questa figura materna è una madre talmente potente da superare la regina madre de La cerva fatata, e questa variante introdotta da Garrone potrebbe spiegare la forte differenza tra i due gemelli magici di Basile e quelli del film. Nella fiaba secentesca i due giovani sono belli e forti - di uno di loro, ad esempio, Basile dice c'aveva lassato la paura 'n cuorpo alla mamma (e-book, p. 40). Nel film invece il loro aspetto li rende poco regali: delicati, bassi di statura e per giunta albini, vale a dire privi di colore.
Oltre che un segno di fragilità, l'albinismo può valere come segno manifesto della loro parentela col drago marino, il cui colore è molto chiaro, quasi bianco. Nella scena finale dell'incoronazione il principe Elias, che dovrebbe essere asceso al suo trono, sia perché è ormai maggiorenne, sia perché la regina è morta, continua ad avere un aspetto piuttosto dimesso.
La locandina de Il Racconto dei Racconti mostra i personaggi interpretati dagli attori più famosi intorno alla regina melanconica con l'abito rosso ricamato di nero, lo stesso che indossa nel labirinto di Donnafugata. Il re cacciatore di donne belle e giovani è alla sua sinistra, e il re che ha allevato la pulce alla sua destra; in basso a sinistra si vede la vecchia ringiovanita coperta solo dai capelli preraffaelliti, al centro il drago marino riverso sulla riva e accanto a destra il re coperto dallo scafandro, immerso nelle acque dell'Alcantara fino a mezza gamba. In alto vediamo il Castel del Monte e il Castello di Roccascalegna, location delle altre due fiabe raccontate da Garrone.
Si trova però in rete un'altra locandina, forse meno adatta ad attrarre il pubblico, ma molto significativa. Lo spazio è interamente occupato da un cubo presentato di spigolo, con un labirinto bianco su ogni faccia: sulla faccia superiore vaga nel labirinto la regina piccola e sola, con lo stesso abito rosso ricamato di nero.
La versione de La cerva fatata di Garrone introduce una dimensione tragica nella regina il cui sposo si è sacrificato per permetterle di diventare madre. Questa potenza assoluta della figura materna, l'unica nel film, è per il figlio come un labirinto dal quale è difficile e doloroso evadere. E un labirinto sono le fiabe, prese nel loro insieme, sia le cinquanta storie della raccolta di Basile, al quale Garrone rende l'onore che merita, sia le tre scelte per il film. Ma la regina stessa, la madre onnipotente, è un essere umano che si perde nel labirinto delle storie, immagine insuperabile del labirinto della vita.
Le tre fiabe sono legate fra loro dalla compagnia degli acrobati, attori e giocolieri, circus performers interpretati solo da attori italiani. Gli acrobati sono i primi personaggi che si vedono nel film, quando entrano nella reggia di Selvascura, dove danno spettacolo alla corte della regina che non ride mai, mentre la seconda volta si esibiscono alla festa di nozze del re con la vecchia ringiovanita. Nella storia tratta da La pulce tutta la compagnia aiuta a fuggire la principessa prigioniera dell'orco, ma mentre la portano in salvo l'orco li raggiunge e li uccide tutti. La brutalità dell'orco, che sembra quasi incapace di parlare, non lascia spazio all'arte liberatrice. Alla fine, durante la cerimonia dell'incoronazione, la principessa volge lo sguardo verso l'alto, e insieme a lei e a tutti gli astanti vediamo un giovane acrobata mangiatore di fuoco che cammina su un filo infuocato teso fra le mura ottagonali del castello, che pare lo stesso acrobata che per salvare la principessa l'aveva portata sulle spalle camminando su un filo teso sopra all'abisso.

Con questa immagine finale dell'acrobata, al di sopra delle mura del castello, contro il cielo azzurro, Garrone potrebbe dirci che l'arte, rappresentata nel film dalla compagnia degli acrobati, attori e giocolieri,  come l'arte del racconto, che compone le fiabe ed è essa stessa favola, è forse il solo equilibrio possibile, il solo che vive oltre le mura del potere. (AG)





IngleseHänsel e Gretel
Patibolo della condanna a morte
Quadrante sud-nord-est-ovest

Carta della fiaba




La casa di marzapane è un’immagine che nessuno dimentica: com’è incredibilmente attraente e tentatrice quest’immagine, e com’ è terribile il rischio che si corre se si cede alla tentazione. Il bambino riconosce che, come Hänsel e Gretel, vorrebbe mangiarsi la casa di marzapane, senza pensare ai pericoli. La casa rappresenta l’avidità orale e l’irresistibile tentazione di cederle. La fiaba è il testo elementare dal quale il bambino impara a leggere la sua mente nel linguaggio delle immagini, il solo linguaggio che permette una comprensione prima che si raggiunga la maturità intellettuale. Il bambino ha bisogno di stare a contatto con questo linguaggio, col quale deve imparare a interagire, se si vuole che diventi signore della sua anima. (Bruno Bettelheim, traduzione nostra)

L’ingiunzione del Patibolo della condanna a morte, che dà avvio a questa famosissima fiaba, riguarda aspetti primari, e per questo implica al centro della vicenda il rischio estremo, il cui superamento da parte degli attanti protagonisti è la felice soluzione della fiaba, che in questo caso è la fine della carestia che aveva determinato la condanna a morte degli attanti filiali.
Il padre tenta di opporsi alla madre, ma cede alla sua volontà, non rappresenta quindi una legge capace di porre limiti al conflitto mortale che si gioca nell’area materna.

La teoria psicoanalitica di Melanie Klein si applica facilmente ad Hänsel e Gretel: il neonato non distingue fra sé e la madre, e oscilla fra un appagamento paradisiaco, nel benessere della sazietà, e un’angoscia mortale, quando il suo bisogno di cibo e cure non viene soddisfatto. Chi ascolta il pianto di un neonato, sente questa disperazione esorbitante, che ricorre non di rado nel bambino molto piccolo, e che nell’adulto ricompare nella disperazione dell’innamorato abbandonato e nell’angoscia di morte che caratterizza gli attacchi di panico. Incorporare la fonte del proprio benessere è secondo Melanie Klein la fantasia del neonato, che facendosene padrone si metterebbe al sicuro dall’angoscia. È come se il neonato allucinasse una madre buona, che vuole farlo vivere felice, e una madre cattiva, che vuole abbandonarlo e farlo morire. Nelle fiabe la prima figura è personificata dalle madri buone – di solito morte – e dalle fate soccorrevoli, mentre la seconda è personificata dalle matrigne crudeli e dalle streghe. Nella fiaba di Hänsel e Gretel però non c’è una buona madre o una fata alla quale fare riferimento, e in questo senso la fiaba rappresenta un conflitto primario. Forse è per questo che la condanna a morte viene decisa ed eseguita da entrambi i genitori contro i due bambini, ovvero contro l’attante maschile e l’attante femminile. Come si può sperare di crescere se non ci sono aiutanti genitoriali, né materni né paterni?

Nella prima parte della storia è l’attante filiale maschile ad essere attivo, agendo in difesa della sua vita come di quella della sorellina, quando tiene le orecchie aperte e comprendendo che i genitori hanno deciso di sopprimerli esce di notte per riempirsi le tasche di sassolini bianchi, che scintillano alla luce della luna. Grazie ai sassolini i bambini ritrovano la strada di casa, ma la seconda volta Hänsel non può mettere in atto la sua strategia perché la madre sbarra la porta. Il bambino allora sacrifica il poco pane che ha ricevuto sbriciolandolo per via. Si attarda per lasciar cadere i sassolini o le briciole, e quando viene sollecitato a procedere speditamente si giustifica dicendo che si era fermato per salutare prima il suo gattino bianco, poi il suo piccioncino. Rassicura la sorellina, ma la seconda volta si perde insieme a lei, perché gli uccellini del bosco hanno mangiato tutte le sue briciole e non c’è modo di ritrovare la via di casa.

A questo punto la fame, la stanchezza e la paura fanno sì che di fronte alla casetta di pane, focaccia e zucchero caramellato Hänsel e Gretel non possano far altro che cominciare a mangiarla. Forse ogni dipendenza ha la sua radice in un’angoscia arcaica, tale da impedire qualunque pensiero. Le persone che hanno vissuto o vivono seri disturbi alimentari che ho ascoltato in analisi riferiscono che nell’abbuffata bulimica o nel vomito che può seguirla la mente è vuota, come se non ci fosse alcun pensiero.

La casa dolce e gustosa è l’antitesi della carestia che tormenta la casa dei genitori e della fame patita vagando nel bosco, ma la piena soddisfazione che permette si ribalta rapidamente nel suo opposto, perché la vecchia strega intende mangiarsi i due bambini. La strega si fa servire da Gretel per curare la casa, funzione femminile, mentre imprigiona Hänsel per mangiarselo per primo. Al bambino, che qui rappresenta la funzione del pensiero, è impedito il movimento, e sembra che il suo destino sia di essere divorato senza scampo. Ma si racconta anche che la strega ci vedeva poco, e in effetti gli aspetti arcaici sono potentissimi, ma incapaci di trucchi. Anche il ciclope di Ulisse ha un solo occhio, e quando l’eroe del pensiero riesce ad accecarlo, la sua forza immane non impedisce la sua sconfitta; la stessa vittoria tocca alla astuta Gatta con gli stivali contro il potentissimo orco.

Anche in gabbia si può pensare, e così Hänsel, quando la strega va a tastare il suo ditino per vedere se è ingrassato, le porge un ossicino, guadagnando tempo. Il pensiero non basta, racconta questa fiaba, per superare una condanna materna se non ci sono figure genitoriali soccorrevoli. Quando la strega decide di mangiarsi Hänsel anche se è ancora magro, Gretel piange, e poi si appella al Padre che sta nei cieli, e dopo aver pregato pensa nell’immediato, e agisce contro il corpo della strega col suo stesso corpo, spingendola nel forno dove quella intendeva cuocere il pane per accompagnare il fratellino che voleva bollire in pentola.

La morte decretata dalla madre può essere evitata solo grazie a un’alleanza fra maschile e femminile, e solo se entrambe le parti non rinunciano a combattere con le loro risorse e le loro forze, per quanto la situazione appaia disperata.

Le fiabe raccontano spesso di attanti parentali crudeli e di attanti filiali innocenti, e la storia dice che sono i giovani a prevalere. Pensare che secondo le fiabe i giovani siano migliori dei vecchi è un errore che ne impedisce la comprensione, come ne impedisce la comprensione un tipo di interpretazione psicoanalitica che ne faccia la dimostrazione della propria teoria di riferimento.

Abbiamo organizzato le sessantasei fiabe di Fabulando secondo la Carta fiabesca della successione, facendo tesoro delle diverse interpretazioni psicoanalitiche, pensando però che la lunghissima catena di narratori che le ha portate fino a noi, che le sentiamo ancora così vive e vere, non pensasse né che i figli siano migliori dei genitori, né che le fiabe rappresentino il conflitto intrapsichico di un soggetto, ovvero la proiezione delle sue istanze distruttive, del suo lutto da elaborare, del suo difficile accesso nella condizione adulta. Pensiamo che i giovani vincano sempre perché la vita procede alternando la nuova generazione alla vecchia, e i giovani vincono perché entrano in un futuro dal quale i loro genitori sono esclusi, come loro sono subentrati ai loro genitori. Senza l’ingiunzione che dà avvio alla vicenda, non ci sarebbe il racconto, e anche una condanna a morte come quella che eliminerebbe Hänsel e Gretel genera una storia, e un cammino lungo il quale le risorse del soggetto, esprimendosi, possono permettergli di sopravvivere e vivere.

Oltre al pensiero e alle azioni degli attanti filiali alleati, prima di Hänsel e poi di Gretel, quando le risorse del fratello sono ingabbiate, c’è nella fiaba qualcosa che non appartiene ai genitori né alla strega, che sostiene la fiducia e la speranza dei bambini. È vero che il padre abbandona i bambini nel bosco condannandoli ad essere divorati dalle bestie feroci, ma a differenza della madre gioisce del loro ritorno dopo il primo abbandono, ed è felice di riaverli con sé alla fine, mentre la madre spietata è morta quando tornano, come la strega nel forno. La luce della luna nella versione originale dei Grimm è un simbolo maschile, perché in tedesco l’astro è di genere maschile, mentre è femminile il sole. Se poi l’astro è di genere neutro, come in inglese, o femminile, come in italiano o in francese, vale comunque come un simbolo protettivo: la luna e il sole illuminano tutti gli esseri e non c’è potere che possa impedirlo. Allo stesso modo la preghiera di Gretel al Padre che è in cielo cerca e trova soccorso in un genitore che non dipende dalle dinamiche familiari. Tornare in una casa dove i genitori vogliono eliminare i bambini non fa che rimandare l’abbandono e quel che ne consegue, se c’è una soluzione è nel viaggio che si deve intraprendere, e nel mondo, sia terra, sia cielo, dove i pericoli sono più terrificanti rispetto a quelli della casa, ma dove l’esercizio del pensiero e del desiderio di vivere trovano risposte che nel luogo dell’origine non esistevano. Dopo averle trovate si può tornare a casa con le pietre preziose che la casa della figura materna più terrificante custodiva, ma che non si potevano trovare finché non si era sciolto il conflitto con la distruttività e l’ambivalenza che possono caratterizzare la relazione primaria. (AG)





InglesePanepinto
Fortezza della solitudine
Quadrante nord-ovest
Carta della fiaba




Nella fiaba di Panepinto, o Pinto Smauto come la chiama Giambattista Basile, Betta, l'attante protagonista, è una fanciulla che non vuole sposarsi. L'ingiunzione dalla quale si genera la storia infatti è la Fortezza della solitudine. L'ingiunzione è paterna in questa fiaba, che infatti si trova nel quadrante nord-ovest, perché Betta è così profondamente legata al padre, che «negava lo commerzio d’ogn’ommo». Ma un giorno in cui il padre deve partire, gli chiede zucchero, mandorle e essenze, perle, zaffiri e rubini per impastarsi uno sposo. E quando è finito, si ricorda di Pigmalione e fa come lui. Pigmalione, racconta il mito magistralmente cantato da Ovidio nel decimo libro de Le Metamorfosi (I sec. d. C.), era il re di Cipro e non voleva sposarsi, disgustato dall’aver visto le donne della sua isola prostituirsi, rese folli da Venere che non avevano riconosciuto come dea. Ma Pigmalione era anche uno scultore sopraffino e scolpì nell’avorio una donna così bella che non ne esisteva una uguale. E guardandola, il re scultore di innamorò di lei, e l’accarezzava e la baciava, le faceva regali e le aveva riservato un posto nel suo letto, finché non rivolse le sue preghiere a Venere chiedendole di dare la vita a quella statua perché potesse essere davvero sua moglie. La dea esaudì il suo desiderio e Pigmalione poté finalmente vivere felice e contento con Galatea, la statua diventata donna e sua sposa.

L’atto di Pigmalione è un atto creativo: da un elemento già esistente, il blocco di avorio, lo scultore fa uscire una statua; similmente Michelangelo parlava della propria arte, dicendo che lo scultore libera dal marmo la figura che è come imprigionata e che, diciamo noi, solo un artista con la sua sensibilità riesce a vedere.

Non ha l’ottimo artista alcun concetto
c’un marmo solo in sé non circonscriva
col suo superchio, e solo a quello arriva
la man che ubbidisce all’intelletto.
(Michelangelo, Rima 151)

Anche l’atto di Betta è un atto creativo, ma ha caratteristiche diverse: la fanciulla mescola elementi scempi per farne un composto, che non è semplicemente l’insieme di quegli elementi, è un’altra cosa, è una pasta con una sua consistenza e una sua natura, con la quale la ragazza dà forma ad una statua. Notiamo questa diversità come connessa al fatto che il personaggio di Pigmalione è maschile e quello di Betta è femminile, come se la tradizione (e la riflessione su cosa è l’arte) ci avessero consegnato questi due modi diversi di intendere l’atto creativo attribuendoli a due diverse sfere di significato, l’una che riguarda la sfera di ciò che nella cultura si considera maschile, l’altra che attiene a ciò che si considera femminile, prima fra tutto la complessa questione del generare una nuova vita.

Le due storie narrano comunque di uno stesso tema: sia il famoso scultore, sia la nostra fanciulla si fabbricano l’immagine di qualcuno che riunisce tutto ciò che desiderano in un compagno. Si fabbricano la donna e l’uomo ideale. Da qui mito e fiaba divergono.

Ottenuta infatti la vita per il suo Panepinto, Betta lo perde immediatamente. Tutta occupata nella pretesa di avere il proprio ideale come sposo, la fanciulla non può che scontrarsi con l’imprevedibile, che appartiene all’ordine del reale: un’altra donna, «’na gran regina», si innamora di Panepinto e lui la segue senza batter ciglio. Inizia così il lungo viaggio di Betta, che è incinta, alla ricerca del suo sposo perduto. Non indossa sette paia di scarpe di ferro e sette vestiti di ferro, non ha sette mazze di ferro per sostenere il suo cammino e non ha sette fiaschette da riempire di lacrime, ma il suo percorso è analogo a quello di Ginevra, l’attante femminile della versione fiorentina della fiaba di Re Porco raccolta da Vittorio Imbriani nel 1877 (Re Porco, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole): entrambe devono ritrovare lo sposo, entrambe incontrano una o più vecchie che donano loro formule o oggetti magici dai quali escono le galanterie che consentono loro di ottenere una notte con il proprio amore che nel frattempo ha sposato un’altra regina. E in entrambe le storie il re non si accorgerebbe di nulla, avendo bevuto vino alloppiato, se non ci fosse una guardia o un ciabattino che hanno sentito una voce femminile che ogni notte piange e racconta tutta la storia; ed entrambe le fanciulle raggiungono in conclusione un finale felice.

Il motivo narrativo è evidentemente lo stesso ma, come può accadere nel mondo delle fiabe, è inserito in storie completamente diverse; basti pensare che nel Re Porco l’attante protagonista è maschile e in Panepinto, come abbiamo visto, è invece femminile. E la differenza è qualificante: quando abbiamo scelto di costruire una mappa per navigare tra le fiabe, ci siamo rese subito conto che un criterio fondamentale per orientarsi era proprio distinguere le fiabe con attante protagonista femminile da quelle con attante protagonista maschile. Nella Carta fiabesca della successione, infatti, i quadranti a ovest ospitano le prime, quelli ad est le seconde.
Senza pretendere di fornire una teoria su come sono strutturate le fiabe, possiamo dire che il modo con cui si combinano diversi motivi rende la storia proprio quella storia. Ogni fiaba ha un punto dal quale si origina la narrazione che le conferisce il suo particolare significato, il suo argomento. Così il suo rifiuto di prender marito porta Betta prima a confezionarsi uno sposo ideale e poi a dover fare un lungo cammino per ritrovarlo, in una favola tutta diversa da quella nella quale si muove Ginevra che, come dicevamo, non è nemmeno l’attante protagonista: il suo viaggio infatti è inserito nella storia di un principe, un attante maschile, che, nato in forma di porco a causa di una maledizione, ha bisogno che una fanciulla compia per lui un’impresa impossibile per poter tornare umano.

I motivi fiabeschi infatti si combinano e ricombinano, come le parole: ciascuna ha un suo significato ma a seconda del discorso nel quale le inseriamo assumono una determinata coloritura e danno a loro volta una determinata forma alle nostre argomentazioni. E serve il discorso, tutto il discorso, per esprimere appieno quello che vogliamo dire. E come una parola, così da sola, estrapolata dal suo contesto, può essere suggestiva, può ricordarci altre parole o suscitare in noi immagini e ricordi, allo stesso modo un motivo fiabesco di per sé ci può affascinare ed emozionare, può parlare a parti interne che teniamo nascoste, può mostrarci vie che non conoscevamo. Ma proprio come un discorso non può essere ridotto a un’unica parola, per quanto pregnante, così una fiaba non può stare tutta dentro a un motivo, perché una fiaba è la risultante dell’integrazione di più motivi che, insieme, costruiscono la narrazione, legandosi in un filo di senso che ci trasporta con sé in un paese lontano lontano, tanto tanto tempo fa...
Un paese nel quale frasi incomprensibili possono risultare potenti formule magiche se ricordate con l’umiltà di chi accoglie un dono anche se sul momento non capisce cosa può farne. Betta, infatti, pensa che le tre formule magiche che le dice la vecchia che ha incontrato siano parole bislacche, ma pensa anche che sono il dono che quella donna le vuol fare, e questo per lei ha un valore tale che potrà ricordarle e utilizzarle al momento opportuno, quello di estremo bisogno. Ed è proprio grazie a ciò che la fanciulla riesce a riprendersi lo sposo. Perché pronunciando quelle parole appaiono delle splendide galanterie, così si chiamavano i piccoli oggetti preziosi di raffinata fattura che rappresentavano animaletti o cose della vita quotidiana, fatte per suscitare meraviglia. E in effetti attraggono la regina usurpatrice così tanto da concedere a Betta di dormire con Panepinto. La regina, racconta la storia, non sa dare il giusto valore alle cose; al contrario della nostra fanciulla che riconosce il pregio di parole che sembrano inutili e che si rivelano potenti formule magiche, la regina si lascia abbacinare dal carrettino, dalla gabbia e dall’uccellino d’oro tempestati di pietre preziose e dai panni di seta ricamati d’oro, e possederli per lei è tanto importante da rischiare il suo sposo. E anzi, crede di non rischiare proprio niente, crede che lo stratagemma del vino alloppiato sia sufficiente e, ancora una volta, non valuta con attenzione, non pensa alla possibilità che l’azione di Betta possa avere effetto.

Ma il potere del desiderio di Betta è grande e riesce a farsi sentire da un ciabattino, un personaggio umile, ma che è colui che ripara le scarpe, che proteggono quella parte del corpo che consente di camminare e di giungere là dove il desiderio conduce. (CC)





IngleseLa Bella e la Bestia
Castello dell'amore imposto
Quadrante nord-ovest
Carta della fiaba




Tra le fiabe più amate e narrate negli ultimi cinque anni, La Bella e la Bestia occupa un particolare posto, se pensiamo al fatto che le sono stati dedicati due film (Beaslty, US, 2011 e La belle & la bête, Francia, 2014), ma anche una serie tv statunitense che nel 2015 è alla terza stagione (Beauty and the Beast, US, 2012-in produzione), una miniserie italiana in due puntate andata in onda alla fine del 2014 (La Bella e la Bestia, Italia, 2014), e una parte importante nello sviluppo narrativo della celebre e fortunata serie C’era una volta (US, 2011-in produzione). Aggiungiamo inoltre che la Disney ha annunciato che a breve uscirà un remake live action del suo celebre film di animazione.

Una storia quindi che si narra e si rinarra. Del film che uscirà, rimaniamo in curiosa attesa, in questa sede vogliamo mettere in evidenza il trattamento che della fiaba è stato fatto nei film e nelle serie tv.

Partiamo con il dire che La Bella e la Bestia, in Fabulando, appartiene all’ingiunzione del Castello dell’amore imposto. Questa attribuzione fornisce una chiave di lettura che permette di cogliere la differenza con altre fiabe, come Re Porco,o altre storie, che fiabe non sono ma che appartengono al nostro immaginario e arricchiscono il patrimonio narrativo di tutti noi. Una di queste è la famosa storia del dott. Jekyll e di Mister Hyde raccontata da Robert Stevenson nel 1886 nel suo romanzo Lo strano caso del dott. Jeckyll e del signor Hyde. Torneremo su questo strano doppio personaggio, per i momento riprendiamo la nostra fiaba.Il punto di partenza, quello dal quale si genera la narrazione, risiede nel rapporto di amore incondizionato (e ricambiato) di Bella per il padre: è per portare la rosa a lei che l’uomo rischia la propria vita ed è per salvare la sua vita che la fanciulla accetta di andare nel castello della Bestia. Questo imprime una natura peculiare alla storia: la fissazione della fanciulla all’amore per il padre la tiene legata all’ambiente di origine (alla sua infanzia) e non le consente di esplorare il mondo che vive fuori dalla casa e quindi di cercare la propria autonomia, questo ferma la sua crescita e quindi il succedersi fra le generazioni.

L’uscita di Bella dalla propria casa avviene per il motivo opposto a quello che mette le ali ai piedi alle attanti protagoniste delle fiabe in cui il padre vuole sposare la figlia, come Pelle d'asino e Le tacconelle di Maria di Legno (vedi anche: O dente d'oo e L'orsa, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). In queste, si rappresenta un amore tutto attribuito al padre che, dopo la morte della moglie, non trova nessun’altra donna altrettanto bella finché non posa gli occhi su sua figlia. La fanciulla, terribilmente spaventata, dopo aver chiesto al padre degli abiti impossibili come condizione per sposarlo, fugge di casa, e sperimenta lei la forma di bestia, nascondendosi nella pelle di un asino, diventando un’orsa, vivendo nel pollaio o nelle stalle. Quando sceglie di andarsene di casa, invece, Bella lo fa solo per difendere la vita del padre, continuando così ad alimentare il loro rapporto amoroso: tutta compresa in questo amore ideale, quello che trova all’esterno non può che essere un’orribile bestia.

Nei due film citati questo aspetto è compreso e raccontato: andando a vivere con l’essere mostruoso, Bella protegge il padre da una condanna all’ergastolo in Beastly e da morte certa in La belle et la bête. E complessivamente si tratta di due vere e proprie varianti della fiaba, come anche Belindu il mostro è una variante de La Bella e la Bestia: al di là delle aggiunte e dei cambiamenti di ambientazione, riconosciamo infatti che si tratta della stessa storia, perché ritroviamo la stessa struttura narrativa e lo stesso tipo di rapporti fra gli attanti.  Ecco, questo riconoscimento viene meno guardando la serie tv Beauty and the Beast. La protagonista femminile Catherine Chandler, infatti, è una poliziotta che ama certamente il padre, ma non né con lui che ha uno speciale privilegiato rapporto, quanto piuttosto con la madre, che ha visto morire per mano di due assassini, per motivi a lei oscuri che scoprirà grazie all’incontro con Vincent Keller, un ex soldato sottopostosi, mentre era in Afghanistan, ad un esperimento dell’esercito, a causa del quale quando si infuria diventa temporaneamente una specie di bestia feroce. Non è difficile cogliere qui la storia del dott. Jekyll che con una pozione di sua invenzione si trasforma nel suo bestiale doppio, Mister Hyde. La storia è tragica perché il lato oscuro prende il sopravvento portando il protagonista alla morte. Siamo in un terreno diverso dalla nostra fiaba. E lo siamo anche nella serie tv: Catherine non solo non incontra Vincent a causa del padre, ma non è nemmeno tenuta da lui prigioniera; Vincent non è stato maledetto da una strega, si è invece sottoposto volontariamente ad esperimenti che hanno fatto emergere la parte feroce e bestiale che, sembra dire la serie, è latente in ognuno di noi e quando viene scatenata rischia di prendere il sopravvento. Proprio come accade al dott. Jeckyll. La dimensione è disperante: Vincent sa, e lo saprà anche Catherine, che non esiste alcun rimedio, che non potrà mai umanizzarsi completamente, che nessun amore spezzerà il maleficio.

Un altro elemento che caratterizza la nostra fiaba è il modo con cui la Bestia tratta Bella: come una regina. “Desidera e comanda: tu qui sei padrona e signora” trova scritto Bella nella splendida biblioteca del castello. La creatura mostruosa quanto sollecita con la fanciulla le mette a diposizione l’intero palazzo e il suo magnifico giardino, le fa trovare ogni giorno la tavola imbandita con cibi prelibati, le regala abiti meravigliosi, le concede di andare a trovare il padre, correndo il rischio che Bella non torni e non possa mai più spezzare la maledizione. E così il ragazzo, che in Beastly è stato trasformato in un essere segnato sulla pelle da nervature, cicatrici, tatuaggi che sfregiano il suo corpo e il suo volto, costruisce una serra per Lindy che ama le rose, impara a conoscere la poesia perché lei la ama, le scrive una lunghissima e romantica lettera, le scosta delicatamente i capelli dal viso quando lei si appoggia su di lui, stanca di avventure. E dopo i primi momenti di paura, la ragazza capisce di non avere niente da temere dalla creatura che la tiene nella sua casa e, proprio come Bella, comincia ad apprezzarne l’animo gentile. Appunto, la Bestia ha un animo gentile ed è grazie a ciò che la fanciulla può innamorarsi di lui.

Nella miniserie italiana La bella e la bestia, invece, Leon Dalville è un principe che a causa della morte violenta della moglie si è trasfigurato non tanto nel corpo, quanto nell’animo. Porta una maschera sul volto per nascondere una cicatrice, che lo rende simile alle immagini del Fantasma dell’Opera e inquietante agli occhi di Belle Dubois e dello spettatore. Ma non è questo che lo qualifica come “bestia”, quanto piuttosto il suo comportamento sadico nei confronti di tutti. Il cinico principe Leon non rispetta nessuno, gioca con la vita degli altri solo per divertimento, per esercitare il suo potere. Il motivo per cui vuole Belle con sé, infatti, non è per spezzare una maledizione, quanto per avere un pegno, finché il Capitano Dubois non avrà saldato il suo debito, contratto con il naufragio della sua nave. E a palazzo Belle fa la serva, costretta a lavare e pulire, e a subire oltre tutto le angarie del principe. Per come è congeniata la narrazione, siamo, ancora una volta, in un terreno diverso dalla nostra fiaba. Lo sviluppo narrativo, infatti, ci porta dentro un’altra storia che, per certi versi, ricorda quella di Mr. Rochester, il protagonista maschile del romanzo Jane Eyre (Charlotte Brönte, 1847), che ha un carattere simile a quello del principe Leon e un simile destino. Se volessimo dire a quale bestia delle tante che popolano il mondo delle fiabe somiglia il principe Leon, penseremmo più propriamente al Re Porco, che trafigge le prime spose con le zanne. Il Re Porco, che vive in forma di animale per una maledizione come la Bestia, non ha un animo gentile: si rotola nel fango e sporca tutto quello che tocca, e aggredisce, uccidendole, le fanciulle dalle quali non si sente accolto, al contrario della Bestia, che invece se ne va triste nella sua stanza ad ogni rifiuto di Bella.

Nelle due fiabe si rappresentano quindi due tipi di maschile diversi; per entrambi, raccontano queste storie, l’incontro con un femminile accogliente è determinante, e per entrambi è possibile una strada che porta all’umanizzazione, ma è una strada diversa.

Re Porco, infatti, ha bisogno di essere amato prima di tutto nella sua bestialità: Rosabianca lo fa sdraiare sporco com’è sulla sua bellissima veste che ha disteso per lui, lo fa entrare pieno di fango e di letame sotto le coperte e lo tratta con tenerezza. Solo dopo un certo tempo il Re Porco rivela alla moglie di essere un bellissimo giovane e solo quando Rosabianca partorisce, quando cioè arriva il suo successore, può rivelarlo a tutti.

La Bestia, invece, non pretende di essere amato nella propria bestialità, al contrario si dà da fare per mostrarsi degno di essere apprezzato: la Bestia infatti corteggia Bella. E la fanciulla con l'andar del tempo riesce a vedere quello che la creatura repellente ha nel cuore, riesce a vedere la bellezza là dove sembrerebbe esserci solo una orribile disperante bruttezza. (CC)

Di questa fiaba esiste anche l'e-kamishibai, accessibile dalla carta della fiaba.





IngleseBelindu il mostro
Castello dell'amore imposto
Quadrante nord-ovest
Carta della fiaba







In questa fiaba, nella poetica versione catalana di Alghero, vive una delle Bestie più tenere del mondo delle fiabe. Maria, l'attante protagonista femminile, raccoglie fiori per farne mazzolini da vendere, per aiutare così il suo povero padre, già ricco mercante, ora ridotto in miseria. Maria perde la strada di casa e trova riparo in un castello deserto, dove però vive Belindu lu mostru, Belindu il mostro. Accolta come una regina, Maria però non può lasciare il palazzo, e sa cosa accade nella sua famiglia solo attraverso un diamante che le ha regalato Belindu. Quando vede i suoi genitori malati, supplica Belindu di lasciarla andare a far loro visita, ma Belindu non vorrebbe, perché è certo che non tornerà: "Si tu vas, no i vens mes.", "Se tu vai, non tornerai".
Lei promette e la prima volta torna nel tempo stabilito, mentre la seconda tarda e trova sbarrata la porta del castello. Grida e chiama, e il portone si apre, ma Belindu non c'è. Lei lo cerca e lo chiama, e a un certo punto gli promette che se tornerà lei sarà pronta a sposarlo. Così finisce l'incantesimo che aveva condannato un principe ereditario a una forma mostruosa, e il bellissimo principe sposa felicemente la sua liberatrice.

La fiaba si trova nel quadrante nord-ovest, perché la storia prende avvio dal bisogno in cui si trova il padre di Maria, che per aiutarlo va a cercare fiori, e andando a cercare fiori si perde ed entra nel Castello dell'amore imposto, il castello di Belindu il mostro. L'attante protagonista femminile è costretta, per soccorrere il padre, a vivere con un mostro, anche se il mostro si comporta teneramente e la tratta come una vera regina. In altre fiabe lo sposo imposto, non scelto, può essere invisibile, e proibire alla sua sposa di vederlo. Questo è il motivo centrale della fabella che Apuleio pone al centro del suo romanzo Asinus Aureus: Amor et Psyche; la fiaba latina può essere considerata come il prototipo di questo tipo di fiabe, popolari in tutta Europa. Nella nostra raccolta La Bella e la Bestia e Il principe Ranocchio hanno la stessa ingiunzione, il Castello dell'amore imposto. (AG)



IngleseIl Principe Ranocchio
Castello dell'amore imposto
Quadrante nord-ovest
Carta della fiaba


Il Principe Ranocchio apre la prima edizione della raccolta Fiabe del focolare dei Fratelli Grimm, questo significa che è la prima fiaba di una raccolta che ne comprende oltre duecento. La raccolta fu ripubblicata molte volte dai due studiosi tedeschi e nel corso del tempo la storia, pur rimanendo sempre al primo posto, subì delle modifiche. Nell’e-book della storia della fiaba si possono trovare semplici indicazioni del significato di queste modifiche e altre curiosità.
La favola appartiene al Quadrante nord-est in quanto l’attante protagonista è la principessa, che il padre ama moltissimo. È lui infatti che le regala la palla d’oro, per ritrovare la quale la fanciulla promette al ranocchio una ricompensa. La fiaba narra di un rapporto così stretto fra padre e figlia che la fanciulla mantiene la sua promessa solo perché il padre glielo impone. L’ingiunzione della favola, infatti, è il Castello dell’amore imposto.

Nel 2009 è uscito un film di animazione dal titolo La principessa e il ranocchio (US, 2009) basato proprio su questa favola. Ambientato nella New Orleans degli anni ’20, il film narra di Tiana, una fanciulla che, condividendo il sogno del padre di aprire un ristorante in proprio, dopo la sua morte cerca di realizzarlo con immani sacrifici. La famiglia di Tiana non è una famiglia regale e questo dettaglio è il cuore dell’intera narrazione: alla festa nella quale deve incontrare un potenziale finanziatore del suo progetto Tiana finisce per indossare un abito da principessa che le ha prestato la sua amica del cuore. A quella festa capita anche il principe trasformato in ranocchio da un maleficio e, vedendola così vestita, le chiede di baciarlo. Ma Tiana non è una principessa e non solo non ritrasforma il ranocchio in principe, ma diventa una ranocchia lei stessa. Inizia così l’avventura dei due animaletti alla ricerca di un modo per umanizzarsi, un’avventura durante la quale i due cresceranno l’uno grazie all’aiuto dell’altra e si innamoreranno. Questa reciprocità, che nelle fiabe popolari è spesso implicita, nelle narrazioni fiabesche contemporanee è potenziata fino a diventare il cuore della storia. Facciamo solo pochi esempi: fra i film di animazione Rapunzel (US, 2009) e Frozen (US, 2013), fra le serie tv La Bella e la Bestia (2012-in produzione) e C’era una volta (US, 2011-in produzione), fra i film live action Cenerentola (US, 2015), Il cacciatore di giganti (US, 2013) e Biancaneve e il cacciatore (US, 2012).

In queste storie si sottolinea come è nell’incontro fra pari che si può trovare una via per affrontare le proprie ingiunzioni, per crescere, trasformarsi, diventare adulti. Certo non basta incontrarsi, bisogna portare nell’incontro la disponibilità ad ascoltare l’altro, a riconoscerne il valore, a sperimentare nuove prospettive. Ci si libera dalla propria maledizione o dalla propria costrizione aiutando colui o colei che si incontra a liberarsi dalla sua. Il «liberarsi liberando», che Calvino scorgeva nelle fiabe popolari (Introduzione alle Fiabe italiane, 1956) e che nelle fiabe che si raccontano oggi al cinema e in tv rappresenta una caratteristica così importante, ne La principessa e il ranocchio è il perno della narrazione, reso ancora più esplicito dalle parole di Mama Odie, la simpatica strega voo-doo che spiega ai due ranocchietti che potranno tornare umani insieme. E infatti dopo molte prove i due si trovano finalmente davanti alla possibilità di trasformarsi. Ma perché ciò accada il ranocchio deve ricevere il bacio di una principessa e lui non vuole essere baciato da un’altra che non sia la sua ranocchietta che, d’altra parte preferisce restare animale con il suo amore che tornare umana e perderlo. E così i due scelgono di restare ranocchi pur di restare insieme e grazie a questo, imprevedibilmente, ottengono il loro lieto fine. (CC)

Di questa fiaba esistono anche la storia della fiaba (Il Ranocchio racconta la sua storia), l'animazione, l'e-kamishibai, accessibili dalla carta della fiaba.





IngleseIl Re d'Arcolaio
Castello dell'amore imposto
   Quadrante nord-ovest

Map of the Tale



« Re d’Anìmmulu sapissi
Chi si’ figghiu di so figghiu,
’Ntra fasci d’oru si’ ’fasciatu,
’Ntra nachi d’oru si’ annacatu,
Tutta notti staria cu tia;
Dormi, dormi, o vita mia! »

Se sapesse il Re d’Arcolaio
Che sei il figlio di suo figlio,
Saresti fasciato con fasce d'oro,
Saresti cullato in una culla d’oro,
E di notte non andrei via,
Dormi, dormi, vita mia!


(Il Re d'Arcolaio, e-book, pp. 28-29)

Siamo entrati in un pollaio, che però si è trasformato in una stanza bella come un paradiso, quando sono arrivate le fate portando con sé il principe che tengono prigioniero. Poco tempo prima la sua sposa segreta ha bussato alla porta del Re d'Arcolaio, chiedendo per carità un riparo. Concedendole il capanno delle galline, la regina non sapeva chi fosse, né che stava per dare alla luce il figlio del suo unico figlio, rapito e mai più ritrovato.
Né Nunzia, la mendicante, risponde alle domande di lei:

« Di cui siti figghia? » E idda cci dicia: « Ah! si sapissi quant’haju passatu!... » e ’un cci dicia àutru.
« Di chi siete figlia? » E lei le diceva: « Ah! se sapeste quante ne ho passate... » e non le diceva più nulla.

(Il Re d'Arcolaio, e-book, pp. 24-27)

La regina non conosce il segreto di Nunzia, che non glielo svela.
Questa fiaba siciliana ha la sua chiave di comprensione nel suo titolo: Anìmmulu in siciliano significa Arcolaio. Si racconta quindi di un re che deve il suo nome a uno strumento legato alla filatura, l'attività femminile con la quale le Moire nella mitologia greca, Parche per i latini, Norne per i germanici, decidono vita e morte di tutti gli esseri umani. Il Re al quale è intitolata la fiaba entrerà in scena solo attraverso l'editto che emanerà alla fine, per rompere l'incantesimo che costringe suo figlio a restare prigioniero delle fate.

Lu Re figi jittari un bannu: Chi né campani, né roggiu avia da sunari, e li gaddi s’avianu a’mmazzari.
Il Re fece gettare un bando: Né orologi né campane dovevano suonare, e i galli si dovevano ammazzare.

(Il Re d'Arcolaio, e-book, pp. 40-43)

Il Re d'Arcolaio agisce solo quando la regina gli svela come suo figlio può tornare dal mondo delle fate, avendolo saputo da Nunzia, che lo ha chiesto al principe, che lo sa dalle fate stesse. Questo re comprende il femminile, al quale non tenta di imporre la sua legge, come invece fanno i re della Bella Addormentata, di Rosaspina, di Italia, che cercano di annullare l'infausto destino delle loro figlie bandendo tutte le attività di filatura dal loro reame. Stiamo parlando di una fiaba piena di segreti, nella quale solo un personaggio, la sorella dell'attante protagonista, ne viola uno senza saperne la ragione e senza preoccuparsi delle conseguenze.
Abbiamo inserito fra le ultime Il Re d'Arcolaio perché mancava alla nostra raccolta una delle fiabe che hanno il loro vertice poetico e narrativo nella ninna nanna struggente, come quella  che abbiamo citato all'inizio di questa nota.
Si comincia con una miseria nera, con un padre ciabattino umiliato dalla moglie perché non riesce a portare a casa neanche di che sfamare lei e le loro tre figlie. Insieme alla figlia più piccola, l'uomo va a cercare erbe selvatiche per fare almeno una minestra, e quando Nunzia, così si chiama la giovane, trova un finocchio tanto grande che non riesce a sbarbarlo, va ad aiutarla. Insieme tirano fuori l'enorme erba, sotto alla quale scoprono una botola, dalla quale si affaccia il nostro principe, la cui identità però rimarrà segreta fino alla nascita del bambino, che offre al ciabattino quanto basta a renderlo ricco in cambio di Nunzia. Dopo qualche esitazione l'uomo accetta, e Nunzia dalla botola scende in un magnifico palazzo sotterraneo, che pare un paradiso, come il pollaio che abbiamo visto all'inizio di questa nota, quando arrivano le fate. Là vive con il giovane, ma piange ogni giorno pensando a suo padre. La fiaba prende avvio da una relazione amorosa fra un padre e una figlia, che salva il genitore e la sua famiglia dalla miseria o da una minaccia motale, sacrificandosi volontariamente per salvarlo ne La Bella e la Bestia, o essendo ceduta al giovane incantato dal padre stesso, nel Re d'Arcolaio. L'avvio della fiaba corrisponde quindi a una relazione padre/figlia che nella nostra mappa è l'ingiunzione del Castello dell'amore imposto, con un'attante femminile che si separa violentemente dal padre. Ma in nessuna delle fiabe di questo tipo abbiamo trovato una seconda figura paterna come il Re d'Arcolaio, che si contrappone al padre dell'inizio non solo per la sua condizione regale, ma anche per l'attitudine, che lo caratterizza fin dal nome, a tener conto della sfera del femminile, col quale entra in rapporto emanando il suo editto, dopo aver conosciuto le sue regole, diverse dal mondo maschile come il giorno dalla notte.
C'è un'altra differenza fra il protagonista di questa fiaba e l'attante maschile principale delle fiabe del tipo Bella e la Bestia, tutte in varia misura discendenti dalla aniles fabella di Apuleio, Amore e Psiche
(vedi Amor et Psyche, Fabella, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Il principe di questa fiaba è prigioniero delle fate, e sono loro a ordinargli di mandare via la sua sposa segreta quando la sorella di lei - e non Nunzia, che si è addormentata - viola il divieto di aprire la stanza proibita. 

« Nn’hài a mannari a tò mugghieri ora ora ora. » Iddu si misi a chianciri; dici: « Pirchì? » - « Nni l’hà’ a mannari ora ora, a ordini nostru, nni l’hà’ a mannari! » Mischina, idda, nni vulistivu comu iddu cci jiu a diri, dici: - « Ti nn’hai a jiri ora ora ora, vasinnò sugnu persu? »_Idda si misi a chianciri miremma, e iddu cci dissi: « Te’ stu ghiòmmaru griciu, l’attacchi a lu chiaccu di lu purteddu, e unni finisci ss’agghiòmmaru ti teni      tu.»
- Manda via tua moglie, ora, ora, ora! - Il giovane scoppiò a piangere, e diceva: - Perché devo farlo, perché? - Devi mandarla via e basta, è un ordine. Mandala via ora, ora, ora! - E Nunziatella, poverina, si sentì morire quando lui le disse che se ne doveva andare, ma dovette farlo, perché lui le disse: - Ora, ora ora devi andartene, o io sono perduto. - Si mise a piangere insieme a lui, che salutandola le diede un gomitolo grigio, con queste parole: - Tieni questo gomitolo, e quando esci legane un capo all’anello della botola, poi vai dove rotolerà, e fermati dove finirà.

(Il Re d'Arcolaio, e-book, pp. 20-21)

Il motivo del gomitolo che indica la strada figura anche in una fiaba russa Il principe Ivan e Campestre Bianco: “To’, prendi questo gomitolino, e gettalo avanti a te; dove il gomitolo rotolerà, tu guida il cavallo” (Alexandr N. Afanasjev p. 208), ed è uno tra i più poetici dei tanti metodi per procedere verso la meta ignota, che è quel che devono compiere gli attanti protagonisti delle fiabe. Dopo un certo tempo, indeterminato come tutti i tempi di trasformazione, nelle fiabe come nella vita, Nunzia si ferma alla fine del filo, e, come già sappiamo, si trova proprio di fronte al palazzo del Re d'Arcolaio. Dove la regina che le concede il pollaio come riparo è un'aiutante, che si mette in ascolto quando dal pollaio provengono suoni, canti, e una luce dorata, per poi convincere Nunzia a rivelarle di chi è figlia, chi è il suo sposo e il padre del bellissimo bambino che ha appena dato alla luce, e ottenendo che chieda come è possibile sciogliere l'incantesimo e liberare il principe d'Arcolaio. Ma è una figura materna positiva anche prima di sapere che nel suo pollaio ospita colei che può farle riavere il figlio:

La Riggina, dda signura, cci misi ’nn’affezioni a sta picciotta, chi ogni matina cci mannava lu cafè, e cci dicia: - « Di cui siti figghia? »

Quella regina si affezionò alla povera forestiera, le mandava il caffè tutte le mattine, andava a farle visita, e le chiedeva:
- Chi siete? Di chi siete figlia? Da dove venite?


(Il Re d'Arcolaio, e-book, pp. 24-25)

E dopo la visita notturna delle fate che ballando cantando trasformano in un paradiso la casa delle galline, mentre il principe canta la ninna nanna cullando il bambino:

[L]a Riggina scinnia idda stissa appena agghiurnau, e cci purtau lu cafè. - « Ora vuliti diri cu’ cc’era assira ccà? » Dici: - « Eh! Nun cci lu pozzu diri; ma chi cci hè diri? Si sapissi cu cci veni? » Dici: - « E cu’ è? vogghia essiri mè figghiu? » E tantu fici, tanto nun fici ’nfina chi idda cci cuntau lu fattu. Quella mattina scese di persona a portare il caffè alla forestiera, e le chiese: - Ora mi volete dire chi c’era stanotte con voi? - Nunziatella rispose: - O regina! Non ve lo potrei dire… come posso fare? Ma se sapeste chi è venuto… - La regina disse: - Chi è venuto? Ah, se fosse stato mio figlio! - E la pregò tanto che finalmente Nunziatella glielo disse.

(Il Re d'Arcolaio, e-book, pp. 34-35)

La seconda notte Nunzia si fa dire dal principe come si può sciogliere l'incantesimo, e il bando dei Re d'Arcolaio merita una particolare attenzione: è necessario nascondere il giorno, e per questo si devono fermare tutte le campane e tutti gli orologi, e tirare il collo a tutti i galli. Il gallo annuncia il giorno, e simbolizza la luce che vince le tenebre. Per questo le banderuole sul tetto hanno forma di gallo, per proteggere dall'oscurità la casa e i suoi abitanti, perché la luce vinca le tenebre, ma alternandosi con lei, come il sole si alterna con luna.
Oltre all'editto del re d'Arcolaio, è necessario un lavoro femminile, nel quale torna il motivo del ricamo, perché è necessario preparare un telo del colore della notte, ricamato con la luna e le stelle, che sarà posto alla finestra del pollaio perché nasconda l'arrivo del nuovo giorno. L'arte femminile dà vita e morte, decise dalle tre dee inflessibili, le Parche, e in questa fiaba l'arte del ricamo serve, insieme all'editto del re, a sciogliere l'incantesimo. Ma anche queste fate sono dedite all'arte femminile: nella stanza segreta, violata dalla sorella di Nunzia durante la sua unica visita alla sorella minore nel palazzo sotterraneo, le fate stanno preparando il corredo per il bambino che sta per nascere, e quando la loro porta viene aperta si trasformano in bisce e lucertole e si dileguano.
La terza notte nella quale il principe d'Arcolaio viene a cullare e a cantare la ninna nanna al suo bambino, le fate, come le altre volte, guardano spesso verso la finestra per capire se il giorno stia per venire:

Gaddi nu nni cantanu,
Roggiu nu nni sona;
Nun è ura, nun è ura!

I galli non cantano ancora
L’orologio non suona ancora;
non è ancora ora, non è ancora ora!

(Il Re d'Arcolaio, e-book, pp. 30-31)

Seguendo le indicazioni del principe, quando il sole è allo zenit il telo viene tolto e la luce sorprende le fate, che trasformandosi in bisce e lucertole spariscono per sempre. L'orizzonte della fiaba, umano all'inizio, con la miseria della famiglia del ciabattino, torna umano alla fine, come deve essere in tutte le fiabe. Il lieto fine implica la rinuncia alla magia, ma non si può ottenere se si è incapaci di comprendere il valore dei gomitoli che portano dove si deve andare e delle botole che stanno sotto le barbe di un finocchio gigante. Oggetti della vita quotidiana, come le noci e le nocciole, come le lampade e le scarpette, assumono nelle fiabe virtù che trascendono in misura illimitata il loro valore quotidiano. Il tempo del sogno è necessario, se è circoscritto dal tempo della realtà. Ma dopo aver ascoltato questa fiaba, se passeggiando per un campo o un bosco si vede guizzare una lucertola o una biscia, si può sorridere pensando che potrebbe trattarsi di una delle fate dispotiche, cantanti e ricamatrici che la luce ha sorpreso annullando la loro bellezza. (AG)






IngleseLe tacconelle di Maria di Legno
Castello dell'amore imposto
  
Quadrante nord-ovest
Map of the Tale



Questa fiaba è una versione popolare molisana di Pelle d’Asino, la cui protagonista, dopo essere fuggita dal padre, trova asilo al palazzo reale dove si prende cura dei polli e vive con loro, fra il «sudicio», le «cacchine» e i «pidocchi» del pollaio. E sperimenta così non solo la condizione dello sporco, ma anche l’iniziale disprezzo  del principe che ogni giorno, dopo averle detto che la sera andrà al ballo, la respinge, scagliandole addosso l’oggetto che ha in mano. Dopo tre volte anche Maria va al ballo, ripulita e rivestita, tanto che nessuno la riconosce, neanche il principe affascinato dalla sua bellezza. Dopo il terzo ballo, non sapendo dove trovarla, il principe si ammala d’amore. Ma quando intuisce che la sua bella potrebbe essere la sporca abitante del pollaio, manda la regina madre da Maria a chiederle di cucinare per lui le tacconelle. Grazie alla media-zione di questa aiutante materna, presente in tutte le versioni di Pelle d’Asino, può avvenire l’incontro: la madre si fa portavoce del desiderio del figlio, accettando che la fanciulla si prenda cura di lui e lo nutra. Lo fa quando si tratta di un’orsa che potrebbe staccargli il naso, della sporca guardiana del pollaio, o di una creatura avvolta dalla disgustosa pelle di un asino. (CC)





InglesePelle d'asino
Castello dell'amore imposto
Q
uadrante nord-ovest
Map of the Tale



Pelle d'Asino di Charles Perrault è la più famosa versione di questo tipo di fiaba, molto diffusa in tutta Europa. La sua più antica sorella fiabesca è Doralice, scritta da  Giovan Francesco Straparola. Giambattista Basile rinarrò la fiaba, intitolata L'Orsa, e da questa versione in poi tutte le Pelle d'Asino avranno le stesse caratteristiche.
Disperata perché il padre la vuole sposare, la principessa, futura Pelle d'Asino, si rivolge alla sua fata madrina che le consiglia di porgli alcune condizioni: prima dovrà procurarle un vestito color dell’aria, poi uno color del sole e infine dovrà uccidere l’asino che vive nelle stalle reali ed evacua zecchini d’oro per darne la pelle alla figlia. Visto che il padre riesce a soddisfare tutte le sue richieste, non le resta che fuggire occultando la sua bellezza sotto la pelle dell’animale, tanto disgustosa quanto sono meravigliosi i due vestiti. Se questi ultimi rappresentano il riconoscimento del padre per la sua ideale bellezza femminile, la pelle d’asino, e la condizione servile nella quale si trova presso una reggia straniera, le fanno vivere l’opposto dell’ideale. Repellente per tutti, ritrova la sua bellezza da sola, indossando uno degli abiti meravigliosi, che l’hanno accompagnata in uno scrigno sottoterra. A questo punto può far innamorare il principe che, l'ha vista dal buco della serratura. Malato d'amore perché non riesce a incontrarla, guarirà solo quando si rivolgerà alla repellente serva coperta dalla pelle animale. Per ottenere il lieto fine occorrerà, come nelle altre versioni - vedi anche Le tacconelle di Maria di Legna - una mediazione della madre, che per amore del figlio che gliel'ha chiesto va nel pollaio a chiedere alla serva di cucinare un dolce per il reale malato.





IngleseDoralice
Castello dell'amore imposto
Q
uadrante nord-ovest
Map of the Tale



La fiaba di Doralice anticipa molti dei motivi di Pelle d’Asino. La storia parte dall’amore del padre e per il padre, dal quale è tanto difficile quanto necessario separarsi. Il principe di Salerno promette alla moglie morente che sposerà solo la donna alla quale stia bene il suo anello, e siccome va bene solo a sua figlia Doralice, vuole sposarla. La principessa, su suggerimento della nutrice, si nasconde in un armadio, che però viene venduto a un mercante che lo porta in Inghilterra., dove lo compra il re per la sua camera. Quando scopre Doralice, che usciva solo quando non c’era nessuno, per curare amorevolmente la stanza del re, la sposa, e presto nascono due bambini. Ma il padre di Doralice viene a saperlo, e si insinua nel palazzo travestito da mercante, offrendo fusi e rocche d’oro. In cambio ottiene dalla figlia di trascorrere una notte con i suoi bambini., che uccide, facendone ricadere la colpa su Doralice. Condannata a morte, lei viene salvata dalla sua nutrice, che racconta tutta la storia. Questa è la sola protagonista femminile in Fabulando a non agire mai autonomamente per difendere se stessa o i bambini, che sono i soli a non tornare felicemente in vita dopo essere stati sacrificati.

Il titolo del crudele padre protagonista potrebbe echeggiare il principe di Salerno della prima novella della quarta giornata del Decameron. Il nobile signore vedovo, desiderando tenere presso di sé la figlia Ghismonda, già vedova a sua volta, avendo scoperto che ha una relazione segreta con Guiscardo, un suo valletto, lo fa uccidere e le offre una coppa che contiene il cuore di lui. Ghismonda, come aveva già annunciato al padre tentando di evitare l'uccisione del suo amato, sottolinenadone la nobiltà d'animo, vi versa un veleno, e bevuto il contenuto della coppa, muore. Il padre giunge al suo capezzale quando sta per spirare, ed esaudisce il suo ultimo desiderio, di essere sepolta insieme all'amato.

Altra notazione. Doralice viene accusata di aver ucciso i suoi bambini come in alcune versioni della novella di Griselda: in ogni caso è lei responsabile della loro morte, perché le sue origini non sono nobili, quindi non potendo essere eredi del Marchese di Saluzzo devono essere eliminati. Non dimenticherei che Giovanni Boccaccio, come Leonardo da Vinci, non era nato da nozze legittime. (AG)
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IngleseL'Orsa,
Castello dell'amore imposto
Q
uadrante nord-ovest
Map of the Tale



In questa fiaba, probabile fonte di Charles Perrault che ne scrisse la versione più famosa, Pelle d'Asino, un re padre pretende di sposare la figlia a causa della promessa che ha fatto alla moglie morente, di risposarsi solo con una donna bella quanto lei. E lei sola, Preziosa, la futura Orsa, è all’altezza della madre. Come in uno specchio la madre e la figlia si riflettono una nell’altra, annullando la distanza fra le generazioni. Se il re riuscisse a sposare la figlia, diventerebbe padre e marito della stessa donna e cristallizzerebbe se stesso e la sua discendenza. Ma la giovane attante si sottrae a questa presa mortifera e occulta la sua bellezza trasformandosi in un’orsa, terrorizzando il padre e fuggendo in un bosco. Un re cacciatore la trova e se la porta nel giardino reale, dove Preziosa, credendosi non vista, si toglie di bocca lo steccolino magico che la fa diventare orsa per pettinare i suoi biondi capelli. Il re la vede, ma lei si ritrasforma in orsa, e lui si ammala d’amore. Senza pensare che potrebbe staccargli il naso, fa venire l’orsa al suo capezzale e lui le chiede un bacio. L'orsa acconsente solo quando la regina madre la incita a baciarlo, altrimenti morirà d'amore, anche se teme ancorache gli stacchi il naso. Col bacio il principe sitrova in bocca lo steccolino magico che le permetteva di cambiare forma, e così, stringendo la sua amata, le dice che ormai non le permetterà più di sfuggirgli per rifugiarsi in quel carcere peloso. Il principe così guarisce del suo male, liberando la principessa Preziosa dalla forma orsina che ha dovuto assumere. Analogamente, Preziosa si libera dal suo carcere peloso, guarendo il principe dal suo male d'amore. (AG)





IngleseLa Penta mano-mozza
Bosco dell'esilio
Q
uadrante nord-ovest
Map of the Tale





Questa fiaba comincia con un motivo d'incesto, e si trova nel Quadrante nord-ovest, ma fa eccezione rispetto alle fiabe del tipo Pelle d'asino, che dipendono dall'ingiunzione del Castello dell'amore imposto. Mentre le attanti protagoniste di questo tipo fuggono da un padre che pretende di sposarle, Penta viene scacciata dal re suo fratello, come Occhi-Marci, viene scacciata dal padre: la loro ingiunzione è quindi Il bosco dell'esilio. Abbiamo ponderato le ragioni che ci avrebbero fatto privilegiare il motivo dell'incesto rispetto all'allontanamento subito dalla protagonista, visto che questo allontanamento dipende da una pretesa incestuosa, che si esprime come richiesta di amore assoluto in Occhi-Marci, e come pretesa di nozze fra fratelli in Penta mano-mozza. Si tratta in ogni caso, da parte dell'attante protagonista, di rifiutare il compimento dell'incesto. Non è solo una sfumatura però ad averci fatto scegliere una diversa ingiunzione, ma qualcosa di diverso nell'andamento delle due fiabe rispetto a quelle del tipo Pelle d'Asino. In questa fiaba e in Occhi-Marci mancano alcuni motivi presenti nelle. Il primo è il segno d'identità con la madre, che la regina madre morendo pone come condizione al re perché passi a nuove nozze. La madre qui, come in Occhi-Marci, non viene neppure nominata, e nel caso di Penta, neppure del padre si sa nulla. In Pelle d'Asino e in tante fiabe dello stesso tipo, la figlia, seguendo il suggerimento di un'aiutante femminile, chiede al padre alcune prove d'amore, che reputa irrealizzabili, come farle un vestito color del sole o uccidere l'asino che evacua monete d'oro per dare alla figlia la sua pelle.
Un altro motivo che separa queste due fiabe da quelle che si trovano nel Castello dell'amore imposto è nel finale: il padre di Occhi-Marci che aveva l'aveva scacciata perché non lo amava come lui pretendeva di essere amato, e il fratello di Penta, che essendosi innamorato di lei pretendeva di sposarla, alla fine riconoscono il loro errore. I re incestuosi delle fiabe del tipo Pelle d'asino sono presenti all'inizio, e poi spariscono, come se queste fiabe non potessero includere una trasformazione del re che pretende di stabilire la misura dell'amore della figlia o del re che voleva sposare la sorella.
Inoltre entrambe le fiabe presentano un motivo violento, che le rende poco adatte ai libri per bambini: la pelle della vecchia morta a cent'anni, che viene staccata dal cadavere, conciata e cucita sul cambrì perché la quindicenne principessa fuggitiva possa diventare Occhi-Marci, e il taglio delle mani di Penta, che si amputa da sola.
Con la mediazione di qualche storia tedesca vicina al loro tempo, i Fratelli Grimm - che, come sappiamo, erano fini conoscitori dell'opera di Basile, hanno raccontato la storia di una fanciulla senza mani (Das Mädchen ohne Hände [La fanciulla senza mani/The Girl without Hands, versione del 1812 [in lingua inglese], prima edizione, e versione del 1857 [versione in lingua inglese]7  Non avendo trovato una versione italiana della prima edizione della fiaba, segnaliamo quella dall'edizione del 1857, Per la versione italiana ).
Non c'è traccia né dell'incesto, né dell'amputazione volontaria. Un'analogia può essere rintracciata fra il sacrificio della figlia, che si lascia secondo i Grimm amputare le mani dal padre per salvarlo dal diavolo, e il sacrificio della protagonista de La Bella e la Bestia, che si consegna al mostro egualmente per salvare suo padre. Nella favola dei Grimm, soprattutto nella versione del 1857, viene introdotto il motivo della eccezionale innocenza e purezza della protagonista, che infatti viene soccorsa dagli angeli, come i santi e le sante eremiti del deserto nell'agiografia cristiana. Analogamente il diavolo in persona introduce il male, liberando gli attanti umani da azioni così crudeli e pericolose come quelle del padre che non esita a scacciare la figlia e del fratello che getta la sorella in mare, dentro una piccola botte.
Non ci addentreremo nell'analisi della fiaba dei Grimm, che eufemizzarono le loro fiabe nelle edizioni successive alla prima, lasciando a chi legge questa nota di considerarle attentamente con i

Il tema del potere maschile sulla discendente femminile si aggiunge qui come in Occhi-Marci a una pretesa d'amore, letteralmente o simbolicamente incestuoso. Abbiamo analizzato Occhi-Marci comparandola con la leggenda medievale bretone di Re Leir e alla tragedia Re Lear di Shakespeare, qui osserviamo un'analogia fra l'abbandono alle acque di Penta e quello di Danae nel mito greco. Senza addentrarci nel mito di Acrisio, che, destinato ad essere ucciso dal figlio di sua figlia, prima rese la figlia impenetrabile chiudendola in una torre, poi, avendola Zeus fecondata scendendo su lei come una pioggia d'oro, quando nacque Perseo, chiuse la figlia e il nipote in una cassa e li fece gettare in mare. È vero che Penta viene gettata in mare dal fratello prima di avee un bambino, ma il suo essere abbandonata senza risorse al regno della natura si ripete quando viene scacciata dalla reggia col figlio suo e del re legato sulle sue spalle, perché Penta, non avendo mani, non poteva portarlo fra le braccia. Abbiamo ricavato la nostra illustrazione per questa fiaba elaborando un'immagine di Arthur Rackham che raffigura appunto Danae e Perseo, ovviamente eliminando il bambino e le mani di Danae (per i riferimenti all'originale, vedi Penta mano-mozza, e-book, p. 51). L'analogia con questo mito ci riporta a un re che tenta di dominare il destino, e come sempre fallisce, perché, come diciamo tante volte in queste note, la nuova generazione succede alla vecchia, e la logica dell'inconscio intende il nesso temporale come nesso causale. L'impossibilità di accettare il limite della propria esistenza soggettiva, del proprio patrimonio umano, non quella di riconoscere l'inevitabilità della propria la morte fisica, è alla base dell'incesto: se il figlio è anche il fratello, se la sposa è anche la madre, se la figlia è la sposa, se il vecchio e il giovane si uniscono, il tempo si ferma, e la propria presenza eterna è garantita. Nella nota psicoanalitico-filologica di Occhi-Marci abbiamo osservato come questa volontà di dominare il tempo, di durare oltre i propri limiti, abbia esiti tragici. Ma non nella fiaba, dove l'attante protagonista compie un percorso pieno di rischi, priva delle garanzie del suo titolo regale, ovvero senza legittimazione maschile, al posto del finale tragico si ha un finale felice, perché l'attante femminile non agisce contro o a favore del padre, dello sposo o del fratello, dai quali si trova lontana e priva di ogni loro sostegno. Penta mano-mozza come Occhi-Marci prende nome dalla sua menomazione, dalla sua mancanza, da quello a cui ha dovuto rinunciare per fuggire dal nodo incestuoso. Nodo che, lo ripetiamo anche in questa nota, soffoca sia gli ascendenti che i discendenti, impedendo il flusso delle generazioni.
Quando il re suo fratello le disse che intendeva sposarla, Penta cercò di dissuaderlo, poi, non essendci riuscita, gli chiese che cosa mai di lei lo attraesse tanto. E siccome le rispose che le sue mani erano per lui irresistibili, Penta, ritirandosi nella sua stanza, se le fece tagliare da uno schiavo con un colpo d'ascia. Poi,

...fattole mettere a no vacile de Faienza, le mannaie, coperte da na tovaglia de seta, a lo frate, co na ’masciata che se gaudesse chello che chiù desiderava co sanetate e figlie mascole. ...fattele mettere in un bacile di Faenza, le inviò, coperte di un tovagliuolo di seta, al fratello, con l'imbasciata che si godesse quello che più gli piaceva con buona salute e figli maschi.
(e-book, cit., p. 16) (e-book, cit., p. 17)

Il re si infuria per il gesto di Penta e la fa gettare in mare in una cassa di legno impeciata. Nelle fiabe tagliarsi le mani non significa morire dissanguati, perché, in modo simile ai sogni, la loro verità ha a che fare con la realtà psichica, le cui regole non coincidono con quelle della realtà di veglia. Ma perché Penta si taglia le mani anziché darsi alla fuga con qualche copertura, come la pelle di un asino? E perché il fratello, che affermava di amarla, anziché provare compassione per Penta, la getta in mare?
Pensando a un'interpretazione classica, Penta preferisce autocastrarsi pur di non cedere all'imposizione del fratello. In questo senso possiamo comprendere il re che, trovandosi impotente di fronte all'estremo diniego della sorella, la abbandona esponendola alla morte. Diamo ora ragione sul perché in ogni storia in cui i giovani o le giovani sono crudelmente abbandonati alle acque si salvino senza eccezioni. Questo vale anche per coloro che, come Edipo, anziché essere abbandonati alla natura come acque di un fiume o del mare sono lasciati alla natura come bosco. Le fiabe, come i miti e le storie religiose - si pensi, ad esempio, a Mosè - raccontano di un soggetto straordinario, che cresce privo della legittimazione paterna, vale a dire in un'area separata dall'ordine patriarcale. La formazione di un soggetto autonomo, avviene grazie a un movimento che si stacca da quanto è misurato e regolato dal potere fallico. Il destino di questo soggetto è trovare una nuova legittimazione, ma solo dopo un passaggio nel regno di madre Natura. Si tratta, come possiamo vedere in Occhi-Marci, di un riconoscimento fra figure femminili, derivante da un distacco traumatico dal rappresentante del potere maschile - re padre, fratello o sposo. La condizione di figli non legittimati dal padre non è rara fra le più grandi figure della storia dell'arte, basti qui ricordare Giovanni Boccaccio e Leonardo da Vinci.
Penta viene accolta da un uomo, la cui moglie però la rigetta in mare. Poi viene raccolta da un re e Penta diventa la cameriera fedele e fidata della regina. Quando questa muore, apprezzando le sue doti, chiede al re di scegliere  Penta come nuova sposa, e così accade.
Così Penta diventa regina, ma quando le nasce un bambino il re è lontano, e la donna che l'aveva rigettata in mare trama contro di lei in modo tale che viene di nuovo scacciata col suo bambino.
A un'aiutante femminile - la regina che le vuole bene tanto da lasciarle il suo posto - corrisponde una figura femminile persecutoria, che annulla il beneficio ottenuto grazie alla prima.
Penta sa servire un'altra donna, Penta rinuncia alle sue mani per mostrare al re che può pretendere il dominio sul suo corpo, ma non sulla sua volontà. A questo punto nella fiaba entra in scena un aiutante maschile, un potente signore che, essendo anche un mago, può dominare forze che non rispondono al potere dei re. Il potente mago dà a Penta un luogo in cui vivere e crescere agiatamente il suo bambino. Poi con un bando invita chi ha una grande sofferenza a venire a raccontargliela, e, fra tanti, capitano il fratello incestuoso, ora pentito, e il marito che senza altra colpa che essere lontano ha perduto la moglie innocente e il figlio che non ha mai visto. I due incontrandosi dichiarano la loro pena, e ciascuno di loro afferma che la propria è maggiore di quella dell'altro.
Come in Occhi-Marci, e diversamente dalle fiabe del tipo Pelle d'asino,gli attanti maschili che hanno fatto violenza o semplcemente non hanno protetto l'attante protagonista soffrono per la loro perdita, e riconoscono i loro errori. E così l'agnizione è possibile, nella gioia di tutti, con il mago che per rendere completo il lieto fine che fa dimenticare le disgrazie passate, dice a Penta di mettere i moncherini sotto il grembiule, che così li tira fuori complete delle mani, ancora più belle di prima. E Penta col marito e il loro figlio restano per sempre col re mago che li ha fatti ritrovare sani e salvi e che, non avendo figli, li ha scelti come eredi del suo regno. (AG)




IngleseOcchi-Marci
Bosco dell'esilio
Q
uadrante nord-ovest
Map of the Tale




Proponiamo la nota di lettura di Occhi-Marci con una chiave filologica-psicoanalitica, la stessa che sottende tutto il lavoro di Fabulando. In particolare intendiamo proporre il confronto fra la fiaba, raccontata da una narratrice analfabeta a Gherardo Nerucci nel XIX secolo, con una leggenda medievale del XII secolo (Goffredo di Monmouth, Storia dei re di Britannia) e il Re Lear di Shakespeare. Dovendo limitare, per motivi di spazio, le citazioni da queste due opere, forniremo di seguito le indicazioni biblio- e sitografiche che potranno servire a chi desideri apprezzare le due storie e, speriamo, verificare di persona le ipotesi di lettura che proponiamo.


Cominciamo col dire l’inizio, che nei tre testi coincide sostanzialmente: un re chiede alle sue tre figlie di dichiarare il loro amore per lui. Le prime due lo soddisfano, la terza, la più piccola, fa montare su tutte le furie il re che immediatamente la delegittima, la disereda e la scaccia.


Andiamo ora al finale delle tre storie, profondamente diverso nei tre generi.

La storia medievale, che è la fonte più antica di quella che ha fornito a Shakespeare la materia per il suo capolavoro, si conclude con il padre re Leir che, spogliato di tutto dalle figlie maggiori, cerca l’aiuto della più piccola, Cordeilla, e lo ottiene. Grazie a lei torna a sedere sul trono del suo regno, e alla sua morte gli succede la figlia minore. Ma i figli delle sorelle maggiori glielo tolgono, e Cordeilla si uccide per il dolore.

La tragedia di Shakespeare si conclude con re Lear che, portando fra le braccia la morta Cordelia, muore lui stesso di dolore.

La fiaba ha un lieto fine per l’attante protagonista femminile, che sposa un principe erede al trono. Ma non solo, suo padre, invitato alle nozze, grazie a uno stratagemma della figlia, comprenderà il suo errore e benedirà colei che aveva maledetto.


Paragoniamo i tre generi letterari ad altrettanti registri, o stili, del soggetto, che in una vita normale si alternano, dandoci via via la percezione di un orizzonte irrimediabilmente chiuso sulla nostra inadeguatezza o sulla crudeltà del nostro destino, come nella tragedia, la fiducia che non dichiarandoci sconfitti potremo ottenere qualche giustizia e rimediare ai nostri errori, come nella leggenda, la speranza che l’orizzonte si apra e un sole costante e temperato, come nel lieto fine delle fiabe, scaldi noi e la buona compagnia che dopo tanti patimenti abbiamo infine trovato.


Confrontiamo quindi i tre inizi.

Il re padre della leggenda decide di abdicare al trono in favore delle figlie, dando a ciascuna di loro una parte del suo regno, chiedendo in cambio una dichiarazione d'amore. La sorella maggiore dichiara di amarlo più della sua stessa anima immortale, lo pone quindi al di sopra di Dio. La mediana giura di amarlo più di qualunque creatura vivente, lo pone quindi al di sopra del suo futuro sposo. La più piccola risponde come uno dei fortunati esseri umani che hanno superato la fissazione edipica:

 

« Padre mio » gli disse, « c'è davvero una figlia che presuma di amare un genitore di un amore più grande di quello che gli deve, in quanto padre? Credo che nessuna avrebbe il coraggio di sostenerlo, a meno che non volesse nascondere la verità dietro parole scherzose. Io ti ho sempre amato come si ama un padre, e non ho cambiato opinione adesso. Se insisti a pretendere che ti dica di più, sta' certo che ti amo e smettila di farmi domande. Tu vali quanto possiedi, e questa è la misura del mio amore per te. » (Goffredo di Monmouth, Storie dei re di Britannia, Libro II, Capitolo 11, p. 71)

 

Cordeilla riconosce così l’ipocrisia delle sorelle, e dice al padre che solo per scherzo si può dire di amare lui solo. Dichiara il suo amore per lui come un non-tutto, e dopo avergli chiesto di non farle domande lo mette in guardia dalla voglia di misurare l'affetto: tu vali quanto possiedi significa che l’amore millantato dalle sue sorelle corrisponde ai beni con i quali il padre può arricchirle. Questa è la misura del mio amore per te potrebbe significare che chi vuole misurare l’amore può ottenerlo solo grazie ai suoi beni materiali. A ciò che sentiamo, alle emozioni, agli affetti, non si applicano le misure utili per i beni materiali.

Perché Leir, come faranno i re padri delle altre due storie, non vuole capire?

Non è la morte fisica ad essere inaccettabile, ma la fine della propria presenza, della propria storia, di ciò che forma il soggetto autocosciente, con gioia, dolore, avversità, fortuna, e tutto ciò che forma e sostiene la propria presenza umana, unica e irrepetibile. La generazione che si avvicina alla morte tenta spesso come questo padre sovrano di abitare, oltre il confine della propria vita, nel cuore della generazione successiva, dominandolo.


Se il re avesse discendenti maschi, eserciterebbe su loro il potere che gli deriva dall'essere il re e il padre, mentre sulle figlie deve esercitare anche quello del maschio sulla femmina. E se le donne seguono la loro passione, o il loro cuore, più della ragione e della legge - è un assioma della cultura patriarcale -  la sola garanzia di durata nel tempo del dominio fallico che il re rappresenta implica che il re padre domini, come oggetto d'amore esclusivo, il cuore delle figlie.
La nostra fiaba non dice che il re intendeva abdicare, né che le sue figlie stavano per sposarsi. Semplicemente un giorno chiede a ciascuna di loro quanto gli vogliano bene.


– Quant’al pane, – quella gli arrispose.
– Allora i’ son contento, – dice ’l padre.
Poi s’arrivolse alla mezzana:
– E te quanto mi vo’ tu bene?
– Babbo mio, quant’al vino.
Fa il padre:
– Anco di te i’ son contento, perché il vino mi garba e il paragone è giusto. E te, piccina, dimmelo anco te, quanto mi vo’ tu bene?
Dice la piccina:
– Quant’al sale.
– Oh! birbona, – sbergola il Re: – dunque, tu mi vo’ veder distrutto?
E s’incattivì, ché alla figliola, per bone ragioni che lei gli portassi del su’ pensieri, nun ci fu verso di farlo persuaso e d’abbonirlo.
Dice lui:
– Sì, tu mi vo’ distrutto, perché ’l sale si strugge anco da sé indove si mette. Dunque una figliolaccia come te con meco nun ci pole più stare. Va’ via di casa e ti maledico, e vai indove più ti garba. Ma fuggi via subbito dalla mi’ presenzia e ch’i’ nun ti rivegga più mai.
(Occhi-Marci, e-book, cit., pp. 6-8).


Il pane e il vino sono alimenti graditi su ogni mensa, inoltre sono ciò che nell'eucarestia si trasforma nel corpo e nel sangue di Cristo. Il re ha ben ragione di essere soddisfatto, sentendosi amato come nutrimento del corpo e dell'anima. Il sale è presente in tutta l'alimentazione, ma non è un nutrimento. Pare che la figlia minore non dimentichi, a differenza delle sue sorelle, che il nutrimento viene dalla madre, equiparando il padre al sale, ciò ciò che rende appetibile il cibo dopo lo svezzamento. Senza dimenticare che il sale, dando sapore, mentre la sua mancanza rende i cibi sciocchi, entra nelle espressioni relative all'intelligenza e al discernimento, come avere, o non avere, sale in zucca, come essere o non essere sciocchi.
Ma il padre ha secondo noi un motivo ben più importante per arrabbiarsi con la figlia minore, delegittimandola, diseredandola e scacciandola, imponendole quel che subiscono anche Cordelia e Cordeilla.

Il sale, come dice il padre, distrugge, corrode anche i metalli. Se accettiamo che il re esiga dalle figlie che gli garantiscano di vivere nel loro cuore oltre la sua morte - e di regnare dopo di lui come lui stesso regna - la risposta della figlia minore per lui vale come un rifiuto di questo suo desiderio. Se il padre non basta a nutrire il corpo e l'anima, egli non è tutto. Il limite che la figlia minore gli ricorda è proprio quello che il re non tollera. Scacciandola, il padre re scaccia il pensiero della morte.


Rifiutando il limite alla presenza della propria soggettività, che potrà durare nel tempo per la libera scelta dei figli e delle figlie, il re pecca di orgoglio titanico, di übris, ponendosi alla pari del divino. Questo peccato, dai greci classici a oggi, disegna un percorso tragico, che si compie, come in Shakespeare, e in Goffredo di Monmouth. In entrambi i casi si racconta la storia del re padre, che è il protagonista della vicenda, mentre le figlie, inclusa la protagonista, Cordeilla e Cordelia, agiscono esclusivamente in funzione del padre. La protagonista femminile è una funzione del grande re, sia che si racconti la leggenda dei re di Britannia, sia che il genio di Shakespeare metta in scena le conseguenze delle pretese illimitate di un padre. Il re padre apparentemente favorisce la successione, abdicando in favore delle figlie, mentre in realtà agisce per addolcire il dolore della rinuncia al potere che gli toccherà con la morte, ormai vicina.


Come dimostrando un teorema la tragedia racconta delle due sorelle maggiori, che gli tolgono rapidamente il suo seguito e la sua stessa regalità, in un crescendo di avidità di potere che le porta a combattersi e uccidersi. Colei che aveva dichiarato di amare il padre come un non-tutto, invece, appena viene a sapere in quale condizione miserabile si trovi, lo raggiunge e combatte al suo fianco, trovando però la morte.

Nella leggenda, che costruisce la storia mitica della Britannia in modo che non abbia nulla di meno di quella di Roma o di Atene – Goffredo di Monmouth colloca la storia di Leir e delle sue figlie ai tempi di Romolo e Remo!   – quel che conta è che il re restauri il suo potere, punendo come meritano le due figlie ipocrite che umiliandolo hanno umiliato il principio stesso della regalità. Il sovrano che vuole eternare la sua presenza perderebbe tutto, se non fosse soccorso dalla figlia minore, che amandolo nella misura umana, inevitabilmente limitata, lo soccorre e facendogli riconquistare il trono restaura la stessa dignità della monarchia.

La tragedia di Lear è una delle tragedie shakespeariane del potere – ovviamente patriarcale e fallico – che si erige come assoluto e pretende di imporre la sua esistenza oltre i limiti della morte e della trascendenza stessa.

Se c’è un potere senza limiti, è quello divino, che non si svela agli esseri umani, che possono ottenere il soccorso della grazia solo rinunciando a porsi come assoluti. La dimensione dell’infinito è esperibile dall’umano, ma solo per chi possa accettare un limite alla propria padronanza, e alla stessa autocoscienza. Tornando alla leggenda medievale di Goffredo di Monmouth, Leir riconquista il trono e regna per alcuni anni, e alla sua morte gli succede Cordeilla. Ma i figli delle sorelle maggiori si alleano contro di lei e quando le tolgono il regno Cordeilla si uccide. Seguono lotte feroci per il trono della Britannia, fra successori legittimi e illegittimi, mostrando come la forza e l’inganno prevalgano sulla giustizia, anche se accade che qualche volta la legge prevalga.

Tornando a Shakespeare, la lucidità finale di re Lear è l’estrema comprensione di fronte alla propria morte, dopo il fallimento di ogni illusione, dopo che il re ha compreso come la sua pretesa di rimuovere il limite della propria soggettività pretendendo un amore assoluto abbia condannato a morte la sola figlia che gli voleva davvero bene.


Possiamo osservare a questo punto come nella tragedia e nella leggenda i soli attanti - i personaggi che agiscono seguendo il proprio desiderio - siano maschili. Vero è che alla protagonista femminile è dato di portare in scena la saggezza, facendo di lei una meravigliosa eroina, ma tragica. Perché la saggezza subentri alla pretesa onnipotenza e alla follia di suo padre, Cordelia muore.
A questo punto ricordiamo alcuni versi dal Re Lear, quando il protagonista è ormai impazzito per la disillusione e la miseria alla quale lo hanno condannato le figlie che dicevano di amare lui solo. Lear attribuisce alla donna un male nascosto, vile e ammorbante, lo stesso male che nel mito greco portò fra gli uomini Pandora, accolta a causa della sua irresistibile bellezza. Leggiamo nelle sue parole l'espressione dell'unilateralità che caratterizza la massima espressione fallica del potere. Il fallo è uno e unico, e non può affermarsi se non sottomettendo la donna, dopo aver posto in lei tutto il male del mondo che sfugge a qualsiasi dominio:

 

Guarda là quella dama smorfiosetta
la cui faccia vuol far credere al prossimo
che tra le gambe ha il candor della neve
e si dà l’aria di donna illibata,
e scuote il capo tutta pudibonda
solo a sentire nominare il sesso:
la donnola o lo stallone in foja
non ci corron con più violenta brama.
Centaure, tutte, dalla vita in giù,
donne per tutto il resto: il loro corpo
appartiene agli dèi fino alla cintola;
più giù di là, è tutto del demonio;
lì è l’inferno, lì sono le tenebre,
lì la sulfurea pozza che ribolle,
bruciori, ustioni, lezzo, consunzione.
Ah, schifo, schifo, schifo! Puah! Puah!
Dammi, speziale, un’oncia di zibetto
a profumarmi l’immaginazione.
Eccoti lì il denaro.

(Atto IV, Scena 5)

 

Impossibile dire da quando la cultura umana ha posto ciò che non è dominabile nella parte inferiore della donna, idealizzando il resto. Assurdo pensare che questa attribuzione sia opera dei maschi contro le femmine: la cultura fallica è stata, a quanto ne sappiamo, da sempre la cultura di entrambi. Cordelia e Cordeilla servono il padre fino alla morte, e le sorelle, pretendendo di appropriarsi di tutto il suo potere, muoiono come lei, ciascuna pretendendo per sé sola il potere fallico. La morte delle figlie è conseguenza del dominio assoluto del sovrano, che si esercita in primo luogo sulle discendenti femminili, sia legittimandole, sia delegittimandole. I loro nobili mariti non hanno modo di proteggerle, sia che seguano le loro spose avide di potere contro il padre, sia che forniscano loro i mezzi per sostenerlo.


Per il lettore che ci abbia seguito fino a questo punto, formuliamo ora l'ipotesi che la fiaba, muovendo dallo stesso rischio fatale della leggenda e della tragedia, racconti come sia possibile procedere verso il lieto fine anziché soccombere. La fiaba in questo senso potrebbe essere letta come un racconto che dice dell'esistenza di una soluzione all’inevitabile dramma della successione. Come in tutte le fiabe di Fabulando, il lieto fine esige un cammino, in particolare esige che gli attanti protagonisti siano i giovani, che siano le nuove generazioni a sciogliere i nodi posti dalla loro relazione con le vecchie generazioni. Solo in questo caso i nodi della situazione d'inizio - che in Fabulando si chiama ingiunzione parentale, possono non diventare nodi scorsoi che, impedendo con la successione il flusso della vita, soffocano fatalmente chi è vicino alla morte come chi dovrebbe vivere e generare. Per questo i giovani delle fiabe sono sempre belli, e sempre disposti a intraprendere un cammino attraverso l’ignoto, verso una meta non solo difficile, ma ignota al soggetto stesso. E così, per il desiderio che si possa evitare una minaccia fatale, chi ascolta o legge una fiaba, a qualunque età, maschio o femmina, si identifica con l’attante protagonista, sia femminile o maschile.


Riprendiamo ora la fiaba di Occhi-Marci, la principessa costretta a lasciare la sua casa, priva di mezzi e di legittimazione. A differenza di Cordelia e Cordeilla, ha un’aiutante femminile, la sua balia. Disponendo di una somma di danaro, la balia la investe nell'acquisto della pelle di una vecchia morta a cent’anni, che provvede a conciare e cucire su un tessuto fine, per farla indossare alla sua protetta.
Pelle d’asino, l’Orsa, Maria di Legno, come tutte le protagoniste delle fiabe di questo tipo, fuggono da un padre che le ama troppo, mentre Occhi-Marci viene esiliata dal padre. L'ingiunzione di questa fiaba infatti non è il Castello dell'amore imposto, ma il Bosco dell’esilio. Ma in entrambi i casi si tratta di un eccesso d’amore paterno che minaccia la successione annullando la distanza fra le generazioni. Qual è la funzione della copertura che nasconde la bellezza e la giovinezza di Occhi-Marci, attante implicata nell’incesto quanto le protagoniste delle altre fiabe citate?


Prima di rispondere osserviamo che il cammino delle attanti femminili costrette a lasciare la casa del padre incestuoso, andando per il mondo prive della sua legittimazione, è pieno di pericoli, eppure la fiaba racconta che esiste una storia nella quale è stato possibile compierlo, per giungere alla autonomia – significata dall’ascesa al trono – e alla fecondità – significata dalle nozze.

Le eroine della tragedia, come Cordelia, e della leggenda, come Cordeilla, possono aiutare il degno rappresentante della funzione ordinatrice maschile, ma a prezzo della loro vita. Si immolano per l'ordine patriarcale, o vengono eliminate dai suoi rappresentanti.
Un altro ambito nel quale l’eroina femminile quasi sempre sacrifica la sua vita perché trionfi la legge fallica è il melodramma: ricordiamo solo
Violetta nella Traviata di Giuseppe Verdi, Madama Butterfly, Mimì nella Bohème e Tosca di Giacomo Puccini, e Carmen di Georges Bizet. Se il loro amante amato ha rinunciato a loro sottomettendosi all’ordine maschile, si salva, come Germont padre e figlio nella Traviata, Pinkerton in Madama Butterfly, e Rodolfo nella Bohème. Se invece è un fuorilegge, muore con loro, come il carbonaro Mario Cavaradossi in Tosca e il soldato disertore José nella Carmen.

Sperando di non appesantire questa nota, già molto complessa, osserviamo che nelle opere di Puccini, le cui  eroine rappresentano un vertice struggente di bellezza e grazia femminili, c'è una sola eroina che anziché morire si sposa per vivere felice e contenta: Turandot. Non a caso viene dal mondo delle fiabe, nel quale ha viaggiato dalla letteratura persiana del XII secolo fino a Les mille et un jours pubblicati a Parigi da Pétis de la Croix (1710-1712). Ma è certamente un caso che Puccini sia morto prima di comporre la musica del solo finale felice di una sua opera. Fece in tempo però a scrivere la musica del funerale di Liù, principessa rivale di Turandot, che muore per amore.


Ammettiamo l’ipotesi che la fiaba veli con la sua superficie giocosa una possibilità di sciogliere il nodo del conflitto tragico che il potere fallico impone ai discendenti, che le piccole fiabe, serenamente prive di legittimazione religiosa e ideologica come i loro attanti protagonisti, raccontino come evitare che questo nodo non diventi un nodo scorsoio. Questa ipotesi ci permette di analizzare le fiabe come contenitori di una verità alternativa a quella dell’ordine fallico, grazie al fatto che hanno attanti femminili capaci di trovare autonomamente una soluzione. Questa soluzione è, certamente, poco realistica e tutt'altro che a portata di mano, come la realizzazione di un sogno. Ma ciò che si può immaginare, sognare, narrare, ha un grado di realtà, anche se la sua realtà non è misurabile ne padroneggiabile, proprio come l’amore di cui parla Cordelia al padre, dicendogli che le sue domande sono inopportune.
Così si esprime in
Shakespeare, dopo la dichiarazione della sorella maggiore: Che potrà dir Cordelia? / Tacere, solo, ed amare in silenzio. E dopo la dichiarazione della mediana: Ah, povera Cordelia! / Anzi, non povera, perché il mio amore, / sono sicura, è ricco, assai più ricco / di quanto possa esserlo la lingua. Poi, quando il padre le ordina di dire quanto lo ami: Infelice ch’io sono, / non so portare il cuore sulle labbra! (Atto I, Scena 1).

Leggiamo nelle parole di Cordelia la testimonianza di una realtà umana di ordine diverso da quello fallico e paterno, che può esistere, ma non prendere parola pubblicamente. Quando Cordelia parla, insieme a re Lear ci sono i suoi dignitari e i nobili pretendenti delle figlie, e se il padre sovrano accettasse il discorso della figlia minore si incrinerebbe l’asse fallico. Il re che lo rappresenta deve eliminare colei che ha dato testimonianza di una realtà che nessun ordine può dominare: la non misurabilità degli affetti.


Possiamo ora rispondere alla domanda che abbiamo lasciata sospesa, sul perché Occhi-Marci - come le tante Pelle d'asino - abbia bisogno di una copertura, quasi una seconda pelle, che la nasconda dal desiderio maschile. Perché la delegittimazione che la figlia subisce, non si trasforma in una condanna fatale - come nella leggenda medievale, nella tragedia di Shakespeare e nella maggior parte dei melodrammi, lasciando che al nostro paziente lettore, come a noi vengano in mente altri innumerevoli esempi - in una fatale condanna a morte, esige un tempo e un movimento dal quale il maschile è escluso. In questo tempo entrano in scena aiutanti materne le cui azioni, illusoriamente brevi e semplici, operano un riconoscimento fra madri e figlie. L'attante protagonista elabora la perdita della figura materna, eliminata - morta, o neanche nominata in queste fiabe - e ritrovandola trova la propria autonomia, il proprio ritmo, il proprio linguaggio. Solo dopo questo riconoscimento la sua bellezza può essere scoperta, e il lieto fine, tutt'altro che scontato, scioglie il nodo iniziale, e tutti sono liberi di vivere e generare.

L’aspetto animale, sporco, repellente in ogni caso, vale come assunzione da parte dell’attante protagonista di una colpa da espiare. Il messaggio manifesto della fiaba – è il padre colpevole, mentre la figlia è innocente – è contraddetto dal tempo che la figlia deve passare servendo come guardiana di oche o di polli, con la forma di un'orsa o coperta dalla pelle di una vecchia. Questa pelle di vecchia rappresenta genialmente l’opposto complementare della fuggitiva, la rende repellente difendendola dal desiderio maschile, che sarebbe distruttivo prima che si compia il suo percorso di soggettivazione femminile.


Nel tempo della cenere, dello sporco, dell'isolamento, vale a dire del lutto, che nessuno vorrebbe attraversare, senza il quale nessuna vera crescita è possibile, l’attante protagonista di questa fiaba, come le sue sorelle del tipo Pelle d'asino, viene aiutata da due figure femminili, materne per età o posizione gerarchica. La prima, di cui già sappiamo, è la sua balia, che la accompagna nella fuga e copre la sua irresistibile bellezza, la seconda è la regina madre del suo futuro sposo, che portandole la materia e gli strumenti per filare e cucire, la invita a esercitare le antiche virtù femminili, le stesse con le quali le Parche classiche, come le Norne germaniche, decidono nascita, vita e morte di ogni essere umano. Né è privo di senso ciò che la regina chiede: filare e poi cucire con un fine tessuto di lino una camicia per il principe.
Nelle fiabe del tipo Pelle d’asino le madri dei principi chiedono alle guardiane di polli di preparare il cibo richiesto dal loro figlio malato d'amore. Così prende forma il riconoscimento fra figure femminili: la madre dell’attante maschile cede le sue prerogative materne – nutrire e vestire il proprio figlio - e chiede di farlo a una creatura repellente. Questa rinuncia della regina madre ad essere la sola donna necessaria al figlio in favore di un’estranea, è condizione senza la quale il lieto fine non potrebbe avvenire. Suggeriamo il confronto con una delle nostre fiabe, nella quale la regina madre esige di essere la sola amata dal figlio: La cerva fatata, ricordando i versi di W. H. Auden che vi si trovano in esergo:


Perché l'errore che si nutre nel midollo 
delle ossa di ogni uomo e di ogni donna
brama quel che non può avere:
non l'amore di tutti,
ma d'essere il solo amato.


Lasciando la leggenda medievale e la tragedia, ci avviamo ora al finale di Occhi-Marci.
La straordinaria perizia che la giovane coperta dalla pelle di vecchia mostra in questi compiti stupisce tutta la corte e aumenta la curiosità del principe, che già era attratto dal contrasto fra il suo aspetto decrepito e la sua straordinaria vivacità. Notiamo che in questa fiaba, come in molte altre, il soprannome, che viene all’attante dai caratteri che acquisisce nel suo movimento, è anche il nome stesso, dovuto agli occhi da vecchia, quasi da morta. Il principe, pensando che Occhi-Marci ha sempre mangiato da sola nella sua stanza, e vi si è chiusa a chiave anche per filare e cucire la sua camicia, pensa che c'è qualcosa da scoprire.
 

Con questo pensieri il figliolo del Re, quando alla vecchia gli portorno da desinare, se n’andiede al buco della toppa, e vede che la vecchia si spogliava ignuda e poi si levava quella buccia finta, e che di sotto c’era una bellissima ragazza. Nun fece discorsi il figliolo del Re; con un calcio butta giù la porta, nentra in cammera e abbraccia la ragazza diviato, sicché lei tutta vergognosa scappò in un cantuccio a ricoprirsi con quel che potiede. (e-book, cit., pp. 36-38)

 

Si sciolgono definitivamente i nodi, e la vita – con la successione delle generazioni – scorre ormai senza impedimenti, mentre Occhi-Marci racconta tutta la sua storia al principe. Lui chiama i suoi regali genitori, dai quali ottiene la piena approvazione delle sue nozze con la bellezza che ha scoperto.

A questo punto, quando finiscono le fiabe del tipo Pelle d’asino, Occhi-Marci continua.


Riassumiamo il percorso del soggetto femminile, l’attante protagonista della fiaba, colei che agisce e si definisce in questa soggettivazione.

Alla privazione della legittimazione paterna segue un cammino durante il quale il soggetto si forma, e per questo deve occultarsi, rendere invisibile la sua bellezza. Accolta in una reggia straniera, Occhi-Marci è in posizione servile, e fila e cuce, come le Pelle d’asino fanno crescere gli animali da cortile e cucinano. Ma nulla cambia fino a quando il desiderio maschile non si attiva, sia che il principe si ammali d’amore e voglia che la guardiana del pollaio o l’orsa cucinino per lui, sia che, preso dalla curiosità, indaghi, e scopra la vera natura della vecchia arzilla che ha voluto portarsi a palazzo.
La mediazione della regina madre è un passaggio necessario e decisivo, sia che tocchi a lei chiedere alla repellente o pericolosa sconosciuta di nutrire suo figlio, al quale il cibo materno non basta più, sia che inviti Occhi-Marci a fare per lui il lavoro delle antiche dee del destino. Saper maneggiare fuso e ago non è solo una prerogativa femminile praticata dalle donne fin dal neolitico, che continua a esercitare un fascino anche ai nostri tempi. Rappresenta ciò che rende possibile agli esseri umani, dalla nascita alla morte, di velare e proteggere il loro corpo con manufatti umani, differenziandoli dagli animali come il linguaggio verbale caratterizza il loro modo di comunicare. Non dimentichiamo che la dea greca Atena, signora della città alla quale diede il nome, dea dell’intelligenza, era anche la dea del ricamo e della tessitura. Né trascuriamo che molte parole che vengono da queste arti femminili significano attività del pensiero che lega e intreccia. Si pensi, ad esempio, a espressioni come ordire una trama, tessere un inganno, intrecciare legami.


Alla mancanza di legittimazione paterna deve seguire la soggettivazione femminile, che non si compie senza un’alleanza con figure materne, come la balia e la regina madre. Nelle Pelle d’asino la madre muore all’inizio della storia, in Occhi-Marci, come in Penta mano-mozza, non viene neppure nominata. Vale a dire che è stata eliminata, ovvero che la relazione di riconoscimento fra madre e figlia non ha potuto aver luogo. In termini classici, l’eliminazione della madre consegue al desiderio incestuoso della figlia di prenderne il posto, un posto che però diventa una prigione quando la figlia cresce.

Nella fiaba, come nel sogno notturno, non ci sono colpevoli né innocenti, né giusti o ingiusti. Ci sono figure che, a un livello più universale di quello delle lingue locali, sono altrettante forme di stati e modi dell’essere. La fiaba permette di sperimentare emozioni, sensazioni, angosce per le quali ha una figura, un gesto, un evento magico positivo o negativo.


La figlia più piccola, che si chiama ancora Occhi-Marci, anche se ormai la sua bellezza risplende senza pericolo, il soggetto femminile che ha costruito la sua autonomia camminando e occultandosi e lavorando filo e tessuto di lino, può ricordare il padre che l’aveva delegittimata e scacciata.

Anche il re padre di Occhi-Marci è invitato alle sue nozze, ma, per ordine della sposa, tutte le pietanze gli vengono servite senza sale. La sposa, nella quale lui non ha riconosciuto la sua figlia più piccola, gli si avvicina alla fine del banchetto, chiedendogli come mai non abbia mangiato nulla:

 

Dice lui:

– Che vole! Se ’gli è uso di questi paesi, istarò zitto; ma la robba insenza sale io nun la posso mangiare.

– Dunque lei al sale gli vole bene? – addimandò la sposa.

Dice lui:

– Sicuro, ché insenza sale i’ nun so fare io.

– Oh! allora, signor padre, – scramò la sposa, – perché mi mandò via di casa, quand’i’ paragonai il bene ch’i’ gli volevo al bene ch’i’ voglio al sale?

A queste parole ’mprovvise il padre s’accorgette che era la su’ figliola e disse forte:

– T’ha’ ragione! I’ feci male dimolto, e ti chieggo perdono, e ti benedisco con tutto il core. (e-book cit., p. 44)

 

I nodi della situazione iniziale, che è la stessa nei tre generi letterari che abbiamo confrontato in questa nota, diventano nodi scorsoi alla fine della leggenda medievale e della tragedia. Il lieto fine caratterizza il genere fiaba, ma per raggiungerlo si racconta di un cammino di soggettivazione che si compie oltre la legittimazione paterna. Questa formazione fiabesca del soggetto, che in questa fiaba riguarda l'attante protagonista femminile, si trova anche in fiabe che hanno come protagonsita un attante maschile, ma in ogni caso non appartiene al dominio fallico, e, anzi, deve compiersi lontano da questo dominio, nell'oscurità dell'occultamento sotto una vecchissima pelle o una pelle animale. Quando questa soggettivazione femminile si compie, la meta dellafiaba compren de un nuovo incontro, questa volta felice, fra attanti maschili e femminili, e una nuovo, reciproco, riconoscimento.  È così che la maledizione iniziale può trasformarsi in una benedizione. (AG)







IngleseLa Principessa di Vallepelosa
Fortezza della solitudine
Quadrante nord-ovest
Carta della fiaba



Ce qui limite le vrai, ce n'est pas le faux, c'est l'insignifiant.


Ciò che limita il vero, non è il falso, è l'insignificante.

(René Thom)




Questa fiaba è la storia cornice del Cunto de li cunti di Giambattista Basile, la prima raccolta di fiabe pubblicata al mondo.
È la storia della pincipessa Zoza, che non ha mai riso in tutta la sua vita. Il re suo padre, sperando di guarirla da questa grave melanconia, aveva chiamato alla sua corte giocolieri, attori e acrobati da ogni parte, ma Zoza non aveva mai nemmeno mosso la bocca. Alla fine il re di Vallepelosa aveva fatto costruire una fontana d'olio davanti al suo palazzo, e tutti quelli che vi si recavano per attingerne, facevano tali e tanti scivoloni che tutta la corte rideva a crepapelle. Ma non Zoza.
Un giorno arrivò un donna molto vecchia, e camminando pian pianino andò alla fontana e riempì la sua bottiglia senza mai perdere l'equilibrio.Ma quando stava andandosene, un paggio prese di mira il suo recipiente e con un coilpo di fionda lo mandò in pezzi. La vecchia gliene disse di tutti i colori, e il paggio le rispose per le rime:

Non vuoi appilare ssa chiaveca, vava de parasacco, vommeca-vracciolle, affoca-peccerille, caca-pezzolle, cierne-vernacchie?». La vecchia, che se sentette la nova de la casa soia, venne ’n tanta zirria che, perdenno la vusciola de la fremma e scapolanno da la stalla de la pacienza, auzato la tela de l’apparato fece vedere la scena voscareccia, dove potea dire Sirvio «Ite sveglianno gli occhi col corno». Lo quale spettacolo visto da Zoza le venne tale riso c’appe ad ashevolire.
«Non vuoi chiudere codesta chiavica, nonna di Belzebù, vomita-braccini, affoga-bambini, caca-pezze, maestra di scorregge?». Alla vecchia, che sentì il notiziario di casa sua, salì una stizza tale che, perdendo la bussola della flemma e aprendo la stalla della pazienza, alzando il sipario del teatro fece vedere la scena boschereccia, dove SIlvio poteva dire «Ite svegliano gli occhi col corno». La vista di questo spettacolo fece ridere Zoza tanto che per poco non sveniva.

(La principessa di Vallepelosa, pp. 20-21)
 
La melanconia è una condizione in cui l'anima vive un lutto permanente, che esclude la possibilità di soddisfare qualunque desiderio, o, meglio, la possibilità stessa di desiderare. Pensando alla mitologia greca, possiamo ricordare i lutto di Demetra, la dea della terra che dà frutti. Quando Ade, dio degli inferi, rapisce sua figlia Kore, Demetra la cerca per tutto il mondo, ma non trova nessuna traccia della sua figlia adorata. La sua disperazione era tanto grande che proibisce alla terra di dare frutti, tanto che il genere umano rischia di morire di fame.
Quando nel suo peregrinare Demetra giunse ad Eleusi, Baubò, mitica moglie del re, le offrì una bevanda d'orzo, che la dea rifiutò. A questo rifiuto la vecchia regina reagì sollevandosi la veste e mostrando le pudenda. Demetra allora rise, mettendo così fine al suo lutto. Inseguito insegnò agli uomini l'arte dell'agricoltura. La beatitudine delle messi che la terra dava spontaneamente non tornò, come non tornò il tempo felice dell'unione permanente di Demetra e Core. Ma la figlia poté tornare suilla terra per sei mesi l'anno, e in quel tempo la terra terra fiorisce e dà frutti. Kore ormai non erà più solo sua figlia, ma la sposa di Ade, e nel resto dell'anno viveva sottoterrra con il dio degli Inferi.
Osserviamo infine che se il gesto della vecchia ricorda quello mitico di Baubò, la scena voscareccia rimanda al sesso femminile come al locus amenus della poesia arcadica, con un effetto comico che disintegra il manierismo della poesia pastorale, di moda ai tempi di Basile.

Nelle fiabe dove si racconta di una principessa che non ha mai riso, il tempo del suo primo riso, che pone fine alla melanconia, è anche il tempo delle sue nozze (vedi anche la fiaba Lo scarafaggio, il topo e il grillo). Nel mito greco, nel tempo in cui la terra dà spontaneamente i suoi frutti la diade madre/figlia di Demetra e Kore non ha conosciuto separazione. Nel tempo del lutto, come abbiamo detto sopra, la terra cessa di dare frutti, mentre la fine di questo lutto cosmico, dopo il riso della dea madre, apre il tempo in cui la terra dà frutti all'uomo che la lavora. Questo è il tempo umano, quando la primavera e l'estate, ricche di fiori e di messi, si alternano con le stagioni fredde e senza raccolto.
Nella diade madre/figlia non c'è alcuna successione, che implica una dolorosa separazione. La melanconia, nome antico della contemporanea depressione, segue la rottura violenta di questa diade perfetta. 
Una perfezione perduta, alla quale non si può rinunciare perché esiste solo nella nostra immaginazione, è al cuore della melanconia. La vista del sesso della vecchia Baubò provoca il riso della grande dea Demetra, le cui prerogative conincidono con quelle della Madre Terra.
Con lo stesso gesto la vecchia della fiaba, in risposta al paggio impertinente, fa scoppiare a ridere Zoza. Osserviamo che la fiaba comincia nel regno di Vallepelosa, nome che si riferisce esplicitamente a quel che le due vecchie mostrano ponendo fine alla melanconia dell'antica dea e della principessa della storia cornice del capolavoro di basile.

Abbiamo ricordato come Kore fosse stata rapita da Ade, dio del mondo sotterraneo, regno dei morti. E anche la principessa di Vallepelosa si trova immediatamente di fronte alla morte, a causa della maledizione della vecchia, che le fa così pagare la sua ilare guarigione: potrà sposare solo il principe Taddeo, che però, per una maledizione che ha subito a sua volta, giace come morto in una tomba. Sulla lapide è scritto che solo colei che in tre giorni riempirà con le sue lacrime la grande brocca che vi si trova appesa, potrà riportarlo in vita e diventare la sua sposa.  
Zoza lascia immediatamente il palazzo del padre e cammina e cammina per sette anni alla ricerca di questa tomba. Durante il suo viaggio incontra, una dopo l'altra, tre fate, che le chiedono dove stia andado, e alle quali Zoza racconta la sua storia. Da ciascuna di loro riceve tre frutti magici, una noce, una castagna e una nocciola, insieme alla consegna di aprirle solo quando si troverà nel bisogno e non avrà più nessuna risorsa. (Il numero sette torna ne Il Re porco; vedi on line, Psicoanalisi e favole. L'attante protagonista femminile parte per ritrovare il suo sposo perduto, e ha un compito impossibile: consumare sette paia di scarpe di ferro, sette vesti di ferro e sette mazze di ferro, e riempire sette fiaschette di lacrime.)
Dopo sette anni Zoza giunge alla tomba del principe Taddeo, e in tre giorni piange tanto che riempie quasi fino all'orlo la brocca. Ma quando mancano poche gocce, per la grande stanchezza si addomenta,
Una brutta schiava nera, capitata da quelle parti, leva dalle mani di Zoza la brocca, vi versa tre lacrimucce, e il principe si sveglia. Credendo che sia stata lei a rompere l'incantesimo, Taddeo sposa la schiava, mentre la povera Zoza, quando si sveglia, scopre di aver perduto quel che aveva cercato nel suo lungo viaggio. Però non si lascia scoraggiare, e va a vivere in un palazzo davanti a quello del re. Poi rompe in successione la noce e la castagna e la nocciola, dalle quali escono due magnifiche galanterie. Quando la sposa usurpatrice vede queste meraviglie, pretende che Taddeo gliele compri (per le galanterie, vedi sia la fiaba già citata Il Re porco, e, in Fabulando, Panepinto). Taddeo manda a chiedere gli oggetti a Zoza offrendole molto denaro, ma la sua liberatrice misconosciuta glieli manda in dono. Quando finalmente Zoza apre la nocciola, appare una bambola che fila l'oro, e lei mette questa tera galanteria sul davanzale della sua finestra.
Anche questa volta la schiava nera pretende di averla, e Taddeo decide di andare di persona a chiedere questa bambola magica. Zoza gliela dona, ma prima di dargliela fa un incantesimo alla bambola: chiunque la possieda avrà un'irresistibile voglia di ascoltare favole.
A questo punto, per soddisfare la nuova voglia di sua moglie, che è incinta e minaccia di darsi pugni sulla pancia se non sarà accontentata, Taddeo convoca a corte dieci narratrici, scegliendole fra le donne del popolo. resteranno a corte per cinque giorni, nei quali ciascuna di loro dovrà raccontare una storia.
Così la storia cornice di Basile apre la sua raccolta, e da questo momento, per cinque giorni, Taddeo, la sposa usurpatrice, con le narratrici stesse, ascoltano quarantanove storie - che noi oggi possiamo ancora leggere. Fabulando ne propone quattordici, col testo originale e una traduzione italiana a fronte. È impossibile gustare e comprendere completamente il valore di questi fiabe se non si accede al testo napoletano del XVII secolo, perché lo stile di Basile dà loro forma quanto il loro contenuto. Il titolo napoletano della raccolta, Lo cunto de li cunti, viene tradotto in italiano come Il racconto dei racconti, ma la sua traduzione più corretta dovrebbe essere  La fiaba delle fiabe, perché il libro appartiene a questo genere. Non solo, il capolavor barocco di Basile dà inizio al genere fiaba, dato che costituisce la prima raccolta di fiabe pubblicata al mondo. Riprende molti motivi preesistenti, sia letterari che popolari, e fornisce motivi e trame a innumerevoli raccolte successive, che rinarrano le stesse storie a vari livelli in Italia e in Europa, dal XVII secolo a oggi.

La quarantanovesima fiaba della raccolta, vale a dire la nona de quinto e ultimo giorno, si intitola I tre cedri. Il protagonista maschile è un principe che non voleva sposarsi, e la storia racconta di come una brutta schiava nera prende il posto della bellissima creatura fatata che il principe aveva conquistato e che stava per sposare. 
Alla fine di questa storia, quando la regina usurpatrice sente che si parla di un inganno tanto simile al suo, comincia ad agitarsi, ma non dice nulla, per non destare sospetti. ma ecco che Zoza dalla storia cornice entra in scena e la fiaba delle fiabe, vale a dire la sua storia, diventa la cinquantesima fiaba che compie e conclude la raccolta. Ora la brutta schiava cerca di interrompere il racconto, minacciando di darsi pugni sulla pancia e far fuori il bambino del re che sta per nascere. Ma Taddeo questa volta non le dà retta, e il racconto prosegue.
E così Zoza racconta quel che noi già sappiamo dalle prime pagine della raccolta, rivelando al re che è stata lei, una principessa malata di melanconia, a riportarlo in vita. Per salvarlo aveva camminato e cammianto per sette anni e riempito in tre giorni di lacrime la brocca.
Finalmente il principe Taddeo incontra la sua vera sposa, e condanna a morte la schiava usurpatrice. Così finisce la storia della principessa di Vallepelosa, dopo quarantanove storie, quando Zoza racconta di sé componendo la cinquantesima fiaba. La storia cornice è a un tempo parte del grande affresco di Giambattista Basile, il genio napoletano che ha formato per primo il genere letterario delle fiabe. Questo riconoscimento gli è dovuto, come dobbiamo riconoscere a Giovanni Boccaccio il di aver fondato la novella laica come genere letterario.

Non possiamo non fare un'ultima osservazione sulla condanna a morte che il principe Taddeo emana senza alcuna esitazione, contro la regina usurpatrice insieme al loro bambino non ancora nato. Questo dettaglio, inaccettabile per la nostra sensibilità, è oltretutto un apax, comparendo solo in questo caso in tutta la raccolta. Nelle fiabe - per quanto ne sappiamo - nessuno condanna a morte un bambino che sta per nascere. Possiamo vedere come Taddeo, fino alla fine della quarantanovesima fiaba, abbia accontentato la regina nera ogni volta che questa minacciava di darsi pugni nella pancia ferendo l'erede, mentre non la prende proprio in considerazione quando la verità emerge durante il cinquantesimo racconto. Per comprendere il senso della totale indifferenza del principe Taddeo per il suo stesso bambino, dobbiamo andare oltre il contenuto manifesto di questo passaggio. Potrebbe significare che il potere della fiaba delle fiabe, quella che racconta di come lui si sia svegliato dalla morte, supera la sua preoccupazione per l'erede. Incontrare l'amata, colei che lo ha liberato, supera il bisogno di tutelare l'erede al trono suo e di suo padre.
E se poi questa chiave di lettura appare arbitraria e difficile da accettare, come il particolare che cerca di comprendere, possiamo pensare che può capitare, nelle fiabe come nella vita. Non è questo a togliere il gusto di vivere né di ascoltare fiabe. 
Queste sono le parole di Taddeo prima che le dieci donne cominciassero i loro racconti:

Non è chiù cosa goliosa a lo munno, magne femmene meie, quanto lo sentire li fatti d’autro, né senza ragione veduto chillo gran felosofo mese l’utema felicità dell’ommo in sentire cunte piacevole, pocca ausolianno cose de gusto se spapurano l’affanne, se da sfratto a li penziere fastidiuse e s’allonga la vita, pe lo quale desederio vide l’artisciane lassare le funnache, li mercante li trafiche, li dotture le cause, li potecare le facenne, e vanno canne aperte pe le varvarie e pe li rotielle de li chiacchiarune, sentenno nove fauze, avise ’mmentate e gazzette ’n aiero. (Basile, 2013, tomo I, pp. 22-24)
Non c'è al mondo cosa di cui si abbia più voglia, mie belle signore, che sentire i fatti degli altri, e non senza ragione quel gran filosofo pose la massima felicità degli esseri umani nel sentire piacevoli favole, perché ascoltando cose di gusto svaniscono gli affanni, si sfrattano i pensieri uggiosi e si allunga la vita, tanto che per questo desiderio vedi l'artigiano lasciare il laboratorio, il mercante i negozi, gli avvocati le cause, i bottegai gli affari, e vanno a bocca aperta nei saloni dei barbieri e nei capannelli dei chiacchieroni, ad ascoltare notizie false, annunci inventati e fogli volanti. (Traduzione nostra)

(AG)

Per le origini, i significati e le implicazioni dell'unione dei colori bianco (come neve, marmo, latte, ricotta) e rosso (sangue), accompagnati a volte dal nero (come il piumaggio del corvo, come l'ebano) vedi una Comparazione delle fiabe seguenti:
La principessa di Vallepelosa, storia cornice del Cunto de li cunti;
Il Corvo
(Cunto de li cunti);
I tre cedri  (Cunto de li cunti);
Biancaneve e i sette nani (Fratelli Grimm 1812);
La culumbena bianca, storia popolare raccolta in Romagna;
La fola di Bianca come neve rossa come sangue, storia popolare raccolta in Emilia,
Le ultime due fiabe, come la Comparazione, si trovano nel sito di Adalinda Gasparini Psicoanalisi e favole.

Boccaccio e Basile, ovvero Ghismonda principessa di Salerno e Zoza principessa di Vallepelosa

E così detto, non altramenti che se una fonte d'acqua nella testa avuta avesse, piangendo cominciò a versare tante lagrime, che mirabile cosa furono a riguardare, basciando infinite volte il morto cuore.
(Boccaccio, Decameron, Giornata quarta, Novella prima).

Difficile pensare che per l'evento centrale della sua fiaba cornice, che è, come si è detto, anche la cinquantesima, Basile non avesse in mente la novella di Guiscardo e Ghismonda, che una volta scoperti muoiono: lui al servizio del principe di Salerno, Tancredi, viene ucciso per ordine suo, lei, sua figlia, inonda la coppa contenente il cuore dell'amato, che il padre le manda, di lacrime, poi vi versa una bevanda che ha avvelenato e beve il conetnuto della coppa, mettendosi a giacere col cuore di Guiscardo sul suo, e cone le ultima parole prega il padre di seppellirla con lui. 
Cosa manca a Ghismonda e Guiscardo per vivere, mutando in clemenza la collera di Tancredi?  Manca qualcosa che è già in Boccaccio, per esempio nei motti che cambiano la situazione disperata o semplicemente svantaggiata dei protagonisti, e che è nelle fiabe - fatta eccezione in quella di Renza e Cecio, che finiscono come Giulietta e Romeo, ovvero come gli amanti condannati dalla legge e dalle consuetudini. Manca una libertà dalla pietrificazione dell'anima, per così dire, quando la legge sorprende gli amanti illegittimi. Si può dire che la gerarchia in forza della quale Tancredi, pur addolorato, condanna a morte Guiscardo, e, implicitamente, la figlia amatissima, è la stessa alla quale sono soggetti - della quale sono soggetti quanto Tancredi! - Ghismonda e Guiscardo. Nelle fiabe c'è uno scarto grazie al quale il/la protagonista si affranca da sé (come l'analista, che nelle parole di Lacan si autorizza da sé!) dalla gerarchia e anziché pietrificarsi la pietrifica temporaneamente e riesce a vincere. Di questo scarto sono parte di solito determinanti la fata, il mago, la vecchia che dona la mandorla, l'animale parlante, il vecchio che interroga l'attante lungo il cammino, il gatto mammone, la gatta con gli stivali... Come dire che la lacerazione nel tessuto sociale gerarchico avviene per un'autonoma incursione nell'ignoto, prima delle fiabe - ma già i cantari realizzano questo scarto - accessibile solo con la mediazione dell'autorità religiosa, di quella civile, o di entrambe. Nelle Mille e una notte questo scarto è limitato, perché è in ogni caso subordinato all'autorità del Califfo, affiancato dal visir persioano Giaafar e dal boia Masrur, che convocando i personaggi nel suo palazzo ricostruisce la storia, premia i buoni e punisce i cattivi. (AG, 1° aprile 2022)





IngleseI tre cedri
Fortezza della solitudine
Quadrante nord-est
Carta della fiaba



A nord-est, nella Fortezza della solitudine, troviamo la fiaba dei Tre cedri, tra le fiabe di Basile fra le più rinarrate, rappresentate a teatro, musicate. Il principe erede al trono non vuol saperne di sposarsi, e mancando un erede il regno è in pericolo. Ma un giorno, tagliando una ricotta si taglia, e la combinazione del bianco col rosso del suo sangue gli fa immaginare una fanciulla con quei colori. Se ne innamora perdutamente, come i protagonisti de Il corvo e de La ricotta bianca, e lascia il regno per cercarla per mari e per monti. Giunse infine alle isole delle Orche, una delle quali gli diede tre cedri e un coltello per aprirli, dicendogli che lo facesse solo quando fosse tornato nel suo reame, e che badasse bene di esser pronto a dissetare la fanciulla che sarebbe uscita dal cedro, che sennò l'avrebbe perduta per sempre. Così fece, ma non essendo riuscito a dar da bere in tempo alle prime due le vide scomparire. Alla terza bellissima fata che uscì dall'ultimo cedro diede l'acqua in tempo, e così ebbe la meravigliosa sposa che cercava, bianca - dice Basile - come il latte, la ricotta o una giuncata, e rossa come il sangue suo. Per portarla degnamente a palazzo, però, le disse di aspettare, nascosta di un albero, che andasse a prendere abiti degni di lei e organizzasse il corteo che scortasse la bella che stava per sposare. Ma una schiava nera, venuta ad attingere acqua per la sua padrona, vide nella fontana il riflesso della Bella, e credendo che fosse la sua immagine ruppe il recipiente, convinta di meritare ben altro che fare quel servizio. La Bella vedendo la scena rise, e la schiava, alzando lo sguardo, la vide, e dopo aver saputo perché era lassù fra i rami salì con la scusa di pettinarla, e le trafisse il capo con uno spillone. Ma la Bella fece in tempo a gridare "Palomma! Palomma!", e trasformatasi in colomba volò via. Quando tornò il principe col corteo rimase di sasso, ma la schiava gli spiegò il cambiamento dicendogli che per un anno era bianca e per un anno nera. Così il principe non poté far altro che sposarla. Ma mentre si preparava il sontuoso banchetto nuziale una colomba volò in cucina per tre volte e chiese al cuoco cosa facesse il re con la saracina. Quando il cuoco andò a riferirlo agli sposi, la saracina gli ordinò di tirare il collo alla colomba e metterla in pentola. Così fece il cuoco, e gettò l'acqua di cottura dalla finestra: con magica rapidità crebbe un cedro i cui rami presto raggiunsero la finestra della camera reale. Il re indagò su questa pianta sorprendente, e avendo saputo della colomba ordinò che nessuno toccasse la pianta. Quando vide tre cedri pendere dai rami dell'albero, prese il coltello che aveva ricevuto dall'orca, e di nuovo gli accadde come la prima volta: vide sparire le prime due fate, e dissetò la terza che rimase fra le sue braccia. Dopo aver costretto la saracina a confessare il suo inganno, il re la condannò a morte, e, sposata la bellissima creatura, visse con lei felice e contento.
Questa è la quarantanovesima fiaba del Cunto de li cunti, dove si racconta l'inganno di una brutta saracina ai danni di una meravigliosa fanciulla, che è lo stesso inganno della sposa che siede accanto al re della storia cornice della raccolta. La penultima fiaba coincide in parte con la fiaba delle fiabe, la storia de La Principessa di Vallepelosa, dalla quale scaturisce il bisogno di riunirsi per raccontare e ascoltare storie.
Questo affascinante dispositivo narrativo è una forma particolare di storia cornice, nella quale un personaggio non solo determina la necessità di ascoltare e raccontare storie, ma esce dalla cornice per raccontare l'ultima parte della propria storia, la cui prima parte figura all'inizio della raccolta stessa. Il cui finale torna nella cornice, chiudendola come finale sia della fiaba cornice, sia delle fiabe che la fiaba cornice ha indotto a raccontare. L'opera sembra una mise en abyme dell'intreccio fra eventi concreti e fantastici, impostura e verità, favola e storia. Questo rende insuperabile il capolavoro di Basile, perché a questa geniale e complessa cornice corrisponde in ogni fiaba un gioco di sensi differenti, dove il comico si mescola col lirico, l'amore struggente con i particolari scatologici, come ne Lo scarafaggio il topo e il grillo. Abbiamo già citato nella nota a questa fiaba, la prima azione bellica dello scarafaggio, musicista virtuoso, che d'accordo con gli altri animaletti di Nardiello, combatte lo sposo che ha preso il posto del suo padrone accanto alla principessa:

Lo scarafone, che 'ntese lo gronfiare de lo zito, se ne sagliette chiano chiano pe lo pede de la travacca e remorchiatose sotto coperta se 'nficcaie lesto lesto a lo tafanario de lo zito, servennolo de soppositario 'n forma tale che le spilaie de manera lo cuorpo, che potte dicere co lo Petrarca

        d'amor trasse inde un liquido sottile.

La zita, che 'ntese lo squacquarare de lo vesentierio,

        l'aura, l'odore, il refrigerio e l'ombra,

scetaie lo marito.
Appena lo scarafaggio sentì che il tedesco
russava, si arrampicò piano piano sulla gamba
del letto, avanzò sotto la coperta, si infilò lesto lesto nel didietro dello sposo, e servendogli da supposta
gli spillò dal corpo tanta roba che potè dire con
il Petrarca:

        d’amor trasse indi un liquido sottile.

La sposa, sentendo lo squacquerare dell’intestino,

        l’aura, l’odore, il refrigerio e l’ombra,

svegliò il marito.
 
(Lo scarafaggio, il topo e il grillo, e-book, pp. 58-61)

Fiaba dopo fiaba, come nella cornice, Basile ci invita a credere e a non credere, a tenere gli occhi ben aperti e a sognare, a vedere tre meravigliose fanciulle che appaiono dal taglio di tre cedri e si dissolvono se non ricevono da bere in tempo.
Per l'interpretazione di questa fiaba, rimandiamo a quanto abbiamo annotato a proposito de Il corvo e La ricotta bianca, limitandoci a ricordare che dal ripiegamento narcisistico dell'attante protagonista, che rifiuta ogni donna, succede un riflesso di sé che però lo spinge a partire, lasciando la sua fissazione. L'ideale rappresentato dalla Bella uscita dal cedro non può riportare all'orizzonte umano col quale la fiaba si conclude offrendoci il suo lieto fine, prima che il suo opposto - qui la schiava saracina - entri in scena, costringendo entrambi gli attanti protagonisti a lottare per realizzare il proprio desiderio.

Prima di lasciare I tre cedri, che nel nostro e-book contiene in appendice una versione nella lingua albanese di Sicilia, vogliamo ricordare che Carlo Gozzi adattò la fiaba di Basile per il teatro tradusse il principe misogino in un principe malato di melanconia a causa di una smodata passione per le tragedie. I suoi nemici a un certo punto tramano per ucciderlo di somministragli un'altra poesia tragica. Nella sua opera teatrale, intitolata L'amore delle tre melarance (prima rappresentazione a Venezia, 1761) Carlo Gozzi inserisce la fontana d'olio de La principessa di Vallepelosa, dove al posto della vecchietta si trova la Fata Morgana travestita da vecchia che, cadendo a gambe levate, mostra lo stesso spettacolo della vecchietta, lo stesso che nel mito di Demetra volle mostrare alla dea la vecchia Baubò. Come avevano riso la principessa di Vallepelosa, e la grande dea Demetra, il primcipe malato di melanconia scoppia a ridere e guarisce. Come nella fiaba cornice del Cunto de li cunti alla guarigione succede la partenza del principe, che otterrà la sua amata dalla terza melarancia. La sua rivale Morgana la trasforerà in un ratto, ma anche questo incantesimo sarà sciolto, e il principe sposerà la bellissima fanciulla (Il testo integrale de L'amore delle tre melarance è disponibile online,  http://www.classicitaliani.it/goldoni/gozzi01.htm, consultato il 31/08/16).

Sergej Prokof'ev, basandosi sull'opera di Carlo Gozzi, scrisse il libretto e compose la musica dell'opera L'amore delle tre melarance (Любовь к трём апельсинам, Ljubov k trëm apel'sinam) nel 1919, che andò in scena per la prima volta a Chicago nel 1921. (L'opera, in lingua inglese, prodotta da Richard Jones nel 1988 per Opera North, andata successivamente in scena all'English National Opera, alla New York City Opera e in altri teatri, è disponibile online; https://www.youtube.com/watch?v=GPGPP773zFY, consultato il 31/08/16).
Prokof'ev compose con lo stesso titolo una suite in sei movimenti, Op. 33bis (disponibile onoline, https://www.youtube.com/watch?v=o8TCEJy6P0g, consultato il 31/08/16)

Concludiamo con alcuni versi tratti dal Prologo recitato al pubblico, nel quale l'Autore polemizzava con i commediografi suoi contemporanei, che opprimevano le platee con opere seriose e tragiche:

Degli argomenti abbiamo per le mani.
Da far i vecchi diventar bambini,
I pazienti Genitori umani
Condurran certo i loro fantolini.
Non verranno i talenti sovrumani,
E pazienza avrem, chè già i quattrini
Non odoriam per sentir, se han fragranza,
O sappian di dottrina, o d’ignoranza.

D'inaspettati casi vederete
In questa sera un'abbondanza grande,
Maraviglie, che udite aver potete,
Ma non vedute dalle nostre bande.
E bestie, e porte, ed uccelli udirete
Parlare in versi, e meritar ghirlande,
E forse i versi saran Martelliani,
Acciò battiate volentier le mani.



Per le origini, i significati e le implicazioni dell'unione dei colori bianco (come neve, marmo, latte, ricotta) e rosso (sangue), accompagnati a volte dal nero (come il piumaggio del corvo, come l'ebano) vedi una Comparazione delle fiabe seguenti:
La principessa di Vallepelosa, storia cornice del Cunto de li cunti;
Il Corvo
(Cunto de li cunti);
I tre cedri  (Cunto de li cunti);
Biancaneve e i sette nani (Fratelli Grimm 1812);
La culumbena bianca, storia popolare raccolta in Romagna;
La fola di Bianca come neve rossa come sangue, storia popolare raccolta in Emilia,
Le ultime due fiabe, come la Comparazione, si trovano nel sito di Adalinda Gasparini Psicoanalisi e favole.

(AG)




    IngleseIl corvo
Fortezza della solitudine
Quadrante nord-est
Carta della fiaba


La ricotta bianca

Fortezza della solitudine
Quadrante nord-est
Carta della fiaba





















































































































































































































































La ricotta bianca, pubblicata nel 1931 da Letterio di Francia, che l'aveva raccolta da una narratrice popolare a Palmi, in Calabria, può essere considerata una variante popolare de Il corvo, pubblicata ne Lo cunto de li cunti di Basile trecento anni prima. Le due fiabe hanno come ingiunzione la Fortezza della solitudine, perché tutta la ricerca scaturisce dal fatto che il re, l'attante maschile protagonista, non ha inizialmente nessuna intenzione di sposarsi, e poi si innamora di una donna impossibile, la cui grande bellezza unisce il freddo bianco, il pallore, e il rosso, colore caldo del sangue.
La fiaba calabrese è un esempio del vasto e profondo influsso del Cunto nella tradizione popolare dell'Italia meridionale, e vale come testimonianza del passaggio della fiabe dalla letteratura colta a quella popolare. La fiaba è democratica, trova spazio per dispiegarsi sia fra i narratori orali che fra gli scrittori, e transita dagli uni agli altri senza dovere nulla alle gerarchie sociali e culturali.
L'attante protagonista è un re che vive col fratello minore. Non ci sono i genitori, che nel Corvo non sono nemmeno nominati. L'ingiunzione di queste fiabe è la Fortezza della solitudine anche per l'isolamento della coppia dei fratelli, talmente uniti che il minore agisce solo in funzione del desiderio del maggiore. L'assenza del padre e degli eredi, con le difficoltà e i rischi nella ricerca di una sposa ideale, può significare che il fratello maggiore, pur essendo il re, non desidera che la successione avvenga. Quando in una fiaba l'erede al trono rifiuta le nozze, preferendo la solitudine, è il padre a chiedergli di dare un erede al regno (vedi anche: I tre cedri, sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Il re dovrà sacrificare sia il fratello che i suoi bambini, prima che la fiaba possa trovare il suo lieto fine. La dominanza delle figure maschili permette di collocare l'ingiunzione nel quadrante nord-est.
Confrontando le due fiabe cercheremo di osservare sia ciò che ne fa due varianti della stessa storia, sia le loro differenze. È un metodo che richiede tempo e pazienza, ma può dare frutti altrimenti impossibili da cogliere. Difficilmente il confronto sarà utile per chi non abbia già letto le due fiabe, e una loro successiva rilettura permetterà di scoprire altre differenze e somiglianze.  Agli e-book delle fiabe si accede dalle loro Carte, che si aprono con un click rispettivamente sui due titoli.



CONFRONTO ANALITICO FRA IL CORVO E LA RICOTTA BIANCA

1. C'ERANO UNA VOLTA DUE FRATELLI...
Corvo
Ricotta bianca
Il re non pensava ad altro che alla caccia, trascurando perfino gli affari di stato.
I fratelli erano così uniti che mai fra loro c'era gelosia.
L'enfasi è posta nel Corvo sulla solitudine dell'attante protagonista, mentre nella Ricotta bianca si racconta del mutuo affetto che lo lega al fratello minore.

2. BIANCA COME IL MARMO, ROSSA COME IL SANGUE, NERA COME IL CORVO
Corvo
Ricotta bianca
Il re cacciando vede un corvo morto il cui sangue ha macchiato una pietra di marmo: immagina una sposa con i capelli corvini, la pelle bianca come il marmo e rossa come il sangue. Il marmo bianco per la sua freddezza - si dice: freddo come il marmo - e per essere il materiale delle lapidi, rimanda alla morte, come il cadavere del corvo.
Da quel momento il re non pensa ad altro che a questa immagine, "fisso come fosse una una statua di marmo che fa l'amore con un altro marmo".
Il fratello minore gli chiede come mai sia così triste e deperito, e venendo a sapere di che si tratta, promette di andare a cercargliela in tutto il mondo.
I due fratelli stanno mangiando una ricotta quando il re si taglia un dito e vedendo il sangue sul bianco della ricotta dice che sarebbe pronto a sposarsi se trovasse una sposa con quei colori.
Il fratello parte per cercagliela.







Il desiderio del re è una sposa evocata da immagini di morte, e infatti la sola donna con quei colori è figlia di un negromante e per averla il fratello minore diventerà di pietra, il re rischierà di morire, ucciderà i suoi figlioletti e porterà la sposa a desiderare la morte.
Al posto del bianco del gelido marmo, nella fiaba calabrese si trova una morbida ricotta, che rimanda al latte materno, mentre il nero è assente. La combinazione mescola rosso e bianco, sangue e cibo materno, e per quanto sia mitigata l'immagine di morte del Corvo, si allude sempre a una combinazione impossibile. Anche nella versione popolare il fratello minore dovrà diventare una statua di pietra per impedire che muoia il re, che dovrà sacrificare, per quanto temporaneamente, i suoi figlioletti.
I fratelli Grimm, che conoscevano bene il capolavoro di Basile, potrebbero aver avuto in mente la combinazione di colori che accende il desiderio del protagonista del Corvo scrivendo della regina che d'inverno desiderò una bambina bianca come la neve, rossa come il sangue e nera come l'ebano che incorniciava la finestra accanto alla quale ricamava. La morte sarebbe entrata anche nella loro fiaba, nella furia omicida della regina di fronte alla bellezza della figlia, che avrebbe fatto cadere Biancaneve come morta, per giacere inerte in una cassa di cristallo (vedi anche: La scatola di cristallo, versione popolare di Biancaneve)

3. DUE O TRE DONI PER IL FRATELLO MAGGIORE
Corvo
Ricotta bianca
Il fratello minore compra un bellissimo falcone e uno splendido cavallo da portare in dono al fratello maggiore.  L'acquisto dei doni per il fratello viene descritto ampiamente, e al posto del falcone troviamo un'aquila, di dimensioni tali che il re penserà di montarla per volare. Compare una spada meravigliosa come terzo dono, e ad ogni acquisto il fratello minore pensa che se non riuscirà a trovare la sposa che desidera il fratello potrà almeno dimostrargli il suo affetto con i tre doni. 
La mancanza del terzo dono nel Corvo è significativa, perché i due doni della versione antica vanno a soddisfare la sua maniacale passione per la caccia, mentre la spada, presente solo nella versione calabrese, simbolizza la potenza eroica del re. Una spada viene sguainata nella Ricotta bianca - una lama damaschina - dal fratello minore, che la estrae per uccidere il drago venuto a divorare il re e la regina nella prima notte di nozze. L'enfasi posta nella fiaba calabrese sull'affetto del minore per il fratello maggiore, e il terzo dono, la spada meravigliosa, attribuiscono al re una potenza regale; a differenza del suo omologo nel Corvo. Il re della Ricotta bianca saprà trovare il modo di rendere la vita al fratello sacrificando i suoi bambini per poi riportarli in vita. Usando un'altra sua arma, la doppietta, il re ucciderà i suoceri draghi, che in forma di palombi gli avranno involontariamente svelato i loro segreti. Nel Corvo, dove il re non riceve il dono della spada, la storia finirebbe in tragedia se non giungesse il padre negromante della sua sposa.

4. L'AIUTANTE MENDICANTE
Corvo
Ricotta bianca
Il fratello minore non trova né sa dove cercare la sposa ideale per il fratello re, e respinge con arroganza il pezzente che gli chiede come mai sia così avvilito. L'uomo lo ammonisce ricordandogli che da chi ha un misero aspetto può venire un aiuto decisivo: "Piano, mio bel signore - replicò il pezzente -, che la carne dell'uomo non si valuta a peso! se Dario non avesse raccontato i suoi guai a un mozzo di stalla non sarebbe diventato il padrone della Persia. Non ci sarebbe quindi nulla di strano se raccontassi la tua storia a un povero pezzente, perché non c'è steccolo tanto sottile che non possa essere utile per pulirsi i denti".
Sentendo la coerenza logica del discorso del mendicante il principe gli racconta quel che cerca e accetta il suo aiuto.

L'aiutante è una mendicante alla quale il principe fa la carità nonostante sia disperato e abbia finito i suoi soldi. Così la vecchia lo porterà dove si trova la sposa ideale.
Il vecchio straccione nel Corvo ammonisce il fratello minore a non valutare gli esseri umani in base al loro aspetto, introducendo così una dimensione etica che è poco comune nelle fiabe. Anche alla fine della fiaba troveremo un registro tragico tutt'altro che consueto, e il padre negromante senza il quale nessun finale felice sarebbe possibile ammonirà con lieve ironia tutti gli attanti, imponendo una legge paterna che nessuno di loro sembra conoscere.
In una fiaba dove il maschile è isolato la presenza di un'aiutante femminile mitiga questo isolamento. Anche questo particolare è coerente con il tratto meno tragico della Ricotta bianca.

5. LA FUGA CON LA BELLA
Corvo
Ricotta bianca
Il fratello minore si presenta alla bella fingendosi un mercante di merletti e gioielli, e dapprima la fanciulla non vorrebbe farlo entrare perché non c'è suo padre. Sempre con l'inganno il principe l'attrae poi sulla sua nave e salpa a tradimento; durante il viaggio la convince che sarà felice sposando il re suo fratello. 
La vecchia aiutante dice la verità alla Bella, che organizza la fuga d'accordo col principe, ingannando i genitori draghi che le impedirebbero di partire.
All'alleanza con la vecchia mendicante segue nella Ricotta bianca l'alleanza con la futura sposa, che agisce seguendo il proprio desiderio contro la volontà dei genitori. La bella del Corvo si lascia portare, e il re suo sposo non si preoccuperà di lei sacrificando i loro due neonati. L'attante protagonista femminile che non esprimendo un desiderio si modella in funzione del desiderio di un altro, sarebbe destinata alla morte, come il fratello minore del re. Solo l'attante protagonista, il re nella versione calabrese, può riparare ai danni fatti a causa della sua fissazione a un'immagine ideale che unisce vita e morte. Se non ne è capace, lo dovrà farà al suo posto la figura paterna del negromante, che in questa fiaba è il solo rappresentante della potenza maschile volta alla vita.

6. CURRUCUTUCÙ! CHI SENTE E PARLERÀ, STATUA DI MARMO DIVENTERÀ!
Corvo
Ricotta bianca
Mentre il fratello minore del re e la sua futura sposa viaggiano per mare, si scatena una tempesta e una coppia di palombi si posa sull'antenna della nave. Il palombo si lamenta col suo triste verso, e la palomba per tre volte gli chiede cos'abbia. La prima volta il palombo risponde dicendo che il povero principe non sa che appena darà il falcone al re, l'uccello gli caverà gli occhi, e chi non glielo darà o lo avvertirà del pericolo si trasformerà in una pietra di marmo. La seconda volta risponde ancora compiangendo il principe, perché diventerà statua di marmo se dirà al re che appena monterà sul cavallo che gli porta in dono si romperà l'osso del collo. La terza volta il palombo svela che altri guai sono in arrivo, perché la prima notte di nozze il re e la figlia del negromante saranno divorati da un drago. Anche in questo caso il fratello minore non può avvertire il re né evitare di consegnargli la sposa, pena la sua trasformazione in pietra di marmo.
Appena i palombi hanno finito di parlare, la tempesta cessa.
Il viaggio di ritorno per mare del fratello e della bella sposa avviene in un mare calmo, e a un certo punto si posano sull'antenna del bastimento due piccioni, che sono i due genitori draghi della protagonista.
Currucutucù, Currucutucù, Currucutucù! Così piange la mamma draga, e il piccione suo marito gliene chiede la ragione. Per quattro volte risponde lamentando il rapimento della figlia e lanciando maledizioni: la prima dice che appena la figlia toccherà l'acqua sarà rapita dalla sirena del mare; la seconda dice che il re si azzopperà appena monterà sul cavallo che gli dona il fratello, la terza che appena impugnerà la spada si trafiggerà, la quarta che appena monterà sull'aquila l'uccello lo accecherà. E chi sente e parlerà, statua di marmo diventerà.
La prima maledizione, presente solo nella Ricotta bianca, si riferisce alla sirena del mare, rapitrice di belle fanciulle anche in Fiore e Gambodifiore. Nel Corvo invece si trova la maledizione finale, per la quale un drago divorerà i due sposi la prima notte di nozze, che manca completamente nella versione calabrese. In questo caso possiamo affermare che si tratta di una lacuna, che prova come la fiaba popolare raccolta nel 1931 derivi da un originale che contiene la maledizione del drago, una versione più vicina a quella di Basile. Questa ipotesi consente di spiegare l'episodio del drago divoratore la prima notte di nozze del re anche nella Ricotta bianca, rischio mortale di cui il fratello minore è a conoscenza, visto che si nasconde dietro al letto degli sposi per proteggerli. Un'ulteriore conferma di questa lacuna è data dalle spoglie del drago, che il fratello minore porta in cucina perché i due sposi non si spaventino, ma delle quali non si dice più nulla. Come in un film una pistola, se viene inquadrata, prima della fine del film spara, così nelle fiabe le spoglie del drago, o parti del suo corpo, tornano prima o poi nel racconto. Nella Ricotta bianca la mamma draga palomba non aggiunge inoltre al termine delle sue maledizioni l'ultimo avvertimento del palombo suo omologo della versione secentesca, che diventerà di marmo non solo chi parlerà, ma anche chi non consegnerà al re i doni maledetti.
Le maledizioni sono scagliate nella versione calabrese dalla madre della sposa, nella versione secentesca dal padre; per la terza volta l'elemento femminile ha maggiore spazio nella Ricotta bianca, mitigando, con la sua presenza e la sua azione, la chiusura maschile della coppia dei due fratelli.

A questo punto occorre precisare che non proponiamo questa analisi comparata per il piacere di diffonderci sui dettagli, ma per offrire un esempio del nostro metodo, che si potrebbe definire psico-filologico. Esso ci permette di comprendere qualcosa sulla migrazione di storie fra culture e secoli diversi. In questo caso abbiamo pensato di evidenziare come una fiaba popolare, narrata a uno studioso da una narratrice orale in Calabria nel 1931, sia debitrice di una fiaba appartenente al capolavoro letterario di Giambattista Basile, Lo cunto de li cunti, pubblicato a Napoli tre secoli prima. Sono le lacune a dirci di questa parentela.

7. I DONI MALEDETTI
Corvo
Ricotta bianca
Il re è felice per la sposa, che è identica all'immagine che porta in cuore, e riconosce l'affetto del fratello vedendo il falcone e il cavallo, ma il fratello minore decapita il falcone appena il re lo prende in mano, e taglia le gambe al cavallo quando il re si appresta a cavalcarlo.
Non per intercessione della sposa, ma per non turbarla e non rovinare le feste nuziali, il re non punisce il fratello.
Il fratello minore fa costruire un ponte di legno per non far toccare l'acqua alla sposa che reca al fratello. Il re trova magnifica la sposa e gradisce i doni. Per evitare danni al re il fratello minore uccide il cavallo, rompe la spada e spara all'aquila. Il re si indispettisce e vorrebbe far arrestare il fratello minore, ma la sposa lo convince a usargli clemenza.
Troviamo nella Ricotta bianca la sposa che intercede per il principe suo cognato quando il re, irritato per l'uccisione dell'aquila e del cavallo e per la spada spezzata, vorrebbe farlo arrestare. Il motivo dei doni ha maggiore spazio ne La ricotta bianca, sia quando vengono acquistati sia quando vengono consegnati al re. Qui è l'attante femminile ad agire trattenendo il re, nel Corvo invece il re risparmia il fratello non per affetto, ma per non rovinare la festa e non turbare la sposa.
Come nell'immagine della sposa ideale morte e vita erano compresenti, così sono uniti dono e danno, perché i doni meravigliosi, che avrebbero dovuto far felice il re, ne provocherebbero la morte. Il fratello del re in entrambe le versioni per difendere il fratello dal suo destino di morte accetterà di morire per lui.

8. NOTTE DI NOZZE CON DRAGO
Corvo
Ricotta bianca
Il fratello minore, nascosto dietro al letto nuziale, si prepara a difendere gli ignari sposi dal drago che verrà per divorarli, e grazie alla sua lama damaschina lo mette in fuga. Ma per il clamore dello scontro il re si sveglia, chiama le guardie e lo fa arrestare credendo che volesse ucciderlo.
Come abbiamo già osservato, manca la maledizione del drago divoratore, ma anche qui il fratello minore si nasconde nella camera nuziale e mentre gli ignari sposi dormono uccide il drago dalle sette teste e ne porta le spoglie in cucina. Il re vedendolo con la spada sguainata crede che voglia ucciderlo e lo condanna a morte.
Come abbiamo osservato al punto 6, il drago viene a divorare la coppia regale nella Ricotta bianca, senza che questa maledizione sia stata scagliata dalla mamma draga, mentre il fratello minore ne è a conoscenza. All'esistenza della lacuna potrebbe corrispondere la vistosa incoerenza logica, quella per la quale le spoglie del drago serpente dalle sette teste vengono portate dal fratello minore in cucina, per non turbare gli sposi. Quando in una fiaba si uccide un drago, le parti del suo corpo servono al suo uccisore come prova, quando altri ne vantano l'impresa. La variazione irrealistica di dimensioni delle creature, le loro metamorfosi, le accellerazioni o i rallentamenti paradossali del tempo nelle fiabe hanno una ragione, come nei sogni notturni, perché il dominio del fantastico è retto da leggi diverse, ma non meno rigorose di quelle che reggono la realtà quotidiana.

9. IL FRATELLO MINORE DIVENTA UNA STATUA DI MARMO
Corvo
Ricotta bianca
Il re condanna a morte il fratello, e quando la sposa gli chiede di fargli grazia la accusa di voler più bene al fratello che a lui stesso. Il principe, per non morire da colpevole, chiede udienza al fratello e gli racconta tutta la storia, diventando di pietra pezzo per pezzo, a partire dai piedi. Nel contesto tragico-fiabesco Basile inserisce un particolare salace, quando il fratello minore "...se fece vedentemente de preta fi' a la centura, 'ntostanno miseramente, cosa c'ad autro tiempo averria pagato a denaro contante e mo ne le chiagneva lo core".
Il fratello minore parla quando è già sulla ghigliottina, e il suo racconto viene interrotto dalla metamorfosi in statua. Ma quel che ha raccontato basta a mostrare l'ingiustizia della sua condanna al re, che porta la statua a palazzo, la mette in un armadio, e gli accende ogni giorno le candele, come se si trattasse di un santo.
Il fratello minore nel Corvo diventa statua, preta marmora, scrive Basile, come era petra marmora quella sulla quale il re aveva visto il corvo morto. La stessa fissazione, che lo aveva preso per la donna che aveva immaginato a partire da quella mescolanza fra vita e morte, lo prende ora per la statua del fratello, nella quale sono uniti l'amore per lui, che si è sacrificato per salvarlo, e la sua crudeltà, che ne ha provocato la morte.
Nella Ricotta bianca sono ugualmente presenti la condanna, la pietrificazione e la disperazione del re, che venera il fratello come un santo.

10. IL SACRIFICIO DI SANGUE
Corvo
Ricotta bianca
Passa un anno e la sposa dà alla luce una coppia di gemelli maschi. Pochi mesi dopo, mentre la regina si è recata in campagna, e il re piange e rimira la statua, arriva un vecchione che gli chiede quanto sarebbe disposto a pagare per far tornare in vita il fratello. Il re si dichiara pronto a cedere tutto il suo regno, ma il vecchio gli dice che non si compra una vita se non con con la vita: se vuole rianimare il fratello deve bagnarlo col sangue dei suoi figlioletti neonati. Affermando che i bambini si possono rifare mentre non c'è modo di riavere un fratello, il re li uccide. Il fratello così torna in vita, ma quando la regina torna a casa e scopre che il re suo sposo ha ucciso i loro bambini prova un dolore così grande che decide di morire per raggiungerli. Il toccante discorso della figlia del negromante ha un registro più tragico che fiabesco, e solo l'apparizione di suo padre, vero e proprio deus ex machina, ferma la tragedia e magicamente consente un finale felice.
Il re armato di doppietta si reca a caccia, e mentre siede sotto un albero sente due palombi che parlano fra loro. Sono i genitori draghi della sua sposa che commentano le ultime vicende, e svelano come il fratello minore possa tornare in vita col sangue dei bambini appena nati, aggiungendo però che i bambini tornerebbero in vita se fossero unti con i loro fegatini cotti nell'olio. Senza metter tempo in mezzo il re con due colpi uccide i due uccelli e ne prende i fegatini. Poi allontana la regina assicurandole che penserà lui ai loro bambini. Li uccide "con mano tremante", mentre nel Corvo il re non manifesta alcuna emozione, rianima il fratello, e mentre questo si riprende corre a friggere i fegatini con i quali unge i suoi discendenti, che rivivono più belli di prima. Alla sposa risparmia la morte temporanea dei loro figlioletti, e al culmine della gioia tutti gli attanti fanno festa.
Come il re del Corvo all'inizio pensava solo alla caccia e trascurava gli affari del regno, così dopo aver visto il corvo morto sulla petra marmora la sua mente era dominata dall'immagine della sposa ideale tanto che suo fratello, vedendolo smagrito e pallido, partiva per cercargliela. Ora passa tutto il tempo a piangere e rimirare la statua nella quale si è trasformato per salvarlo, ed è pronto sia a dare via il suo regno per il fratello, sia a uccidere senza esitazione i suoi due gemelli appena nati. L'attante protagonista del Corvo non solo non asseconda il flusso della vita, ma elimina i suoi discendenti e porta a desiderare il suicidio la sposa con laquale ocntavadi farne altri. Alla loro madre spetterà in esclusiva mettere in scena l'orrore per questo inaccettabile sacrificio, col quale il re aveva pensato di cancellare la sua colpa senza conseguenze. L'incapacità dell'attante protagonista di uscire dalla sua fissazione al proprio ideale ha causato prima la pietrificazione del fratello, poi la morte dei suoi discendenti maschi. Causerebbe anche il suicidio della sposa se non intervenisse come deus ex machina il padre negromante, che agisce come un mago benefico. Si può osservare un'analogia con Prospero, che nella Tempesta usa la magia per correggere gli errori e le ingiustizie commesse dal fratello usurpatore, consentendo nozze regali alla figlia Miranda, ingenua e innocente come la figlia del negromante. Shakespeare scrisse La tempesta fra il 1610 e il 1611, mentre Lo cunto de li cunti fu pubblicato postumo fra il 1632 e il 1634. Non abbiamo elementi per ipotizzare che Basile potesse conoscere Shakespeare, né che entrambi attingessero da un comune motivo preesistente. Poteva circolare in Europa la storia di un padre mago che agiva per proteggere se stesso e la figlia bella e innocente, punendo duramente i responsabili dei torti inflitti a lui e a sua figlia, per poi perdonarli magnanimemente e ripristinare la giustizia. Un elemento del Corvo che rimanderebbe all'opera di Shakespeare è la violenta tempesta, che comincia e finisce come per incanto, durante la quale il fratello minore sente la coppia di palombi che lo compiangono e rivelano le terribili maledizioni connesse al falcone, al cavallo e alla sposa.
Una relazione fra La tempesta e Lo cunto de li cunti di Basile è stata ipotizzata da W.W. Newell, "Sources of Shakespeare Tempest", in The Journal of American Folklore; Vo. 16, No. 63, Oct. - Dec. 1903, pp. 234-257 (disponibile nel sito Internet Archive, https://archive.org/details/jstor-533373; consultato il 09/06/16). La fiaba di Basile  che l'Autore accosta all'opera di Shakespeare è in particolare La Palomma (Trattenemiento settimo de la iornata secunna; disponibile online: Lo cunto de li cunti 1995, pp. 170-181)).

Le fiabe, analizzate con passione e attenzione invitano a grandi viaggi, che come quelli degli attanti fiabeschi permettono di attraversare in un batter d'occhio grandi distanze di tempo e di spazio.
Continuando a viaggiare, passiamo dal Seicento di Shakespeare e Basile al Novecento di Eduardo de Filippo, che nel 1983 tradusse La Tempesta proprio nel napoletano secentesco (vedi anche: Annamaria Sapienza, "Dalla scena elisabettiana al teatro di figura: la Tempesta di Shakespeare nella traduzione di Eduardo de Filippo", in Testi e linguaggi. Rivista di studi letterari, linguistici e filologici dell'Università di Salerno; 7/2013; pp. 363-372; pdf online; consultato il 09/06/16). Scegliendo questa opera per il suo ultimo lavoro, Eduardo ne sottolineò il significato etico, lo stesso enunciato nel finale sia dal mago Prospero che dal padre negromante del Corvo. Entrambi hanno subito gravi ingiustizie e hanno sofferto, ma dopo aver punito i nemici facendo loro sperimentare terribili pene, e aver mostrato loro le conseguenze delle loro male azioni, li perdonano. Il padre negromante potrebbe rappresentare Basile stesso, l'autore onnisciente, che almeno nelle sue fiabe può infliggere pene, ripristinare la giustizia e infine perdonare in un abbraccio tutti gli attanti. L'ipotesi di una identificazione di Shakespeare - e di Eduardo de Filippo - col mago Prospero è già stata autorevolmente avanzata.
Ci pare di sentire la voce di Basile nel discorso finale di un altro attante fiabesco, altrettanto vecchio e saggio, nella fiaba I sette piccioncini. Un vecchio pellegrino prima di morire insegna all'attante protagonista come entrare nella Casa del Tempo, rivolgendosi a lei così: Ora siente buono, bella figlia mia senza peccato: agge da sapere... (e-book, p. 74)

Dal Corvo torniamo ora per l'ultima volta alla Ricotta bianca, passando dalla letteratura colta a quella popolare, per osservare che se la fiaba popolare perde qualcosa - nella lacuna relativa alla maledizione del drago divoratore - inserisce però elementi che hanno effetto sul finale, dove il re è attivo e rimedia personalmente ai danni che ha provocato, per quanto involontariamente.
La narratrice di Palmi conclude il suo racconto legandolo senza soluzione di continuità alla scena nella quale lei racconta e Letterio di Francia la ascolta per salvare la sua storia e farla arrivare fino a noi. Racconta che il re, la regina e il fratello minore erano finalmente felici, e a mezzogiorno andarono a pranzo. Pe iddi la campana, ddu jornu, sonava a festa, e adessu stavi sonandu pe nui, mi finimu la fàula e mi jamu a mangiari chiddu chi trovamu. (Per loro la campana, quel giorno, suonava a festa, e ora sta suonando per noi, che finiamo la favola e andiamo a mangiare quel che c'è).

Dobbiamo ammettere che questa nota ci ha preso la mano, perché proponendoci di far emergere il senso di questa fiaba dal confronto delle due varianti non avevamo in mente di accostare La Tempesta di Shakespeare al Corvo di Basile, né avevamo pensato che il suono delle campane che conclude la narrazione calabrese ci facesse tornare alla mente le campane di Roma che suonano da sole all'inizio de L'eletto di Thomas Mann.
Un nesso di senso ci si è imposto  con tale forza che non possiamo non proporlo, sperando che chi ha avuto la pazienza di leggere la nostra nota fino a questo punto possa gustarlo e trarne piacere. Il nostro interesse dipende anche dal fatto che il protagonista del romanzo tedesco è un omologo di Edipo, di nome Gregorio, di cui racconta un importante testo tedesco del XIII secolo, rinarrato e rimaneggiato in molte forme anche nella letteratura italiana. L'eroe tragico greco per eccellenza, figura di prima e insuperabile grandezza nella mitologia psicoanalitica, diventa Gregorio nella leggenda medievale. Nasce da un fratello e da una sorella incestuosi, che alla nascita lo abbandonano alle acque e viene cresciuto in un convento, dal quale poi parte per cercare i suoi veri genitori. Valente eroe, difende con le armi una nobildonna e la sposa, per poi scoprire che si tratta di sua madre. A questo punto decide di espiare la terribile colpa della quale, per quanto involontariamente, si è macchiato. Dopo sette anni a Roma non si riesce ad eleggere il papa, e due cardinali sognano che devono partire verso il nord per trovare il penitente destinato al soglio pontificio. Le storie medievali di Gregorio mostrano che anche Edipo, colpevole involontario, se si pente, può non solo ottenere il perdono, ma diventare un santo papa. (Per alcune versioni medievali della leggenda di Gregorio, vedi anche:  Edipo Giuda, Edipo papa, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole).
Thomas Mann, insieme a Romain Rolland, Jules Romains, H.G. Wells, Virginia Woolf e Stefan Zweig, aveva scritto nel 1936 un augurio per l'ottantesimo compleanno di Sigmund Freud, the Master whose discoveries have opened up the way to a new and profounder understanding of mankind (il maestro le cui scoperte hanno aperto la via di una nuova e più profonda comprensione del genere umano). La potente mitologia psicoanalitica - parole di Wittgenstein - offerta da Freud al genere umano ha al suo centro l'incestuoso Edipo, come l'ultimo romanzo di Thomas Mann ha come protagonista l'incestuoso Gregorio.
Alla fine della storia, quando Gregorio arriva a Roma per essere consacrato papa, tutte le campane della città cominciano a suonare da sole. A partire da questo suono magico comincia a raccontare un monaco irlandese che non a caso si chiama Clemente, voce narrante creata da Thomas Mann. Con le sue parole celebriamo lo spirito del racconto, lo stesso della fiaba e del romanzo, che ha la sua patria ovunque, nel tempo e nello spazio. Si può sentire anche nelle nostre storie quotidiane.
Chi suona le campane? Non i campanari. Anch’essi come tutto il popolo sono accorsi sulla strada chiamati da quello scampanare misterioso e immenso. Persuadetevi: le celle campanarie sono vuote. Inerti pendono le funi, e tuttavia le campane ondeggiano e sbattagliano. Si dirà forse che nessuno le suona? No, solo una testa ignara di grammatica e di logica potrebbe affermare una cosa simile. "Le campane suonano" vuol dire: vengono suonate, anche se tutte le celle campanarie sono vuote. - Chi dunque suona le campane di Roma? - Lo spirito della narrazione. - Può dunque egli essere da per tutto, hic et ubique, può, per esempio, essere nello stesso tempo sulla torre di S. Giorgio in Velabro e lassù a Santa Sabina, che conserva ancora le colonne dell’esecrabile tempio di Diana? Può suonare nello stesso tempo in cento luoghi sacri? - Certo, lo può. È aereo, incorporeo, onnipresente, non legato allo spazio, non soggetto alle differenze del Qui e Là. È lui che dice: «Tutte le campane suonano» e di conseguenza è lui che le suona. Così spirituale è questo spirito e così astratto che di lui, grammaticalmente, si può parlare solo nella terza persona e si può dire solo: «Egli è». Ma questo "Egli" può anche raccogliersi in una persona e cioè nella prima, e impersonarsi in qualcuno che in essa parla e dice: «Sono io. Io sono lo spirito della narrazione che, seduto là dove ora mi trovo, e precisamente nella biblioteca del chiostro di S. Gallo, in terra alemanna, dove una volta sedeva Notkero il balbuziente, racconto questa storia per divertimento e straordinaria edificazione e comincio dalla sua fine gloriosamente santa e suono le campane di Roma, id est, racconto che in quel giorno dell’ingresso tutte le campane cominciarono a suonar da se stesse». ...

E come del resto, mentre si è in procinto di narrare o di rinnovare (perché già raccontata e perfino più volte, anche se insufficientemente) una storia tutta piena degli orrori del corpo e che offre una prova terribile di tutto ciò a cui esso senza ribellarsi si abbandona, come si potrebbe esser disposti a menar gran vanto di essere un’incarnazione?
No, lo spirito della narrazione incarnatosi nella mia persona, in me, monaco, detto Clemente l’irlandese, ha conservato molto di quell’astrattezza che lo rende capace di suonare nello stesso tempo da tutte le basiliche titolari dell’urbe. ...

Se alcuno, per malizia o per celia, mi domandi: Sai tu forse, pur sapendo il luogo dove sei, anche il tempo in cui scrivi? gli risponderei benevolmente: Non c’è nulla da sapere, perché impersonando io lo spirito della narrazione godo di quell’astrattezza, a dimostrar la quale darò ora la seconda prova.
Io sono infatti qui e mi accingo a narrare una storia orribile e nello stesso tempo altamente edificante. È del tutto incerto in quale lingua io scriva, se in latino, francese, tedesco o anglosassone, e non importa nemmeno saperlo...

Non affermo affatto di aver la padronanza di tutte le lingue ma esse, mentre scrivo, confluiscono nella mia penna e diventano una cosa sola: la lingua. Lo spirito della narrazione, è uno spirito libero da ogni vincolo fino all’astrazione, il suo mezzo è la lingua di per sé, che da sé si pone come assoluta, e poco si cura dei diversi idiomi e degli dèi locali delle lingue. Ciò sarebbe politeista e pagano. Dio è spirito, e sopra le lingue è la Lingua.
(Grassetto nostro)
(AG)

Per le origini, i significati e le implicazioni dell'unione dei colori bianco (come neve, marmo, latte, ricotta) e rosso (sangue), accompagnati a volte dal nero (come il piumaggio del corvo, come l'ebano) vedi una Comparazione delle fiabe seguenti:
La principessa di Vallepelosa, storia cornice del Cunto de li cunti;
Il Corvo
(Cunto de li cunti);
I tre cedri  (Cunto de li cunti);
Biancaneve e i sette nani (Fratelli Grimm 1812);
La culumbena bianca, storia popolare raccolta in Romagna;
La fola di Bianca come neve rossa come sangue, storia popolare raccolta in Emilia,
Le ultime due fiabe, come la Comparazione, si trovano nel sito di Adalinda Gasparini Psicoanalisi e favole.









































Inglese7. Favole e...


7.1
Fiabe
7.2
Incantesimo

7.3
Geografia
7.4
Religione

7.5
Scienza

7.6
Storia

7.7
Letteratura

7.8
Linguistica

7.9
Educazione

7.10
ATU

7.11
Psicoanalisi





Definizioni e-book


IngleseParole per "Fiaba" in Europa oggi



Inglese7.1 Favole e Fiabe

Adunque, acciò che in parte per me s’ammendi il peccato della fortuna, la quale dove meno era di forza, sì come noi nelle dilicate donne veggiamo, quivi più avara fu di sostegno, in soccorso e rifugio di quelle che amano, perciò che all’altre è assai l’ago e ’l fuso e l’arcolaio, intendo di raccontare cento novelle, o favole, o parabole, o storie, che dir le vogliamo, raccontate in diece giorni da una onesta brigata di sette donne e tre giovani nel pistelenzioso tempo della passata mortalità fatta, e alcune canzonette dalle predette donne cantate a lor dialetto.
(Boccaccio, Decameron, Proemio; grassetto nostro)










La parola conte de fées fu coniata in Francia ai tempi del Re Sole, dopo che Perrault aveva scritto Les contes de ma mère l’Oye, quando tante nobili dame dopo di lui composero altre raccolte, che dall’inizio del secolo diciannovesimo concorsero a formare Le Cabinet des Fées. Madame d’Aulnois, precisamente, chiamò Contes de fées la sua raccolta, pubblicata nel 1698 e tradotta in inglese nel 1699. L’inglese fairy tale è un calco sul termine francese, come le parole che denominano questo genere in Irlandese e nelle lingue della penisola iberica. In tutte le altre lingue europee il termine che indica la fiaba, risale alla formazione di ciascuna lingua nazionale, a sua volta tratta dalla lingua antica dalla quale deriva, come l’italiano fiaba, sinonimo di favola (dal latino fabula). Sia fiaba che favola sono parole attestate fin dal secolo XIV, con lo stesso significato (vedi Definizioni, pp. 16-22). La parola latina fabula, dal verbo fari, derivato dal greco φημί (femí), che significa dico ed è connesso a φωνή (foné), voce. Questa famiglia di parole corrisponde all’ipotetica radice indoeuropea bhã-(dhlã), e all’accadico , (: bocca) e wabãlu il cui senso è parlare (vedi Definizioni, pp. 11-12). Quindi fiaba e favola hanno la stessa origine di parola, parlare, dire, e anche le lingue che designano le fiabe con calchi sul francese contes de fées mantengono in molti casi termini appartenenti a questa famiglia di origine latina e greca. Anche le lingue europee lontane dal latino denominano le fiabe con parole che si riferiscono a una famiglia di cui fanno parte parole come dire, raccontare, parola, bocca, voce.
Emettere suoni con la bocca, parlare, raccontare, e fiaba, favola (inglese e francese fable)  sarebbero espressioni della stessa attitudine e dello stesso bisogno umano. Analogamente la parola greca μũθος (mýthos), significava racconto, parola, discorso, e la sua presenza nelle lingue contemporanee è direttamente proporzionale alla stupefacente importanza delle storie raccontate dalla Grecia classica – che era in Italia Magna Grecia – nella formazione delle strutture e dei motivi narrativi non solo europei. Per citare solo le lingue più diffuse, ricordiamo lo spagnolo mito, il francese mythe, l’inglese myth e il tedesco Mythos.

I latini chiamavano fabulae tutti i racconti che, come i mýthoi greci, costituivano un insieme immenso, che comprendeva ogni tipo di storia, tranne le storie considerate vere, o perché rivelate da Dio, quelle religiose, o perché aderenti alle vicende effettivamente accadute (la storia), o perché scientificamente dimostrate. Però i confini fra favole e non-favole sono facili da varcare per i racconti, che nel tempo passano da un insieme all’altro, impercettibilmente o provocando traumi collettivi. Pensiamo, ad esempio, al passaggio dal sistema tolemaico a quello copernicano e alla teoria dell’evoluzione di Darwin (vedi anche: Favole e religione, Favole e scienza, Favole e storia).
 
In italiano fiaba corrisponde oggi a fairy tale e conte des fées, mentre favola, come fable in inglese e in francese, designa gli apologhi, i cui primi esempi risalgono a Esopo e Fedro. Ma favola e fiaba valgono tuttora come sinonimi nel linguaggio comune, e se un bambino chiede una fiaba o una favola, intende e ottiene lo stesso tipo di racconto. Le fiabe possono inoltre chiamarsi ancora novelle in Toscana, o racconti, come nel film di Matteo Garrone Il Racconto dei Racconti, tratto da Lo cunto de li cunti (Italia-Francia 2015; vedi anche: La cerva fatata).

Il francese e l’inglese hanno, come si diceva, fin dall’inizio del Settecento una parola per quel genere di storie che in Italia erano state pubblicate per la prima volta un secolo e mezzo prima, con Giovan Francesco Straparola a Venezia, e italiana, con Giambattista Basile, è la prima, e forse ancora la più bella, raccolta di fiabe del mondo, pubblicata a Napoli mezzo secolo prima che Perrault cominciasse la grande avventura delle fiabe francesi. Dovrebbe essere inutile ricordare che Perrault e le narratrici del Cabinet de fées, come i Fratelli Grimm oltre un secolo più tardi, attinsero largamente a Lo cunto de li cunti di Basile, ma si trova ancora scritta in vari siti, ed è convinzione comune, che le fiabe le abbiano raccolte e scritte per primi Perrault e i Grimm.

Tornando alla parola fiaba, è solo dalla metà del XIX secolo che cessa di essere sinonimo di favola per corrispondere a fairy tale (vedi Definizioni, pp. 23-25), e si chiamano fiabe le sessantasei storie raccolte in Fabulando. Ma a livello popolare la distinzione fra fiaba e favola, come dicevamo, è praticamente inesistente, e in Toscana, patria del Boccaccio, si continuano a chiamare anche novelle.
Notiamo infine che le denominazioni che traducono il francese conte des fées qualificano questi racconti con le fate, che però sono presenti solo in una parte delle fiabe: prendendo ad esempio sessantasei di Fabulando, le fate appaiono solo in dodici fiabe.
La labilità dei confini fra fiaba, mito e favola, come la loro molteplicità di sensi, testimonia la complessità del genere, che mostra una sovrana neutralità nei confronti dei diversi metodi adottati dagli studiosi per classificarle o interpretarle. Si lasciano facilmente usare per avvalorare qualunque stile di ricerca, ma sfuggono in un batter d’occhio alla presa di chiunque creda di padroneggiare il loro senso e la loro struttura.

Il tipo di racconto designato dalla parola fiaba ha un carattere unitario che può tollerare designazioni particolari per i suoi diversi tipi, senza però perdere il proprio significato generale, come se fosse impossibile da ordinare stabilmente. Come in un frattale, ogni suo termine particolare derivante dall’antico insieme latino fabula, una volta distinto dalla matrice, può designare sia il vero, possibile e desiderabile, che il falso, da scartare, deprecabile. In ogni dizionario si può riscontrare la presenza, costante nel tempo, delle connotazioni di vero e falso nelle definizioni di parole come favola, fiaba e mito. Nel linguaggio comune mitico e favoloso sono termine usati come aggettivi per connotare qualcosa di molto apprezzabile, ma si dice anche non è altro che una favola, è solo un mito, di qualcosa che per una irreversibile disillusione ha perso ogni attrattiva, insieme alla sua presa sulla realtà.
Può apparire paradossale che in francese e in inglese, come nelle lingue della penisola iberica, esista un termine specifico per le fiabe già dall’inizio del XVIII secolo, mentre in italiano si definisce lo stesso genere narrativo con un secolo e mezzo di ritardo, se pensiamo che l’Italia aveva pubblicato fiabe con un secolo e mezzo di anticipo rispetto a quei paesi. La permanenza in italiano di molte parole usate come sinonimi per le fiabe potrebbe dipendere proprio dalla matrice italiana di tante novelle, o favole, o parabole, o storie, che dir le vogliamo (Boccaccio, in esergo), a sua volta legata al patrimonio narrativo italiano, popolare e colto.
L’affermarsi del termine fiaba col senso ristretto di fairy-tale e conte de fées potrebbe dipendere dalla posizione culturale dominante assunto in Europa dalle culture francese e inglese nell’Ottocento. Il ritardo col quale l’Italia si è costituita come stato nazionale ha fatto sì che la maggioranza degli italiani si esprimesse quasi esclusivamente nei diversi dialetti fino alla prima metà del secolo XIX. È così che si è mantenuto e arricchito quel ricchissimo patrimonio di racconti popolari che gli studiosi hanno raccolto fra l’ultima parte del XIX secolo e la prima parte del XX. La ricchezza e la varietà della cucina italiana, ben più conosciuta di quella delle fiabe, delle novelle e dei racconti, dipende in parte dallo stesso ritardo: la varietà dura nel tempo se la gerarchia non ne unifica le espressioni.
Se così possiamo spiegare la lunga vita di questo patrimonio variegato, la sua origine e la sua crescita vanno comprese a partire da un carattere specifico della nostra storia. Dal neolitico a oggi l’Italia ha, in tempi alterni, esercitato una particolare influenza su tante altre culture (pensiamo solo all'impero romano e al rinascimento fiorentino) ed è stata influenzata da altrettante culture (ci limitiamo alla Grecia antica, che era Magna Grecia nelle colonie italiane, e agli Arabi in Sicilia. Vedi anche: Favola e geografia). Potremmo pensare alla cultura italiana come massimamente colonizzatrice e colonizzata, avendo dato e ricevuto, attraverso l'arte e il commercio come attraverso le guerre.

Vere e false allo stesso tempo sono le fiabe, come i sogni. Di quale verità e di quale falsità stiamo parlando? I sogni sono illusioni vane, alle quali non vale la pena prestare attenzione, o hanno un carattere divinatorio, come premonizioni? Ha un valore scientifico il lavoro psicoanalitico, che studia e interpreta i sogni considerandoli con Freud la via regia per l’inconscio? Oppure la psicoanalisi, come pensava Wittgenstein, è una potente mitologia contemporanea? Ma possiamo pensare a una comprensione della realtà psichica che non sia anche un racconto nuovo e antico sulla sua natura, come la teoria edipica freudiana? Vero e falso, sono categorie legate alle diverse età dell’uomo, e alle culture che cambiano nello spazio e nel tempo. Le favole comprendono la verità, e per questo favola in tante lingue significa anche menzogna.
Se interroghiamo i classici latini e greci sulla verità e la falsità dei sogni, troviamo una risposta mitica: tutti i sogni provengono dagli immortali, ai mortali è data la possibilità di vederli – di ricordarli, possiamo dire – e l’arduo compito di distinguere quelli menzogneri da quelli che rivelano la verità. 

Omero sogni
Straniero, i sogni emergono ingovernabili, favole
bizzarre, e non tutti si realizzano per gli uomini.
due sono infatti le porte dei sogni evanescenti:
gli uni passano dal corno gli altri dall'avorio:
quelli che entrano dall'avorio intagliato,
avvolgono la mente di inganni, recando parole false;
ma quelli che passano attraverso il lucido corno
sono incoronati dalla verità, se un mortale li vede.        

(Odissea, XIX 560-567; trad. nostra)

Difficile trovare una risposta migliore di questa, che però non ci aiuta a capire come comprendere i sogni. Nella speranza di trovare qualcosa di interessante proviamo a esplorare il contesto di questi versi: i classici difficilmente tradiscono, per quanto, come l’oracolo di Delfi, siano difficili da interpretare quanto i sogni stessi.
Nel canto XIX Ulisse è tornato a Itaca, finge di essere uno straniero proveniente da Creta. Penelope lo riceve come ospite, si commuove alle notizie che lo straniero le porta del suo sposo, dicendole che ne considera imminente il ritorno. Penelope prima si commuove, poi gli confida i suoi pensieri. Dice che il suo cuore si agita fra soluzioni opposte: deve mantenersi ancora fedele a Ulisse, assente da vent’anni, o accettare la proposta di matrimonio di uno dei suoi cento e più corteggiatori, tutti nobili e giovani? Poi c’è suo figlio, che da bambino non voleva che lei si risposasse, mentre ora vorrebbe che lo facesse e se ne andasse, così i suoi pretendenti gli lascerebbero libera la reggiae il regno. Poi Penelope chiede allo straniero di interpretare il suo sogno: venti oche uscivano dall’acqua e venivano a beccare il suo grano, e lei le guardava contenta; ma ecco che una grande aquila piombava sulle oche e le uccideva tutte per poi tornare in cielo. Penelope piangeva, attorniata dalle sue ancelle, poi l’aquila scendeva nuovamente, per dirle che Ulisse sarebbe presto tornato, e avrebbe ucciso tutti i suoi pretendenti.
Ulisse le dice allora che non c’è nulla da interpretare, perché il sogno stesso rivela chiaramente il ritorno di Ulisse e la sua vendetta.
Tutto è chiaro per Ulisse, dalla mente grande e multiforme, ma Penelope, la cui mente è pari alla sua, gli ricorda con i versi che abbiamo citato che i sogni sono resistenti alle manipolazioni e agli espedienti (ἀμήχανοι, améchanoi) e alle classificazioni (ἀκριτόμυθοι, akritómythoi).
Penelope è la sposa fedele per eccellenza, eppure il suo sogno ci dice che gode della presenza delle oche, che secondo Ulisse/aquila/straniero-cretese sono i suoi pretendenti, tanto che piange il loro sterminio. Un mito non omerico racconta che da bambina la futura regina di Itaca era caduta in mare, e siccome era stata salvata dalle anatre selvatiche (specie: anas penelope o fischione), si era chiamata Penelope.
Gli otto versi del sogno ci invitano a scoprire che Penelope non era solo la moglie perfettamente fedele. Anziché essere ansiosa di liberarsi dai cento e più giovani corteggiatori piangeva la loro morte, perché godeva della loro presenza, riceveva i loro doni, e non essendone dominata godeva a nutrirli, come suoi cortigiani e suoi animali da cortile. Possiamo ricordare un mito greco secondo il quale Penelope si sarebbe unita a tutti i corteggiatori, e da questo congiungimento sarebbe nato il dio Pan, figlio di tutti (παν, pan, significa tutto). Quando Ulisse di ritorno a Itaca avrebbe visto la creatura dai piedi caprini e tutto il resto, avrebbe lasciato il suo regno per tornare da Circe.
Nella relazione mascherata fra Penelope e Ulisse, fra la donna e l'uomo dotati della massima intelligenza e della conseguente capacità di fingere e trovare soluzioni, il sogno è vero, falso, o significa qualcosa che non si può iscrivere in queste categorie?
I sogni notturni, come i sogni a occhi aperti, fanno parte della vita quotidiana di tutti gli esseri umani. Studiare e lavorare con i sogni, ἀμήχανοι, améchanoi e ἀκριτόμυθοι, akritómythoi (letteralmente: miti senza criterio), che si offrono e si sottraggono all'interpretazione, è una sfida che richiede sia un’immaginazione libera da vincoli come quella dei poeti, sia un rigore matematico. Le fiabe si manifestano (γίγνοντο, ghighnonto) con un linguaggio che coincide con quello della coscienza, e per questo sembrano più facili da comprendere dei sogni. Ma il meraviglioso e il magico che le caratterizza, con le trasformazioni che prescindono dalle misure di spazio e di tempo della veglia, pongono al ricercatore gli stessi problemi dei sogni notturni. È un lavoro che ricorda il labirinto dell’impegno impossibile.

Esiste, almeno come ipotesi che vale la pena dimostrare, una terra di mezzo, un terzo insieme, dal quale vengono le fabulae, i miti, le fiabe e i sogni, che noi vorremmo classificare fra le storie vere o fra quelle false. Ogni mito offre una soluzione, come una mappa per comprendere la realtà, sulla quale poggiano le identità culturali e quelle di ogni individuo. Non esiste soggetto senza la possibilità di ottenere o costruire la realtà. Come ha scritto Salman Rushdie, Quando un uomo non ha più un’immagine del mondo diventa un po’ matto. (Shalimar il clown, p. 352). Il punto è che il mito è la struttura più efficace per costruire un’immagine, una mappa della realtà, una Weltanschauung, che favorisce la vita umana a condizione che la vediamo su quella terra di mezzo che non si può classificare né come vera né come falsa. La tragedia ci colpisce quando mettiamo in atto un mito, personale o collettivo, come se fosse vero, staccandolo dal suo sfondo.
Come non possiamo vivere senza sognare, ogni giorno e ogni notte, non possiamo fare a meno di un mito, incluso quello della scienza che potrebbe risolvere tutti i nostri problemi o della chiusura delle frontiere per escludere il diverso dal quale ci sentiamo minacciati. Ogni comprensione definitiva è falsa, come i sistemi che includono i loro assiomi, eppure non possiamo superare una visione mitica della realtà senza assumere un nuovo mito, sperando che sia meno menzognero del precedente.
La fondazione cartesiana anima il mito del soggetto che consiste in se stesso, senza altra necessità che percepire il proprio dubbio. Se cercassimo nelle fiabe un attante da paragonare al soggetto di Cartesio, lo troveremmo nella storia di Giovannino e la pelle d’oca, che non ha paura di nulla, ma dubita di questa sua sicumera tanto da mettersi in viaggio per cercare la paura. Il suo più sfortunato omonimo fiabesco, Giovannin senza paura, che è anche privo di dubbi, non ha affatto un lieto fine.
Esiste un mito più potente di questo, che si possa consistere in se stessi rinunciando a qualunque garanzia esterna? Il filosofo conta sull’incremento di conoscenza che la sua filosofia sembra promettere, e questo è un mito che vale quanto qualsiasi altro. Ammettere la concreta possibilità di questo soggetto è più difficile che incontrare un santo o un profeta in carne ed ossa.
 
Immaginiamo le inafferrabili strutture delle favole, e delle fiabe, come regolatori delle innumerevoli narrazioni, che vivendo grazie a una continua trasformazione preservano i motivi dei quali abbiamo bisogno per continuare a raccontare e ascoltare nuove antiche storie. Per perderci e ritrovarci nel loro labirinto, per esplorarle secondo il nostro gusto con una mappa di fantasia, anche la Carta fiabesca della Successione, soprattutto per cercarci. (AG)

(Sul rapporto fra fiaba e romanzo, vedi anche: Adalinda Gasparini, Il motivo dell'enigma. Trasformazioni e costanti del discorso interiore, 1994; con Silvia Albertazzi: Il romanzo new global. Storie di intolleranza, fiabe di comunità, 2003)








Inglese7.2 Favole e incantesimo


Come si rendono inoffensivi gli esseri ultramondani che abitano le fiabe? Osservando la loro mancanza di etica e di limiti - le fate possono troncare un dito per il semplice motivo che una fanciulla ha bussato alla loro porta - si potrebbe pensare che non ci siano modi per indurle a non nuocere più all'attante protagonista. E se non sono nocive, sono propizie: fas e nefas è la figura ultramondana delle fiabe, che sia unica nel dispensare doni e danni, o si sdoppi, come nelle fiabe successive al secolo dei lumi, quando la rimozione ha lasciato ai secoli precedenti - o ai paesi meno 'illuminati', come la terra della baba-yaga. Fas e nefas è in ogni caso il contatto con un piano dell'esistenza che non risponde alla logica della coscienza, perché in essa non vive il principio di non contraddizione. Si resiste a quest'area della mente - e dell'esistenza stessa - impermeabile ai dettami della coscienza di veglia in vari modi: si fa l'impossibile per tenersene lontani - nella nevrosi ossessiva - vi si entra sottovalutandone l'alterità - nell'isteria. Nella psicosi la contaminazione ha mescolato le carte senza seguire certe regole: un mazzo da briscola o scopa non si può unire a un mazzo da poker o da ramino. Chi lo fa gioca da solo, seguendo percorsi retti da regole all ostesso tempo feree e mutevoli, proprio come ferree e mutevoli sono le ingiunzioni degli orchi, delle fate e delle streghe.
Migliore assicurazione per il proprio equilibrio che frequentare a occhi aperti, quando il controllo di veglia si estende a tutto il piano della vita, i paesi retti sia dalla logica retta dal principio di non contraddizione, che quella, caotica se  letta da questa, che seguono i movimenti dei fantasmi, delle formazioni inconsce. Perché è nell'inconscio che si può fluidificare un macigno, e condensare una nebulosa. È nell'inconscio che avvengono le reazioni chimico-magiche, alchemiche forse, senza le quali una malattia psicosomatica può sparire come un folletto. E del resto, è nello stesso sistema o luogo che la malattia si era formata.
Per favorire queste trasformazioni, lo psicoanalista deve rinunciare al suo proprio controllo. Riprendendo la felice metafora di Freud, pescare una carpa di verità con un'esca di menzogna, ci sia permesso di estenderla: 
l'analista deve anzitutto ributtare nell'acqua la sua propria carpa di verità, rischiando di perderla per sempre. Solo così il suo desiderio di ripescarla gli darà le risorse per approntare l'esca giusta, quella necessaria perché i pescatori in coppia possano tirare all'asciutto la carpa perduta del paziente.
Tornando all'addomesticamento degli aiutanti/antagonisti magici delle fiabe, credo che sia una questione di simboli, vale a dire che si deve indovinare - divinare, non sapere, perché quello di cui parlo non è e non può essere oggetto di un sapere! - cosa plachi la creatura ultramondana potenzialmente nociva e fatale. Al forno della Mamma-draga della favola racconta da Pitrè (Lu Re d'Amuri) basta che si comprino tre soldi del suo pane, alla scala basta che le si dia una spazzata, al seme di dattero della fiaba di Basile La Gatta Cennerentola basta che per tre giorni lo si annaffi e lo si zappetti con annaffiatoio e zappetta d'oro, e che si asciughi col tovagliolo di seta. Al padre di lei mercante - e all'intera nave sulla quale viaggia - impedisce ogni movimento una maledizione della figlia: se dimenticherà di salutare per lei la Fata Colomba, non potrà andare né avanti né indietro. Ma appena adempie la promessa che aveva scordato, l'invisibile remora che impediva di salpare alla nave sulla quale si era imbarcato svanisce: il viaggio comincia felicemente, e nessun impedimento viene a rallentarlo.
Come si combatte con le figure magiche? come si ottiene il dono necessario per vivere, per crescere, dalle figure magiche nelle fiabe? (AG 23/06/17)




Inglese7.3 Favole e geografia



Nel secolo XII in Sicilia un nobile colto arabo e un re cristiano decisero di disegnare una carta del mondo, e dedicarono quindici anni a portare a termine l'impresa. Il nobile arabo Muhammad al-Idris fece tesoro del patrimonio arabo, di quello greco e latino e delle  sue personali esperienze di viaggio; raccolse inoltre i resoconti diretti di altri viaggiatori del tempo. Il risultato di questo lavoro è la Tabula Rogeriana, dal nome di re Ruggero II d'Altavilla, un planisfero di tutto il mondo conosciuto. Le settanta carte geografiche che lo compongono hanno costituito per tre secoli la descrizione più precisa del mondo, ed erano corredate da un grande libro in arabo il cui titolo singifica La delizia di chi desidera attraversare la terra.
Nella descrizione di Roma si racconta che un fiume

...divide la città da oriente a occidente. Il suo fondo è interamente rivestito di lastre di rame [sicché] non vi si attacca àncora. [...] Le navi coi loro carichi entrano in Roma per questo fiume, e procedono innanzi così caricate finché si fermano alle botteghe dei mercanti. Entro la città sorge una chiesa grande, costrutta sotto il nome di Pietro e Paolo apostoli i quali ivi riposano in due sepolcri. La lunghezza di questa chiesa è di trecento braccia, la larghezza dugento e l'altezza del tetto cento. Le colonne sono di bronzo gittato e così pure il tetto è rivestito di oricalco. In Roma si contano mille dugento chiese ; i mercati e le ampie strade sono lastricate in marmo bianco e turchino ed i bagni sono in numero di mille. V'ha una chiesa di architettura magnifica, costrutta sul disegno di quella di Gerusalemme, tanto in lungo che in largo, con un altare sul quale si celebra la messa, lungo dieci braccia e tutto tempestato all'esterno di smeraldi verdi. Dodici statue d' oro puro sorreggono [la mensa di] questo altare ; ogni statua è alta due braccia e mezzo, ed ha gli occhi di rubini. Le porte di questa chiesa sono rivestite di lamine d' oro puro , però le porte esterne, le une sono coperte di lastre di rame, le altre sono di legno scolpito.  (vedi on line, di chi scrive, Il Libro di re Ruggiero).

La descrizione di questo Tevere e di questa Basilica, come molte altre parti dell'opera, hanno un carattere favoloso, che non ha impedito alla Tabula Rogeriana di costituire per tre secoli di essere copiata senza variazioni dai geografi e di costituire il fondamentale riferimento per viaggiatori ed esploratori. Immaginare il mondo è il primo passo per intraprendere un viaggio di esplorazione verso terre e mari ancora sconosciuti, così come gli attant ifiabeschi non si metterebbero mai in cammino se non potessero immaginare e sperare la loro meta impossibile. Cristoforo Colombo ha scoperto l'America immaginando di arrivare in India, e ne conserviamo la memoria nella lingua, quando chiamiamo indiani o indios i nativi americani. Ogni descrizione scientifica viene dopo una descrizione immaginaria, dopo molte scoperte e molti errori, passo dopo passo. (AG & CC)





Inglese7.4 Favole e religione


Le storie mitiche, sia della classicità greca e latina, sia dei popoli non europei, hanno per le culture monoteistiche un'evidente natura favolosa, che non riguarda le narrazioni delle tre grandi Religioni del Libro, ciascuna delle quali si considera definitiva. Se pensassimo al racconto di queste religioni come a delle favole, l'ingiunzione che dà avvio ai tre monoteismi sarebbe la Vetta del compito impossibile per i credenti e del Labirinto dell'impegno impossibile per i non credenti, e si troverebbero nel quadrante nord-est. Nel primo caso il Padre divino impone ai suoi figli di credere in un unico Creatore, di considerare come verità assoluta quanto ha dettato ai suoi profeti, di obbedire ai suoi comandi e di organizzare la vita dei singoli e della comunità secondo la sua definitiva rivelazione. Nel secondo caso la sola differenza è che i figli-credenti assumono l'impegno in nome di un Padre invisibile, investendo di un'autorità trascendente i suoi profeti. Ciascuno dei tre monoteismi esclude la natura favolosa delle proprie narrazioni, che costituiscono le basi della dottrina e che sono, per i milioni di credenti, rivelazioni divine o eventi storici.

Non molti secoli or sono la Chiesa Cattolica condannò al rogo Giordano Bruno per il suo pensiero, mentre Galileo abiurò per non finire bruciato, certo che la verità derivante dalla sua esperienza e dalla sua osservazione non ne avrebbe sofferto.
La favolosa descrizione di Roma di Al-Idris ci ha ricordato la Gerusalemme Celeste dell'Apocalisse di Giovanni, meravigliosamente edificata con oro e gemme come i più bei palazzi delle fiabe, a partire dal loro prototipo, la dimora dove Amore conduce Psiche nell'Asino d'oro di Apuleio (vedi anche: Amor et Psyche, Fabella, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole).

Le fondamenta delle mura della città sono adorne di ogni specie di pietre preziose. Il primo fondamento è di diaspro, il secondo di zaffìro, il terzo di calcedònio, il quarto di smeraldo, il quinto di sardònice, il sesto di cornalina, il settimo di crisòlito, l'ottavo di berillo, il nono di topazio, il decimo di crisopazio, l'undecimo di giacinto, il dodicesimo di ametista. E le dodici porte sono dodici perle; ciascuna porta è formata da una sola perla. E la piazza della città è di oro puro, come cristallo trasparente. (Apocalisse di Giovanni, 21, 19-21)

Se non è possibile sopportare il dolore, la malattia, le guerre, le catastrofi e le ingiustizie personali e collettive, si crede nell'esistenza di un mondo finalmente perfetto, che le religioni pongono oltre la vita e le ideologie intendono realizzare in questa vita, nel quale ogni dubbio sarà sciolto, la bontà - dei fedeli - verrà premiata e la cattiveria - dei loro nemici - punita.

Le fiabe hanno nel lieto fine lo stesso senso e la stessa funzione, senza sostenere o mettere in discussione fedi, ideologie o laicità. Semplicemente non se ne curano. Raccontano solo che dopo compiti impossibili, innumerevoli peripezie, vessazioni, rischi di morte, gli attanti protagonisti vissero felici e contenti. Ma come non è dato visitare la Città perfetta, se non in sogno, nessuno può verificare la vita felice di Biancaneve o di Cenerentola coi loro prìncipi. Non è poi credibile che la terza sposa del Re Porco consumi sette paia di scarpe di ferro per ritrovarlo, né che la Bella addormentata si svegli fresca come una rosa dopo un sonno centenario, e del resto la fiaba non chiede adesioni di fede, dato che il suo spazio e il suo tempo non hanno testimoni, né diretti né indiretti. La lunga catena di narratori non deriva da qualcuno che avrebbe assistito a quella vicenda o l'avrebbe appresa da un essere trascendente, semplicemente si racconta che si raccontava che si raccontava...

Le religioni promettono ai credenti un lieto fine altrettanto vago, e i racconti canonici contengono elementi irrealistici al pari delle favole. Le favole hanno formule di apertura (c'era una volta, tanto tempo fa, lontano lontano) e di chiusura (stretta la foglia - o la soglia - larga la via, dite la vostra, che ho detto la mia) che vanno intese come ammonizioni a distinguerle dalla realtà quotidiana.
Le religioni invece chiedono ai credenti di sospendere il dubbio sulla possibilità che davvero siano successi certi miracoli, invitandoli a trasformarlo in un atto di fede: credo quia absurdum (credo perché è assurdo). La Madonna concepisce senza conoscere un uomo e resta vergine anche dopo il parto: è un dogma centrale nel Cristianesimo, e le innumerevoli chiese dedicate a Maria Vergine testimoniano il valore che ha per i credenti. Anche nel Mahabharata, poema induista quindici volte più voluminoso della Bibbia, una donna resta vergine dopo il concepimento e il parto; Kunti si unisce al Sole e dà alla luce il semidio Karna, che però abbandona alle acque, come Mosè e innumerevoli attanti fiabeschi, che in tutte le storie si salvano. Tornando alle nascite magiche, ne troviamo anche nelle fiabe: Pietropazzo dispone di una magia con la quale ingravida la principessina, anche se non l'ha mai sfiorata. Il protagonista del Testamento di una fata può dormire per una notte con la Bella Margarita, ma l'orco che la tiene prigioniera ucciderà entrambi se al mattino non gli faranno trovare un bambino bell'e nato. Concepimenti, gravidanze e parti magici, bambini abbandonati nei boschi o nei fiumi che vengono regolarmente salvati, ricorrono nelle fiabe e nelle religioni, come nella fantasia infantile e nel romanzo familiare. (AG & CC)











Inglese7.5 Favole e scienza






Sul concepimento la scienza medica cinquecentesca, con Paracelso, affermava che il liquido spermatico conteneva l'homunculus, che si sviluppava nel grembo materno come il seme nella terra. Solo se il calore del grembo durante il rapporto sessuale raggiungeva una certa intensità, si poteva concepire un maschio, se il calore sviluppato era invece insufficiente, si sarebbe concepita una femmina, perché la bassa temperatura non consentiva l'estroflessione dei genitali. Prima che la medicina fosse in grado di riconoscere che la madre e il padre contribuivano alla pari al corredo genetico del nascituro, occorreva una spiegazione per le somiglianze dei figli con la madre. Si riteneva che le donne, grazie alla loro grande immaginazione, imprimessero i loro caratteri ai nascituri. Grazie ai primi microscopi, nel XVII secolo, insigni scienziati dichiararono di aver osservato gli homunculi muoversi nello sperma, e solo nell'Ottocento gli scienziati riconobbero l'embriogenesi come risultato dell'unione di spermatozoi e ovociti. La favolosa teoria della presenza dell'homunculus nello sperma maschile ha avuto effetti concreti come la condanna al rogo di donne che avevano dato alla luce bambini deformi, che costituivano la prova della loro natura eretica e perversa; ogni difetto del neonato dipendeva infatti dalla sregolata immaginazione femminile. Non tutto dell'antica teoria medica è stato destituito: fino a pochi decenni fa era normale che la madre e il padre fossero particolarmente delusi se riuscivano a mettere al mondo solo femmine. Né l'idea delle voglie insoddisfatte durante la gravidanza, che causerebbero macchie sulla pelle del bambino, è del tutto scomparsa. (AG & CC)



Inglese7.6 Favole e storia

Dalle favole della scienza non troppo antica passiamo a una favola moderna raccontata dal nazifascismo, con gli effetti tragicamente concreti che conosciamo: il mito della razza. Stiamo usando il termine favola in maniera estesa, riprendendo il bacino semantico che il termine aveva fino a metà Ottocento, vale a dire fino alla nascita delle scienze umane. Erano favole tutte le narrazioni che non appartenevano al campo della scienza - considerate come di per sé evidenti -, i racconti della religione cristiana - considerati rivelazioni divine -, e la storia intesa come oggettiva descrizione dei fatti. Lo studio sistematico delle favole, sia miti, sia fiabe, inaugurato nell'ambito delle scienze umane, ne ha riconosciuto la somiglianza e talora la coincidenza con verità scientifiche che col tempo sono uscite dalla scienza per passare nell'insieme delle favole - abbiamo già citato la millenaria certezza della presenza degli homunculi nello sperma, possiamo ricordare la concezione tolemaica dell'universo o il mito della razza. Ma anche lo studio sistematico delle favole, che tendeva a ordinarle in categorie precise per consentirne lo studio e la comprensione scientifica, si è rivelato un mito, e come ogni mito e ogni favola ha comportato il fallimento degli interpreti che speravano di fornirne una descrizione esaustiva e una interpretazione onnicomprensiva. La conoscenza come favola e la conoscenza scientifica sono sempre state intrecciate, e se non è difficile riconoscere questa realtà per il passato è arduo riconoscerla per le convinzioni scientifiche contemporanee e per quelle religiose o ideologiche, limitatamente ai credenti; è infine quasi impossibile capire che esse saranno favole per le generazioni future.

Il mito della razza, al cuore del sistema di credenza che ha portato popoli tutt'altro che primitivi a seguire la dittatura nazista, e la certezza del superiore grado evolutivo della propria civiltà sono stati o sono indispensabile sostegno degli stati. Pensiamo al processo di Norimberga, nel quale le potenze che hanno messo fine alla barbarie nazifascista processano come criminali i nemici sconfitti, che inutilmente si difendono dicendo che hanno eseguito degli ordini. La certezza del diritto di accusare e condannare l'altro esige la convinzione della propria superiorità morale. I vincitori sono certi sia di non essersi mai macchiati di simili atrocità sia di non compierle mai in futuro. Eppure la storia dice chiaramente come ogni guerra sia atroce e come ogni esercito in ogni tempo abbia compiuto atti che dovrebbero impedire di prestar fede alla favola della superiore bontà di qualunque nazione. Le inaccettabili immagini che abbiamo visto sul Vietnam o sull'Iraq non sarebbero necessarie per riconoscere questa verità. Ma senza la favola della propria superiore civiltà, quale popolo aderirebbe alla chiamata alle armi dei propri governanti? (AG & CC)





Inglese7.7 Favole e letteratura



La favola, frutto dell'immaginazione, è un aspetto strutturale del pensiero umano, che la proietta sulla realtà prima di indagarla obbiettivamente, né ne riconosce la presenza se non nel passato, che può analizzare criticamente quando una certa proiezione è caduta. Una nuova favola, diversa e simile alle precedenti, si intreccia con ogni nuova narrazione, scientifica, politica, religiosa. La letteratura, come insieme di narrazioni  che non hanno lo scopo di dimostrare qualche verità oggettiva, al di là delle effimere pretese di certe critiche ideologiche, non pone le sue nuove narrazioni su un piano superiore rispetto a quelle precedenti. Per questa sua adesione a un'esperienza di verità dell'essere umano, mai esaurita né esauribile, potremmo considerare la letteratura come l'insieme più ricco e fecondo fra le narrazioni. La letteratura non ha la finalità delle scienze, di avvicinarsi progressivamente alla vera conoscenza, né quella delle religioni e delle ideologie, di guidare gli esseri umani verso la conquista di una salvezza ultramondana o di un'organizzazione politica più giusta. La mancanza di questi fini è condizione perché si dia letteratura,  il cui valore non è soggetto a declino per il fatto di appartenere a determinate culture, lingue ed epoche. Nessuno più sacrifica un toro a Zeus né interroga l'oracolo di Delfi, mentre i poemi di Omero e le tragedie greche mantengono inalterato il fascino e la ricchezza che avevano quando sono state scritte.

Giovanni Boccaccio dedicò gli ultimi quindici anni della sua vita a scrivere un'opera latina in quindici libri: Genealogie deorum gentilium libri, che è il primo studio laico di mitologia classica, vale a dire delle favole, nell'ampia accezione che aveva questo termine. Nel XIV libro Boccaccio celebra la poesia come espressione che basta a se stessa, non avendo bisogno per esistere di nessuna finalità o approvazione esterne. Parallelamente nel Decameron non si racconta per sostenere o destituire il pensiero dominante, religioso anzitutto, ma per far passare il tempo, in attesa che finisca la peste che ha ridotto Firenze a un luogo inabitabile.
Boccaccio è il primo scrittore occidentale a legare le sue novelle con una storia portante, che rimanda alla storia cornice delle Mille e una notte, come a quella di altre raccolte che circolavano nel Medio Evo, già tradotte in latino e in varie lingue volgari (per storia portante vedi il sito Giovanni Boccaccio). Ricordiamo il persiano Libro di Sindbad, e il Libro di Barlaam e Josafat, nel quale confluivano favole persiane, indiane, cristiane e islamiche. Gli arabi, presenti in Europa dal IX al XV secolo, hanno portato un contributo determinante nella scienza e nella letteratura europea, e la diffusione delle loro raccolte precede la scelta di Boccaccio.
Nelle opere orientali presenti nell'Europa medievale le storie venivano raccontate per dilazionare l'esecuzione di una condanna a morte, come nella cornice delle Mille e una notte, con Shahrazad che racconta storie al sultano Shahriyar per salvare la propria vita. Il sultano cessa con lei, notte dopo notte, racconto dopo racconto, di uccidere all'alba la fanciulla che aveva sposato per tenerla con sé solo la prima notte di nozze.
I giovani e le giovani fiorentine del Decameron si allontanano dalla peste di Firenze per dieci giorni, durante i quali si raccontano cento novelle. Per dieci anni, invece, ad Atene, aveva sospeso la peste la sacerdotessa Diotima di Mantinea. La conosciamo solo attraverso Socrate, che nel Simposio, il dialogo sull'Eros, racconta come lo abbia istruito intorno alla natura di Eros, che lui, Socrate non conosceva, come non la conoscono i suoi allievi prima che riporti quel che ha appreso da Diotima. Eros nel Simposio non è un dio, né un mortale, ma dàimon megas un grande demone che collega cielo e terra, e il mito della sua nascita è una delle favole più belle del mondo greco, narrata per bocca di Socrate da Diotima, la sola donna di cui si mette in valore la conoscenza in un dialogo platonico. Figlio di Penia, Povertà, e di Poros, Abbondanza, Eros è ricco e povero, pieno di risorse e privo di mezzi, tanto che talora dorme all'aperto senza nemmeno un panno per difendersi dal freddo. Creare legami, testimoniare scambi fecondi, attraversare confini altrimenti delimitati da guardie armate e fili spinati, rendere possibile incontri altrettanto impossibili quanto le nozze fra la Bella e la Bestia: se non è lo scopo della letteratura, è però ciò che da sempre la letteratura, sia poesia, sia mito, sia favola, rende immaginabile, quindi possibile (per il discorso di Diotima, vedi anche: il Lago della generazione).

Il Decameron è forse il libro più imitato nella letteratura mondiale, e delle sue imitazioni fa parte la raccolta veneziana cinquecentesca di Giovan Francesco Straparola, Le piacevoli notti, che comprende, insieme alle novelle tradizionali, diverse fiabe di magia. Fra le fiabe pubblicate per la prima volta nel mondo da Straparola ricordiamo  La Gatta fatata (prima versione de Il Gatto con gli stivali di Charles Perrault), Re Porco e L'Augel belverde (dalle quali M.me D'Aulnoy's ha tratto, rispettivamente, Le Prince Marcassin e La princess Belle-Étoile), Flamminio senza paura, prima versione di Giovannino e la pelle d'oca e di Giovannin senza paura (la prima dei Fratelli Grimm, la seconda rinarrata da Italo Calvino) e Doralice, dalla quale Giambattista Basile ha tratto L'Orsa, a sua volta fonte di Charles Perrault per la celebre Pelle d'Asino. (Di Straparola Fabulando contiene inoltre Pietropazzo e La bambola PopoavolaFlamminio senza paura e La Gatta fatata sono invece accessibili nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole).
 
Una fiaba ancora più antica, la cui ingiunzione potrebbe essere quella del Castello dell'amore imposto, si trova nel romanzo Metamorphoseon o Asinus Aureus di Apuleio (II secolo d.C.). È la favola, fabella in latino, di Amore e Psiche, che una vecchia racconta a una fanciulla rapita dai malviventi per distrarla dalla sua angoscia (vedi anche: Amore e Psiche, nel sito Adalinda Gasparini, Psicoanalisi e favole). Pare che le fiabe, da allora in poi, non abbiano mai avuto altra giustificazione interna che far passare il tempo. Un passatempo potrebbe esser considerato come qualcosa di ozioso, o un intrattenimento infantile, de le peccerille, come scrisse il gran Basile nel suo Cunto de li cunti. Ma nella nostra prospettiva, della successione fra generazioni, il problema è proprio che il tempo torni a fluire dopo la sospensione creata da un conflitto fra generazioni, che nella fiaba deriva da un'ingiunzione imposta dalla figura genitoriale. L'attante cammina e cammina, affronta prove impossibili, per assolvere il compito assegnato o per sfuggire a una persecuzione mortale. Il tempo concreto, scandito dal succedersi delle generazioni, il tempo che comprende la vita e la morte, il dramma e la fecondità, comincia alla fine della favola, con la pagina bianca oltre la quale ciascuno è libero di scegliere cosa fare della propria fantasia.

A questo invita la celebre formula di chiusura delle fiabe:

Stretta la foglia (o soglia), larga la via,
dite la vostra, che ho detto la mia.

(AG & CC)





Inglese7.8 Favole e linguistica



Come le favole, le lingue: non si studiano utilmente, non si comprendono, se non acquisendo la consapevolezza che non c'è confine se non segnato dal bisogno umano di estendere e delimitare il proprio spazio, favoleggiando o mitizzando un superiore diritto ad abitarlo, che è diritto ad escluderne l'altro, inferiore. I nostri padri greci ci hanno insegnato la democrazia, ma anche l'esclusione del diverso, che, parlando un'altra lingua era βάρβαρος (bárbaros), balbuziente. L'eredità classica non basta, come non basta la costituzione dell'identità fondata sull'opposizione all'altro, per la quale si è maschi perché non si è femmine, eterosessuali perché non omosessuali, o viceversa, migliori perché opposti ai peggiori, superiori perché confrontati agli inferiori, o viceversa, per lingua, religione, abiti, storia. O favola?
La scienza, che potrebbe favorire un'etica laica, procede in direzione opposta al mito della propria superiorità, ma il lavoro che dobbiamo fare è tanto, e la meta così lontana, che occorre una tensione utopica per tentarlo.

Le nostre pagine mirano a colpire ideologie deleterie, che sfociano nel razzismo, le stesse che nell'antichità divisero Indoeuropei e popoli antichissimi non-Indoeuropei, tra noi Arii, dominatori e Semiti, "complesso etnico inferiore". Altrove abbiamo mostrato che razza è in assiro ḫaršâ (allevamento di cavalli, come nella città di a-ar-šu).
Le perfide etimologie ebbero l'ardire di appollaiarsi al posto della Storia.
Ci giunge la risonanza di lotte locali fra popoli da cui ripetiamo i nostri primi lumi culturali.
È il perenne complesso di Caino.
Ma in seguito noi trasferimmo lontano quelle contese e accendemmo i continenti.
Se i così detti potenti della Terra avessero consuetudine di frequentare il grande tempio della Storia, il mondo sarebbe meno intriso di sangue, meno bagnato di lacrime.
(Giovanni Semerano, "Premessa quasi moralistica, ma non troppo" a La favola dell'indoeuropeo, p. ix).

Giovanni Semerano ha mostrato come sia una favola la convinzione di un ceppo umano particolare e superiore, nel nostro caso quello indoeuropeo (La favola dell'indoeuropeo). Ma è una malattia abbagliante che non riguarda solo la nostra cultura, e pensare che l'altro sia migliore di noi è l'opposto complementare dell'idea che sia peggiore. All'oscillazione schizoparanoide dovrebbe subentrare un'elaborazione nuova, che rinunciando all'idealizzazione di sé che implica la demonizzazione dell'altro non porti alla demonizzazione di sé in cambio della idealizzazione dell'altro. Le favole e i miti possono aiutarci, a patto di considerarle un labirinto di sentieri veri e falsi, che si muove e commuove, dove perderci e ritrovarci, dove porre domande più che trovare risposte.
"Stories can knit the world together; stories can blow the world apart: the choice is always ours" (Le storie possono unire il mondo, le storie possono farlo a pezzi. Tabish Khair). (AG)



Inglese7.9 Favole ed educazione



Se si pronuncia la parola fiaba una delle prime associazioni è quella del bambino che non vuole addormentarsi da solo e della mamma, del babbo, del nonno o della nonna che seduti accanto al suo letto gli raccontano una storia di incantesimi e di pericoli, di metamorfosi e di nozze felici, fino a quando si abbandona al sonno.

Nyx ed Hemèra, Notte e Giorno, nel mito greco erano due sorelle che vivevano nella stessa casa, senza mai abitarla contemporaneamente. Quando una dea usciva, l'altra rientrava, sfiorando appena la sorella. Non è diversa l'alternanza tra veglia e sonno, che da sempre somiglia al passaggio fra vita e morte. Ogni forma di insonnia, a partire dalla difficoltà a prendere sonno del bambino, oscilla sul mistero di queste alternanze. Dove siamo dormendo, quando seguiamo immagini che esistono solo nella nostra mente, come se scorressero sullo schermo del cinematografo? Perché dormendo possiamo provare paura e piacere in misura così intensa, mentre non c’è nulla di inconsueto nella nostra stanza? Ogni genitore sa come sia difficile spiegare a un bambino la morte, quando ne fa esperienza per la perdita di una persona conosciuta o anche di un animale di casa, e dopo aver cercato di farlo con tutto il suo affetto pensa che in fondo i bambini non possono rendersene conto. Come se gli adulti potessero farlo, come se potessimo spiegarci come sia possibile che un essere vivente a noi caro fosse con noi fino a un istante prima e ora se ne sia andato per sempre. (Vedi anche: Adalinda Gasparini e Anna Antoniazzi, Nella stanza dei bambini. Tra letteratura per l'infanzia e psicoanalisi, 2009)

La coscienza di veglia, che ci consente di parlare, sentire, dare e ricevere, si immerge chissà dove, come il sole al tramonto oltre l'orizzonte. Sorge ancora al mattino, finché siamo in vita, e dopo la morte sorgerà ancora, se siamo credenti. Il desiderio di immortalità, come racconta Diotima a Socrate, fa sì che ogni creatura ami al di sopra di ogni altra cosa il proprio germoglio, quel che di simile a sé lascia dietro di sé, verso il futuro al quale come individuo non può accedere (vedi il Lago della generazione). La riva della coscienza di veglia, del giorno, della vita, e la riva del sonno senza coscienza e della morte, si avvicinano e si allontanano, e quando sentiamo che si sfiorano proviamo il brivido unheimliche del quale andò in cerca un attante di fiaba (Giovannino e la pelle d'oca). Un altro Giovannino, che non lo conosceva né ne sentiva la mancanza, morì vedendo la propria ombra, come se il perturbante contatto fra luce e ombra gli fosse stato fatale (Giovannin senza paura).

Ecco allora lo spazio della fiaba, lo stesso spazio che la Carta fiabesca della successione invita a esplorare, per soffermarsi e riflettere, per fare spazio al pensiero, che non cresce solo nelle forme previste e approvate dagli educatori e dal soggetto stesso. La fiaba tesse il suo velo sottile e resistente fra la sponda della veglia e quella del sonno, fra il buio e la luce, fra la quieta gioia di vivere e l'angoscia della morte. Il suo tessuto è elastico, non cede se le due sponde si allontanano o si avvicinano, e appena andiamo a cercarlo si fa trovare.

La tessitrice Aracne ricamava e tesseva storie più belle di Atena, dea del ricamo e della tessitura, dell'intelligenza e della strategia, e per questo la dea la trasformò in ragno. Ma non poté impedirle di tessere le sue tele, simili alle storie che possono facilmente essere distrutte, e altrettanto facilmente vengono ritessute, rinarrate.

Molte sono le ragioni avanzate a sostegno delle fiabe di magia dai pedagogisti, insieme a ragioni secondo le quali non sarebbe bene raccontarle. La fiaba secondo noi non ha ragioni, se non quelle che noi vi vogliamo trovare, anche se si lascia attribuire facilmente ragioni pedagogiche e interpretazioni psicoanalitiche di ogni tendenza. Si potrebbe costruire un’immensa galleria per le fiabe fissate in affascinanti interpretazioni, o trasformate in strumenti preziosi o dannosi per gli educatori. Sarebbe un’interessante galleria, che racconterebbe come delle stesse favole possano servirsi saggi filantropi o sanguinari dittatori, come Biancaneve o Cenerentola possano assumere tratti ariani, esotici o disneyani. Di certo nessuna fiaba avrebbe quel museo come dimora, perché le fiabe si muovono come il vento, che non conosce confini e raccoglie i profumi e i miasmi delle terre e dei mari che attraversa.

Noi speriamo che esplorare Fabulando con la Carta fiabesca della successione e le sue sessantasei fiabe, alle quali si possono aggiungere quelle contenute nelle raccolte che ricordiamo nella bibliografia, variamente connesse alle nostre, corrobori la sensibilità per l'arte della narrazione che è presente in tutti. Come scegliere le fiabe, quando raccontarle, in che modo, per quale ragione, a chi, è onere e onore di ciascuno. Noi abbiamo scelto le nostre sessantasei fiabe, componendo la raccolta di Fabulando con le sue sezioni, e i dispositivi per muoversi secondo percorsi labirintici fra tutte le fiabe, sperando che chi percorre questo labirinto scelga a sua volta, secondo il proprio piacere e la propria riflessione, come abbiamo fatto noi. (AG)





Inglese7.10 Favole e ATU, Indice Aarne Thompson Uther

Das synkretistische Allesvergleichen und Typisieren gibt nicht schon von selbst echte Wesenserkenntnis. Die Beherrschbarkeit des Mannigfaltigen in einer Tafel gewährleistet nicht ein wirkliches Verständnis dessen, was da geordnet vorliegt. Das echte Prinzip der Ordnung hat seinen eigenen Sachgehalt, der durch das Ordnen nie gefunden, sondern in ihm schon vorausgesetzt wird. So bedarf es für die Ordnung von Weltbildern der expliziten Idee von Welt überhaupt. Und wenn »Welt« selbst ein Konstitutivum des Daseins ist, verlangt die begriffliche Ausarbeitung des Weltphänomens eine Einsicht in die Grundstrukturen des Daseins. (Martin Heidegger, Sein und Zeit) Il raffronto sincretistico di tutto con tutto e la tipizzazione non sono in grado di fornire la comprensione genuina dell'essenziale. La disposizione del molteplice dentro uno schema non garantisce sufficientemente la comprensione adeguata del relativo contenuto. Un vero principio ordinativo ha un suo contenuto reale, che non è reperito mediante le operazioni di ordinamento, ma che è da esse presupposto. Così l'ordinamento delle concezioni del mondo richiede una visione esplicita del mondo in generale. E se il "mondo", in quanto tale, è un costitutivo dell'Esserci stesso, l'elaborazione concettuale del fenomeno del mondo richiederà una penetrazione delle strutture fondamentali dell'Esserci. (Martin Heidegger, Sein und Zeit)


La penetrazione delle strutture fondamentali dell'essere (die Grundstructuren des Daseins) non è avvenuta, ma è preliminare una riflessione su queste. Comprenderne l'inafferrabilità non autorizza a dimenticare che dimenticare la lezione di Sein und Zeit significa estraniarsi dal proprio tempo. Ricordarla rende umili ma costringe ad essere onesti. Chi non ci crede cerchi di dare almeno una scorsa non troppo rapida all'indice ATU, citato fugacemente dappertutto se si parla di fiabe, senza altra utlità che sentirsi garantiti dalla sua esistenza secolare e ponderosa. È infine il caso di ricordare che la prima classificazione delle fiabe, alla quale si è ispirato Anti Amatus Aarne (Verzeichnis der Märchentypen, Helsinki 1910), seguito e ampliato da Stith Thompson (1932-1937, 1961) che lo ha portato a sei volumi, ulteriormente arricchito da ampliamenti da Hans-Jörg Uther (2004), è di una vera e propria Cenerentola degli studi sulle fiabe. Citata fugacemente o nemmeno ricordata nell'indice secolare, Marian Roalf Emily Cox, è andata a un solo ballo, costretta da Andrew Lang, re della Folklore Society di Londra, dove non si ha notizia di un principe che l'abbia invitata a danzare. Di lei non abbiamo notizie, a parte il meraviglioso e pionieristico studio Cinderella; three hundred and forty-five variants of Cinderella, Catskin and Cap o'Rushes, abstracted and tabulated, with a discussion of mediaeval analogues, and notes. (Published for the Folklore Society, London 1893). Si può immaginare che M.E.R. Cox avrebbe continuato a ricevere versioni di prima mano dagli studiosi raccoglitori di fiabe di tutto il mondo, se Andrew Lang non l'avesse costretta a pubblicare. Poi di lei non abbiamo trovato più notizie, probabilmente lasciò il suo lavoro di ricerca per accudire gli anziani genitori. Se la parentela fra le sue classificazioni e gli indici citati, tutti successivi alla sua pubblicazione, è innegabile, ed è uno dei tanti orrori della storia della cultura che non le sia stata minimamente dedicata l'attenzione che meriterebbe, occorre dire che Cox doveva ordinare il suo immenso materiale di varianti di Cenerentola, Pelle d'asino, Cordelia (Cap o'Rushes è il titolo inglese della nostra Fiaba del sale, che qui traduciamo con Cordelia, per il motivo dell'amore incestuoso del padre che caccia la sola figlia che non soddisfa la sua pretesa edipica)  o la fiaba del sale, e per questo ne ha fornito una classificazione, evidenziando sia analogie, sia differenze, come supporto alle sue trecentoquarantacinque versioni provenienti da tutto il mondo, che nel libro sono riassunte, con tutti i rimandi di rito.
Siamo in contatto con una studiosa italiana che comprendendo il valore di Cinderella; three hundred and forty-five variants... ha tradotto questa opera, senza però finora trovare un editore. Le abbiamo proposto di ospitarla nel nostro sito, e speriamo che l'operazione si faccia presto.

Tornando alla classificazione ATU, ricordiamo il parere di Propp, che rilevava come i criteri scelti non dessero alcuna garanzia di senso all'indice, assegnando lo stesso codice alfanumerico a fiabe diverse e codici diversi a fiabe dello stesso tipo.
Abbiamo citato Heidegger in esergo per la precisione con la quale liquida senza appello repertori vuoti quanto voluminosi come l'Indice ATU, e perché il suo fucile ha una potenza di fuoco tanto superiore alla nostra. Una divagazione: ci piacerebbe che anche il DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) si sentisse colpito da tanto filosofo, ma dubitiamo che accada, per quanto si tratti della potenza di fuoco maggiore del Novecento. Né accadrebbe se a quella di Heidegger si associasse la baionetta di Vladimir Jakovlevič Propp, che studiando e tabulando le fiabe potrebbe aver innescato lo strutturalismo francese. Quanto a chi scrive, non abbiamo che una cerbottana, e proiettili di carta, nemmeno avvelenati. Siamo consapevoli che potremmo al massimo produrre un fastidio pari alla puntura di una zanzara, e comunque ci conforta l'intimità di sguardo che avvertiamo con ben altri cacciatori di senso, e la loro lezione ancora poco appresa ci aiuta a sopportare sia la fatica, sia la lentezza nella diffusione di ciò che andiamo faticosamente e lietamente scoprendo. E che spesso scopriamo essere già stato scoperto e detto. (AG)


Inglese7.11 Favole e psicoanalisi


You would play upon me; you would seem to know
my stops; you would pluck out the heart of my
mystery; you would sound me from my lowest note to
the top of my compass: and there is much music,
excellent voice, in this little organ; yet cannot
you make it speak. 'Sblood, do you think I am
easier to be played on than a pipe? Call me what
instrument you will, though you can fret me, yet you
cannot play upon me. (Hamlet, Act III, Scene II)

Vorreste suonarmi, vi pare di conoscere
i miei tasti; vorreste del mio mistero estrarre
il cuore, mi vorreste suonare dalla più bassa nota
alla più alta del mio registro: e c'è tanta musica,
e una gran bella voce
, in questo piccolo organo, eppure
non sapete farlo cantare. Cristo Santo, mi credete
più face da suonare di un piffero? Chiamatemi
come uno strumento, se vi pare, ma anche se mi potete fregare,
non mi potete suonare.
(Amleto, Atto III, Scena II; tr. nostra)

Pensiamo a ogni essere umano come a uno strumento, del quale i genitori sono i primi musicisti. Qualcosa della sua musica, tanta musica, che ha dentro, si fa sentire, nel pianto, nel sorriso, nelle prime parole. I genitori cercano di eseguire al meglio i generi musicali che conoscono, e sentendo qualcosa di ignoto, che percepiscono come dissonante, cercano di modificarlo, per iscriverlo nel loro spartito. Il nuovo musicista, il soggetto, emerge presto, e tenta da subito di eseguire e far eseguire la propria musica. Dovrà accordarsi ai genitori e agli altri parenti, poi ai piccoli amici, ai compagni di scuola, ai maestri, e poi ancora ai professori, ai compagni e ai datori di lavoro, agli amanti... Farà una buona musica se saprà toccare autonomamente i propri tasti accordandosi agli altri, se potrà fare sia fare i suoi assolo sia suonare in duo, in trio e in orchestra.
Come un musicista il soggetto si allena ogni giorno della sua vita, finché il suo strumento, come è apparso, scompare. Ma la musica di ciascuno, convenzionale o rivoluzionaria, armonica o dissonante, continua a risuonare per chi gli è stato vicino, oltre l’esistenza dello strumento, molto a lungo e in tutto il mondo se il musicista si chiama Ovidio o Leonardo da Vinci, Einstein o Freud. Chi suona?

Chi dunque suona le campane di Roma?

Per giocare con questa metafora distinguiamo nell’essere umano lo strumento, il corpo, visibile dalla nascita alla morte, e il musicista, il soggetto. Come il vento, il soggetto si manifesta attraverso gli effetti visibili del suo alito, ed è questo soffio che forma e trasforma storie senza mai fermarsi. È questa parte invisibile a manifestare i suoi effetti anche quando lo strumento scompare, oltre la morte, e per molte religioni esisteva anche prima della nascita, come anima immortale, incarnata o disincarnata.
Il soggetto  è tale perché testimonia attraverso effetti visibili la sua esistenza, misteriosa per i credenti come per gli atei o i miscredenti, la cui indagine però non può contare su un'entità creatrice che conosce tutti i segreti e che potrà un giorno rivelarceli.

Siamo opera di un celebre liutaio, di uno Stradivario sui generis, che ormai non è più qui per aggiustarci. (Frederic Chopin).

Chopin lamenta la scomparsa del liutaio, mentre il non credente non può nemmeno rammaricarsi di questa assenza, né sperare di venir a capo del mistero. I falsi amici di Amleto non potranno estrare il cuore del suo mistero, che però resta inaccessibile al soggetto stesso.
Però conosciamo qualcosa: il nostro bisogno e il nostro desiderio di suonare la nostra musica, e vediamo che possiamo farlo solo insieme ad altri esseri umani, con i quali dobbiamo accordarci.
Se la musica fosse un racconto, noi siamo alla nascita un racconto che comincia con noi, prima narrato da altri, e poi da noi stessi, e poi ancora da altri, e da noi stessi, e insieme ad altri. Che esista o meno un'anima immortale, i viventi sono i soli padroni dei racconti di chi non è più al mondo, li ereditano e ne fanno ciò che vogliono, rinarrando storie e miti e fiabe che altri hanno già raccontato. Quanto poi al loro Autore, quello che per primo ha inventato una storia, dal nulla, esiste solo in teoria. Noi abbiamo molti racconti, tanti che non si possono contare, tanti che nessun catalogo li può ordinare senza far violenza alla loro varietà o senza escluderne molti, per non pensare al fatto che ci sono sempre nuovi racconti, che somigliando a quelli precedenti sono però nuovi, come i figli, che somigliano ai genitori ma non li replicano.
Che cosa sono i racconti, se non una musica scritta e suonata, registrata o perduta, recuperata e riscritta, da sempre, incessantemente raccolta e variata di generazione in generazione, e attraverso lo scambio amichevole o lo scontro feroce tra popoli, per i quali migrano e si trasformano?

Gestaltung, Umgestaltung,
Des ewigen Sinnes ewige Unterhaltung.
Umschwebt von Bildern aller Kreatur
(Goethe, Faust, Finistère Galerie)
Formazione, trasformazione,
eterno gioco dell’eterno senso.
Aleggiano immagini di tutte le creature
(Goethe, Faust, Finistère Galerie)

Come il musicista ha la capacità di suonare uno strumento facendo una musica che ad altri piace ascoltare, così il narratore virtuoso, sia Agatuzza Messia o Giambattista Basile, racconta le sue storie in modo tale che lo ascoltano non solo i suoi contemporanei, ma generazioni e generazioni, anche per secoli, sotto cieli diversi, e con mezzi, come quelli digitali, che la materassaia analfabeta di Pitrè e il grande scrittore napoletano non potevano immaginare né sognare.
A noi di Fabulando sembra di onorarli mettendo a disposizione le loro fiabe, sia come loro le hanno raccontate, sia con una traduzione italiana a fronte che permetta di comprenderle a un pubblico immenso. Non sappiamo se loro lo avrebbero gradito, ma come viventi e quindi loro discendenti abbiamo sulle loro fiabe il diritto che ogni erede ha sui beni dei suoi genitori.

Intraprende un percorso analitico un musicista col suo strumento, quando soffre senza speranza di essere ascoltato ed è tanto scontento di come suona e di come viene suonato, da voler cambiare musica. Se questa trasformazione lo appassiona più di ogni altra cosa, il percorso diventa un percorso di formazione verso la professione di psicoanalista. Il musicista allora ascolterà per tutta la sua vita professionale motivi e note e composizioni che fuori dalla sua stanza non hanno trovato un ascoltatore, nemmeno nel musicista che ha scelto di suonare con lui, che nell'ascolto metterà in risonanza il suo strumento, come un diapason ne fa vibrare un'altro vicino. Se la sua formazione è sufficientemente buona, avrà paura come tutti, come tutti sarà sconcertato, turbato o disgustato, ma invece di smettere di ascoltare - vibrando con l'altro - resterà al suo posto, seguendo il desiderio che tutto questo possa essere musica, una canzone o una sinfonia, pop o sperimentale, che il musicista che ascolta possa eseguire o cantare nella propria realtà, variandolo a piacere, quello che è risuonato per la prima volta nella stanza di analisi.

Un sogno notturno accenna un motivo, lo lascia, ne fa sentire un altro, così sembra, induce a concentrarsi e a distrarsi, può voler dire tutto o nulla, ma basta che voglia dire qualcosa per il duetto intento a suonare, improvvisando, e a un certo punto, come per magia, è musica, buona musica.
Nessuno Stradivari è convocato, di nessun liutaio si lamenta l'assenza, c'è solo della musica, frammentaria, ripetitiva, dissonante, a prima vista insignificante e d'improvviso stupefacente. A differenza delle reazioni che il paziente ha sperimentato e sperimenta nella vita, e delle sue stesse reazioni, di condanna o assoluzione, di  apprezzamento o di stroncatura, il paziente scopre che qualcuno lo ascolta senza giudicarlo. L'analista ascolta l'altro grazie all'allenamento, che va continuato ogni giorno, proprio come fanno i musicisti, grazie al quale si muove con una certa scioltezza sul proprio strumento, e grazie alla competenza teorica che gli permette di immaginare un senso anche ascoltando i suoni più bizzarri.
Si muovono nei due musicisti affetti, pulsioni, emozioni, ricordi, di ogni colore e intensità, ma in una stanza nella quale la vita di ogni giorno resta fuori dalla porta, dove la lascia, entrando, il paziente, e dove la ritrova uscendo. Lo psicoanalista non segue il paziente nella sua vita quotidiana, e se il paziente non vuole tornare nella stanza dell'analisi può farlo, e lo fa, sia quando si interrompe un'analisi, sia quando l'analisi finisce con entrambi i musicisti d'accordo nello scioglimento del duetto.
Per quanto parziale, questa doppia metafora della musica e del racconto, dovrebbe introdurre la passione psicoanalitica per le fiabe, che è il filo conduttore primario di Fabulando.
Le sessantasei
fiabe incluse in questo progetto appartengono al genere fiaba, che viene pubblicato per la prima volta a Venezia nel XVI secolo e ha la sua prima raccolta a Napoli nel XVII, per diffondersi in Italia e in Europa sia nelle comunità illetterate che fra raffinati scrittori, come Perrault e i Grimm. Non abbiamo aperto il capitolo immenso delle influenze orientali sulla costituzione di questo patrimonio e sul suo incremento, del resto la forma prevalente delle fiabe più diffuse è rimasta quella europea, fissata dal XVI secolo. Una forma che non chiede alcuna giustificazione esterna alla narrazione stessa, che non giustifica nulla né risolve nulla. Una forma che non spiega la realtà, né aiuta ad accettarla, non suggerisce comportamenti virtuosi o efficaci, non distingue il possibile dall'impossibile se non nelle formule di apertura e chiusura, e proprio per questo può dipanarsi fra accelerazioni e rallentamenti, metamorfosi e incantesimi, corpi e paesaggi e relazioni realistiche.
Ci si può immergere nella fiaba come si entra nella stanza d'analisi: la nostra vita concreta resta fuori, e la ritroviamo alla fine della seduta come alla fine della fiaba si ricorda che l'alterazione magica delle distanze, dei tempi e dei corpi non è più possibile: stretta la foglia - o, anche: la soglia - larga la via / dite la vostra, che ho detto la mia. Il discorso comune della fiaba, dove narratore e ascoltatore partecipano della stessa meraviglia, torna ad essere il discorso del solo narratore, che lascia il suo ascoltatore con il suo discorso, la sua storia, la sua musica..
Un'analogia quindi, è quella che tentiamo accostando psicoanalisi e favole, intese come storie che possono dire e non dire cose vere e false. Mescolandole? No, attingendo a un livello espressivo dove non sono separate, anche se, nel momento in cui vengono espresse, partecipano in qualche modo della separazione fra vero e falso, possibile e impossibile, reale e irreale. Questo livello espressivo si chiama inconscio, e quindi come tale non esiste, ma si segnala, è un postulato, ha effetti. Come il vento. Come l'anima. Noi ci prendiamo cura di questi effetti, e anche se continuiamo a non saper nulla del vento, abbiamo un bel daffare, e sentiamo che dovremmo fare col massimo rigore:

Compito urgente, essenziale: creare una logica dell’assurdo.
Definire nei limiti del possibile il criterio del vero e del falso nell’ambito trascendente in cui la contraddizione è legittima, l’ambito del mistero.
Occorre più rigore in questo ambito che in matematica.
Un rigore nuovo, di cui oggi non si ha idea.
Il criterio è che un’assurdità vera è un riflesso, una trasposizione, una traduzione di una delle assurdità irriducibili della condizione umana.
Occorre dunque indagare su queste assurdità irriducibili.
(Simone Weil, p. 64)

Tornando al nostro Fabulando, offriamo fiabe perché le consideriamo ponti, mediatori, fra sé e l'altro, fra l'assurdo che ci abita e il comprensibile al quale tendiamo per vivere insieme agli altri. Fiaba per fiaba, senza un programma, quasi irregolarmente, abbiamo cercato di parlare di questo. Il concetto chiave della successione è il legame fra le fiabe, che non le vincola, ma le fa risuonare fra loro. Nelle fiabe questo concetto articola in maniera viva e mobile la questione di Edipo, l'eroe tragico per eccellenza, la cui tragedia è stata assunta da Freud per dire il nucleo centrale dell'esperienza umana.
Nella successione vita e morte si incontrano, l'eredità, il patrimonio umano viene lasciato da una generazione e accolto dall'altra. Si vince la morte con la morte, perché morendo gli uni gli altri acquisiscono padronanza. Come potrebbe questo essere semplice? Quale utopistica equipe di scienziati di ogni disciplina potrebbe descriverla esaurientemente?
Il soggetto si pensa come infinito, mentre sa di avere un inizio e una fine, che oltretutto non dipendono da lui, a meno che non tolga alla morte il suo lavoro. Come può questo essere semplificato?
C'è tanta bella musica, e voci bellissime: le fiabe offrono piccoli echi a ogni singola voce.
Le vecchie fiabe sono matrici delle fiabe nuove, ma non genitrici: la loro sopravvivenza non conosce il conflitto dell'identità che vorrebbe ripetersi narcisisticamente nei discendenti o essere immortale. Il loro soffio non dipende da un corpo, la loro trasmissione è culturale, non biologica, e la loro ricchezza si accresce ogni volta che qualcuno la utilizza secondo il suo estro. I bambini lo sanno, e se in una classe si racconta una fiaba, come quelle che si trovano in Fabulando, la gerarchia fra bravi e non bravi si dissolve. Magia? No, certo, è piuttosto la geometria segreta delle fiabe, che, se è impossibile da definire, non per questo deve qualcosa a misteri accessibili agli iniziati. La fiaba è di tutti, perché di tutti racconta da secoli, miserabili e sovrani, creature sgraziate e bellissime, animali e fate, e orchi e streghe. Non c'è nulla di brutto o bello, da desiderare o da evitare, che non possa trovarsi in una fiaba.
Mi si presenta ora una bambina di prima media,che ho incontrato molti anni fa, e della quale ho già scritto, e mi pare che voglia concludere questa nota su Favole e psicoanalisi. Pallida e silenziosa, la bambina non parlava e non scriveva con i compagni, mentre l'insegnante la sollecitava a partecipare, il suo sguardo mi pareva implorasse di lasciarla nel suo silenzio.
Un giorno nella sua classe racconto La bella prigioniera, una fiaba di Straparola. Tre fratelli tornano dal loro povero padre, che avevano lasciato per cercar fortuna. Fra le ricchezze conquistate grazie alle loro straordinarie abilità, c'è una meravigliosa fanciulla che hanno liberato dalla torre nella quale era stata prigioniera da chissà quanto tempo, e mentre dividono equamente monete d'oro e pietre preziose, litigano sulla bella prigioniera. Straparola conclude la storia dicendo che andarono da un giudice perché risolvesse la questione, ma il giudice non ne venne a capo, e la affidò al suo successore, e così via, fino ad oggi.
A questo punto i bambini decisero di proporre loro una soluzione: qualcuno diceva che la doveva sposare il padre, così la famiglia sarebbe stata completa, altri assegnavano la Bella a quello dei figli che pareva loro determinante. A un certo punto una bambina disse che avrebbero dovuto chiederlo all'interessata, ma io feci notare che la bella prigioniera non parlava. Quando me ne chiesero la ragione, dissi che non lo sapevo: loro che ne pensavano? Allora ciascuno di loro scrisse qualcosa, e quando, a casa, lessi i loro brevi testi, scoprii che anche quella bambina aveva cominciato a suonare insieme a noi.

La pricepesa non parlo / 
ma stando nel / castello buio / che non parla con nessuno.

La bambina lasciava il suo silenzio come la Bella prigioniera aveva lasciato la sua torre, e ci diceva che il suo lungo isolamento, che siesprimeva nel suo silenzo, dipendeva dalla solitudine. Si poteva sposare con il padre o con uno dei fratelli, o aspettare la decisione del giudice, dal XVI secolo a Venezia al XXI in Toscana. Ma poteva finalmente parlare, e avrebbe continuato a farlo. (AG)





IngleseAncora...



Ancora... ancora... ancora...
Ancora un racconto, un'altra fiaba, poi una storia più complessa e ricca di meraviglie, poi un romanzo, quando l'altro che ci racconta storie mentre passiamo dalla veglia al sonno è ormai incorporeo come i sogni.
E quel singolare fenomeno, esperienza comune, di quando il narratore o la narratrice cadono nel sonno prima dei bambini, quando si continua a raccontare, ma le parole sono fuori posto e la trama scompare?
Mio figlio da bambino mi richiamava con un tocco leggero, diceva: - Mamma, mamma... non era così...
Mia nipote, otto anni, mi richiama con lo stesso tocco leggero: - Nonna, nonna! Ma che stai dicendo?
Suo fratello, due anni e mezzo, fino a poco tempo fa chiedeva filastrocche e canzoncine, ora ascolta fiabe come lei e quando riemergo da quel sonno breve lo vedo scrutarmi con la stessa attenzione.
La narratrice torna in un batter d'occhio, sorrido e ricomincio a raccontare come si deve. Vedevo il volto di mio figlio incuriosito e imbarazzato, vedo quello di mia nipote incuriosito e divertito dalla mia defaillance, mi sentivo, mi sento, colta in fallo, ma solo per qualche istante.
Saranno i neuroni specchio, che attivano il nostro strano sonno per realizzare il desiderio che i bambini finalmente si addormentino, e smettano di impegnarci anima e corpo? Sarà che la dedizione che i bambini richiedono costringe quasi a dimenticare se stessi, e per questo qualcosa ci sottrae a loro, addormentandoci senza che lo vogliamo? Di certo la stanchezza irresistibile che abbiamo sentito scompare istantaneamente appena i bambini dormono.
Ma resta difficile da spiegare, perché questa esperienza del narratore che subisce il fascino di se stesso interrompendo la veglia non ha rapporto con una maggiore stanchezza oggettiva o con un particolare desiderio di tornare a qualche occupazione interrotta per addormentare i bambini.
E poi, da dove viene il regista onirico che toglie il controllo della scena prendendo il posto del narratore e comandando ai personaggi, alle vicende e alle parole, di giocare un'altra trama, apparentemente priva di senso? Come per incantesimo, tutta la storia entra al suo servizio, segue altre regole, forse quella frase sconnessa che svanisce al richiamo del bambino, lasciando però una traccia della sua presenza, è il movimento degli attori e dei trovarobe che si spostano dalla scena della veglia, dove noi raccontiamo e i bambini ascoltano, alla scena del sonno e del sogno, dove la troupe è tutta dentro. Dentro a cosa? cervello, neuroni, anima?
E poi, quale demiurgo burlone ci fa muovere gli occhi come se seguissimo una scena reale, o su uno schermo davanti a noi, mentre sognamo? A occhi chiusi, dove guardiamo? Che senso ha dirigere lo sguardo a destra o a sinistra se le palpebre velano gli occhi? Non possiamo dimenticare questo paradosso, innocuo a quanto sembra, ma comune a tutti e reale, come quello, raro, delle voci che nel delirio schizofrenico il soggetto percepisce come vere e reali.
Come mio figlio da bambino, i suoi bambini Sofia ed Ettore in quegli istanti si trovano soli, e spetta a loro pronunciare la parola sensata della veglia per far riemergere la mamma o la nonna dal sonno. Mi piace pensare che la loro curiosità perplessa o divertita testimoni la presenza di un soggetto autonomo che trae forza dalla nostra defaillance. Se noi non ci siamo più, ci sono loro, come ci saranno quando noi avremo chiuso gli occhi per sempre.

Elvio Fachinelli avvertiva molti decenni fa dello slittamento della psicoanalisi da scienza delle domande a scienza delle risposte, come se lo psicoanalista si facesse accompagnare, per così dire, da un automa-sfinge di sua fabbricazione, col marchio della sua scuola di appartenenza, un robottino pronto a fornire una risposta a qualunque enigma possa essere posto da chiunque. Saremmo proprio sciocchi se pensassimo che la sfinge - colei che pone enigmi fino a soffocare chi non sa rispondere - precipitandosi nel burrone dopo la risposta pertinente di Edipo, sia morta. Le creature mitiche, non essendo vive, non muoiono, sono e insieme non sono, come i sogni che circolano fra i nostri neuroni e ci fanno muovere gli occhi per seguirli. Il significato della reazione apparentemente suicida della sfinge è che ha liberato la strada di Tebe, che non può più impedirci di raggiungere la città, l'ecumene, ma continua a interrogarci e stringerci dall'abisso con fondo e senza fondo dove scivoliamo ogni notte.
I nostri bambini non hanno ancora imparato a tollerare con qualche
méchanos, qualche trucco o espediente ingegnoso, la presenza della nostra assenza, per questo hanno bisogno che stiamo loro accanto quando si addormentano, per questo hanno paura del buio e piangono e ci chiamano dopo un incubo.
Se non riusciamo a pensare e agire dimenticando l'abisso nel quale si è precipitata la sfinge, l'abisso connesso alla condizione umana, all'avvicendarsi delle diverse età e delle generazioni, non diventiamo adulti. Ma se ci convinciamo che questo abisso non esista, se non riconosciamo l'eco delle questioni poste dalla sfinge che si prolunga in tante forme nel giorno, siamo adulti inutili a noi stessi e agli altri. Dimenticare la sfinge è cadere noi stessi nel burrone, e siccome siamo vivi, possiamo morire. La sfinge è custode della via chiusa e della via aperta, dell'ostacolo insormontabile e di quello che si può superare, attesta l'esistenza di una logica assurda per la coscienza, ma non meno vera ed effettiva di quella della veglia. La sfinge, una sfinge piccola come il grillo canterino di Nardiello, è il terzo personaggio che per un batter d'occhio appare fra l'adulto che si addormenta e il bambino che lo fa tornare alla veglia, perché riprenda la sua funzione di narratore.

La fiaba ricomincia, e alla vaghezza della sfinge subentra quella degli abiti di sole e di luna di
Pelle d'asino, che non ci sono e ci sono, viaggiando sottoterra insieme a lei. La discontinuità perturbante dei nostri stati è nelle fiabe la trasformazione di Nardiello da disgraziato gettato nella fossa dei leoni a legittimo sposo della principessa, che implica anche un cambiamento d'aspetto del quale le meraviglie della chirurgia estetica sono risibili imitazioni. La dissoluzione dei confini di spazio e di tempo che viviamo regolamente nei nostri sogni, e che speriamo di non sperimentare mai nei deliri della follia o della demenza senile, trovano espressione nelle fiabe: dodici pezzetti della focaccia di Fiore, divisa dalla giovane per rispondere alla richiesta delle fate, bastano perché lei, povera e vessata dalla matrigna, abbia capelli dai quali cadono oro e perle ogni volta che si pettina, mentre a ogni parola sulla bocca le sboccia un fiore.
Gli incantesimi hanno almeno due direzioni: in un batter d'occhio sette fratelli diventano
I sette piccioncini, quando la loro sorella coglie un ramo di rosmarino dalla fossa dell'orco, ma altrettanto rapidamente ridiventano sette bei giovani, quando la stessa sorella ha vissuto un bel po' di avventure. La fiaba, a differenza del sogno, a differenza della sfinge, a differenza del mito classico, racconta sempre che si può presentare qualcosa, mettendosi a cercarlo perché non se ne può fare a meno, anche se non si sa dove sia, quando si troverà, e nemmeno cosa possa essere, qualcosa che consentirà di ribaltare l'incantesimo negativo, o di liberarsi e liberare da una condanna. In Fabulando abbiamo raccolto questa condanna originaria, ovvero la sentenza che causa l'avvio del racconto, con la chiave della successione, senza dimenticare che il passaggio di beni e di debiti fra le generazioni è una questione ben reale, che riguarda tutti, presi singolarmente o come insieme.

Abbiamo tentato, come tanti prima di noi, di definire cosa siano queste preziosi fenomeni, animali parlanti, fate, orchi, piante che fanno bocca della corteccia, come la quercia dei
Sette piccioncini, o mandorle e nocciole, che rompendosi al momento giusto producono galanterie preziosissime. Non pensiamo che indagare la loro realtà simbolica sia inutile, e anche in Fabulando si trova qualche esempio di interpretazione, ma quel che più ci sta a cuore è la loro natura minuscola, trascurabile, più facile da ignorare che da guardare, da scartare come insignificante più che da prendere e custodire per farne il proprio tesoro, come la bambola popoavola di Adamantina o lo scarafaggio, il topo e il grillo di Nardiello.

Se richiamo alla mente e al cuore lo sguardo di mio figlio bambino o dei suoi figli quando mi richiamano da quel sonno irresistibile, immagino che la fiaba, se, come credo, ha qualche utilità, sia questa: non trascurare nulla, il tesoro può essere in una mandorla, in un grillo. Può indicarti la strada una stracciona, una piccola volpe, una quercia o una formica, o un gomitolo che lanci in una radura, per seguirlo come ti ha suggerito il più vecchio di tre vecchissimi fratelli.
Quando nulla e nessuno ti aiuta a uscire da una situazione nefasta, sperimenta qualcosa di nuovo, intorno a te ci può essere qualcosa, se guardi bene, se hai ancora quella forza delicata che ti faceva svegliare il narratore addormentato, che tornava a prendersi cura di te grazie alla tua vigile attenzione, la sola rimasta.
Ancora... ancora... ancora... che non abbia mai fine il desiderio di non precipitare nell'abisso della sfinge, di scivolare nel sonno con tutta la dolcezza possibile, perché è solo così che si riemerge al mattino con qualcosa di nuovo, che viene dalla veglia, ma che durante la veglia non avevamo visto, sia un aiuto prezioso, sia la consapevolezza di un dolore o di un bisogno, che non aveva potuto affiorare. Il sublime, la categoria estetica che trascende la separazione fra bello e brutto, fra desiderabile ed esecrabile, ha un etimo incerto ma affascinante: sub-limen, sotto la soglia. Stretta la soglia, larga la via, / dite la vostra che ho detto la mia, è una delle più diffuse formule di chiusura delle fiabe popolari. La soglia è una linea da varcare, divide la vita del giorno e della notte, che sono spazi di innumerevoli stanze e pianure e monti e mari e fiumi, come quelli piccoli della nostra Carta fiabesca della successione. Ma come si varca la soglia è l'essenziale della nostra presenza umana, lo stile col quale si affronta quotidianamente questa discontinuità, non solo nel passaggio fra veglia e sonno, ma nelle emozioni violente che ci strapazzano e ci fanno volare e precipitare, come la passione e l'ira, fra il malessere e il benessere di cui non sappiamo la ragione, nei ricordi che si formano e si trasformano e si eclissano e tornano a splendere. Narratore e ascoltatore sono accanto alla soglia, si parlano e si ascoltano. La soglia è una linea, non un luogo, qualcosa da varcare, non da abitare. Non ha spessore, come la retta nella geometria euclidea, somiglia ai sogni, ma ci serve a separare, distinguere, discernere.

Quando il narratore si addormenta, precipitando per un istante nell'abisso, il bambino lo richiama, perché dopo i due anni è già abbastanza esperto di soglie da sapere che si può varcarle in entrambe le direzioni, come si possono ottenere da orchi e fate sia doni, sia danni. Ma questa attitudine del bambino, e del soggetto in genere, a risvegliare chi ha la funzione di prendersene cura, questa capacità di tollerarne l'eclisse repentino, non può dispiegarsi se non brevemente. Per non essere soffocati dalla sfinge ci vuole una storia, prima una filastrocca, poi una fiaba, poi una storia lunga e affascinante come quelle delle
Mille e una notte, poi un bel romanzo. Ancora... ancora... ancora...

Confessiamo infine, ora che dobbiamo lasciare tante domande senza risposta, pubblicando questo nostro lavoro con tante imperfezioni, lacune, errori, che non siamo riuscite a finirlo, perché alle trentotto fiabe della raccolta di Fabulando qualche mese fa abbiamo aggiunto altre fiabe, prima Hansel e Gretel e L'Augel Belverde, poi Pelle d'asino e Le tacconelle di Maria di legna. E poi ancora fiabe, che dovevano essere trentotto, e invece sono sessantasei, e altre ce ne sono in preparazione. Molte volte, oltre a fare le carte e gli e-book delle nuove fiabe, abbiamo rifatto le carte delle ingiunzioni e dei quadranti, per aggiungere i nuovi titoli. Poi abbiamo rifatto le mappature che consentono di viaggiare in
Fabulando con il click e il touch, lievi e rapidi come una magia, per poi ricaricare tutto online, e-book, file html e immagini, con tutti gli errori da correggere che si manifestano in queste operazioni. Dopo tutto questo, finalmente, abbiamo preso coscienza che anche noi, narratrici e ascoltatrici allo stesso tempo, come i bambini chiedevamo e ottenevamo ancora fiabe, ancora... ancora... ancora...

Lasciare un lavoro non è come addormentarsi, ma è un passaggio di stato: il frutto del nostro lavoro, finché lo ampliamo e lo cambiamo è ancora nostro, quando lo consideriamo concluso, anche se è la prima espressione di un progetto che vorrebbe restare aperto, se ne va per il mondo da solo, come un bambino che comincia ad andare a scuola, come un adolescente che per la prima volta prende il motorino o viaggia da solo per l'Europa. Allora un patrimonio, il nostro, quindi prezioso, per quanto piccolo e anche difettoso, potrebbe fallire, scomparire, vanificarsi. Meglio tenerlo ancora, migliorarlo, arricchirlo, ancora... ancora... ancora...

Ma bisogna lasciarlo andare, e sperare, o pregare. La sfinge soffoca sia chi varca troppo presto la soglia, sia chi si attarda cedendo alla paura. Il bambino ha bisogno di restare nove mesi nel grembo materno, se vi si trattiene più a lungo rischia di morire, come se prima del tempo viene al mondo.
Il bambino ha bisogno di addormentarsi. Il bambino ha bisogno di restare sveglio. L'adulto a volte si addormenta al suo posto, ma le fiabe e i romanzi permettono a entrambi di ritrovarsi. (AG)











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ultima revisione 26 gennaio 2024